
Quali interrogativi insoluti ci pone il testo della tragedia di Sofocle?
Il processo interpretativo di un’opera d’arte non ha mai fine e di sicuro non abbiamo, direi fortunatamente, conquistato tutte le possibilità di comprendere l’Antigone di Sofocle, che resta per molti versi un’opera enigmatica. Forse più di altri drammi, questa è una tragedia di aspri conflitti, costruita simmetricamente su reciproche contrapposizioni: Creonte versus Antigone, certo, ma anche Antigone versus Ismene così come già Eteocle versus Polinice. Un altro drammatico conflitto è quello tra generazioni, la nuova, rappresentata da Emone, e la vecchia, più intransigente e autoritaria, incarnata da Creonte, suo padre. Molte delle domande poste dall’Antigone non possono avere risposte definitive, categoriche e anche per questo motivo Antigone non smette di essere un organismo vivo e un costante stimolo, intellettuale ed emotivo. Tra gli interrogativi ‘insoluti’, numerosi coincidono con interrogativi universali, che accompagnano l’uomo da secoli. Eccone alcuni: come può una legge, che dovrebbe essere scritta da uomini secondo Giustizia, essere ingiusta? Quale deve essere l’atteggiamento del singolo di fronte a una legge o norma che reputa ingiusta e lesiva della propria persona? Che tipo di ribellione è quella di Antigone? Perché una giovane donna riesce con il suo gesto, un gesto semplice e non violento, a destabilizzare e distruggere un potere che sembra solidissimo? Cosa valgono di più, le ragioni del cuore e dei legami familiari o quelle dello Stato e della comunità? Sul senso dei legami familiari e della famiglia l’Antigone, con il mito tebano tutto, pone interrogativi sostanziali, come ha mostrato, tra l’altro, la lettura di una delle sue più acute interpreti, Judith Butler. In che modo e fino a che punto il potere religioso, rappresentato nell’Antigone da Tiresia, può intervenire in questioni di Stato? Non è forse la forza del destino, nel caso specifico di un destino maledetto, più potente del potere, di ogni potere, e più forte dei vincoli familiari?
Cosa significano nel pensiero giuridico le ‘leggi non scritte’ di Antigone?
Sul pensiero giuridico elaborato sotto il segno di Antigone e le sue ‘leggi non scritte’ aleggia costante il paradigma del mito rielaborato da Sofocle. Sono innumerevoli gli studi sul tema, tra gli ultimi, nel nostro libro, il saggio Antigone e la questione giuridica, in cui Gherardo Ugolini ha esaminato e interrogato criticamente alcuni essenziali contributi sulla questione dati da magistrati, politici, giuristi a partire da Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, 1946). Ugolini passa in rassegna anche le discussioni più recenti sull’argomento, come quelle di Gina Gioia e Angelo Schillaci, in due saggi apparsi nel bel volume Sulle tracce di Antigone. Diritto, letteratura e studi di genere, 2018 (a cura di Paola Del Zoppo e Giuliano Lozzi), e ancora i più noti contributi di Marta Cartabia e Luciano Violante (Giustizia e mito, 2018), nonché l’intelligente dialogo sul tema di due magistrati, Livio Pepino e Nello Rossi (Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, 2019). Direi che è d’obbligo iniziare da Calamandrei. A dispetto del tempo trascorso, sono ancora pietre le parole pronunciate dal giurista sulle sentenze di condanna del Tribunale di Norimberga, emesse nei confronti di alcuni dei principali artefici di crimini contro l’umanità tristemente noti. Affrontando il dibattuto tema dell’obbedienza alle leggi ‘scritte’ dei Creonte della storia, fra cui Hitler, Calamandrei ha usato il modello Antigone per richiamare l’attenzione su valori universali, su norme ‘superiori’ rispetto a quelle dei codici: «Le leggi, non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone; le “leggi dell’umanità” che furono fino a ieri una frase di stile relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali – queste leggi hanno cominciato ad affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come vere leggi sanzionate: l’“umanità”, da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico». Come noto, anche in tempi più vicini a noi il mito di Antigone è spesso evocato nel pensiero giuridico, rappresentando ancora un valido terreno di confronto e discussione su principi e temi di primo piano. Ricorre, così, nel libro di Gustavo Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune (2009), che inizia proprio con gli agrapta nomina antigonei, la cui piena comprensione – si sottolinea – è legata al loro contraltare: la legge dello Stato. È in effetti dal reciproco disconoscersi di Antigone-ius e Creonte/rappresentante dello Stato-lex che si innesca, nell’Antigone, l’insanabile conflitto tragico. «La lex senza ius diventa fragile e al tempo stesso anche tirannica, e hegelianamente si rivendica la necessità della coesistenza del “diritto” di Antigone con la “legge” di Creonte, dal momento che», scrive Ugolini, riprendendo un altro pensiero di Zagrebelsky (in Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, 2006), «il diritto senza legge è cieca conservazione; la legge senza diritto è puro potere dispotico». La via maestra per governare scontri giuridici, e politici, è data così dalla ricerca della complementarietà delle istanze incarnate dagli antitetici personaggi sofoclei (si veda anche quel che ha scritto Luciano Violante in Giustizia, cit.). In molta ermeneutica giuridica, il rilievo dato da Antigone alle ‘leggi non scritte’ ha reso l’eroina tragica simbolo del giusnaturalismo, del «diritto stabile e profondo dei legami naturali» che viene affermato in antitesi al positivismo giuridico, alla «legge pubblica dello Stato (dunque diritto positivo, legalità), di per sé artificiale e mutevole» (Ugolini). Nel dialogo fra Pepino e Rossi (Il potere, cit.), teso a ripercorrere i principali stadi esegetici della «tragedia civile» di Sofocle e a mettere in discussione idee diffuse e assodate, Antigone è sì la sostenitrice della legge naturale, la latrice di un’etica alta, la ribelle contro una legge dello Stato ritenuta ingiusta, ma è anche un’integralista, mossa da convincimenti settari di tipo religioso – le leggi non scritte «sono quelle che si dicono increate […] o dettate dal Dio a un prescelto o connesse in modo inestricabile alla natura umana più profonda» (Rossi) – e dalla difesa dogmatica dei legami di sangue. Lo spettro delle interpretazioni giuridiche degli agrapta nomina è dunque ampio e include anche visioni negative (G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, 2016). «Rinegoziare continuamente i limiti della legalità e dell’obbedienza alla legge in un processo collettivo di correzioni e adeguamento del diritto per dare risposte sensate, senza alcun rigetto aprioristico, alle possibili forme di trasgressione e contestazione» (Ugolini) sembra pertanto la prassi migliore. Infine, una notazione che ritengo necessaria: benché nelle letture giuridiche prevalga la detta corrispondenza Antigone-giusnaturalismo, Creonte-diritto positivo, il nesso fra leggi non scritte e diritto naturale è «una costruzione posteriore (in fondo uno di quegli “abusi” legittimi e produttivi di cui si è parlato all’inizio [del saggio, n.d.r.]). Le leggi cui si richiama Antigone non solo non hanno a che fare con una loro pretesa origine naturale, ma rappresentano una costante della drammaturgia sofoclea, ricorrente in diversi drammi, e per lo più connessa strettamente con il tema del diritto di sepoltura, quel diritto che Antigone reclama per il fratello morto e che Creonte nega mediante uno specifico decreto» (Ugolini nel paragrafo Nomos e physis). Questo snodo del ragionamento si chiarifica e completa in Il ghenos, la philia e in Le “leggi non scritte” del diritto gentilizio ateniese, paragrafi che invito a leggere per i molti e fecondi input al quesito posto.
Si può parlare di un ‘modello Antigone’ nella critica letteraria e nella scrittura delle donne?
Sulla scia di una difficile interpretazione della tragedia, data all’inizio dell’Ottocento dal poeta Friedrich Hölderlin, ‘modello Antigone’ significa sovvertimento di qualsiasi ordine stabilito, di tipo politico, sociale, ma anche poetico: in questo senso ha parlato di ‘modello Antigone’ uno studioso di teatro, Hans-Thies Lehmann, il cui nome è noto ai più per il teatro postdrammatico. Per Lehmann tale ‘modello’ non ha nulla a che vedere con la scrittura delle donne. Lehmann, piuttosto, contrappone la propria idea di ‘modello’ al celebre ‘modello Antigone’ di Bertolt Brecht, ossia alla raccolta di note di regia, foto, appunti presi dal drammaturgo tedesco durante il lavoro di messa in scena della sua Antigone (1948). Il ‘modello Antigone’ di Brecht diventa un ‘modello’ nella storia del teatro, un documento prezioso del contributo del regista, degli attori, dello scenografo, del costumista, del musicista, delle maestranze tutte, alla concezione di uno spettacolo, con l’occhio rivolto al pubblico e al suo coinvolgimento. Anche in questo caso, il ‘modello Antigone’ non ha nulla a che vedere con la critica letteraria e la scrittura delle donne. Piuttosto, una ‘Antigone modello’ è quella che si è venuta a delineare attraverso un certo femminismo che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha fatto proprio il mito di Antigone e ha avanzato nuove interpretazioni, interessanti specie dal punto di vista filosofico dal momento che esse sono nate come risposta sia a Hegel, che aveva visto in Antigone la personificazione del diritto di famiglia, sia a secoli di esegesi del testo secondo prospettive maschili. Nel mito antigoneo, parte del femminismo e del post-femminismo ha inoltre voluto vedere anacronisticamente varie rivendicazioni di genere ante-litteram: dunque, si potrebbe dire, ‘Antigone modello’ di e per queste rivendicazioni. Come altre protagoniste della tragedia greca, Antigone invita in effetti a ragionare sulle specificità di genere: un invito che è stato raccolto da studiose come Elena Porciani, autrice del libro Nostra sorella Antigone (2017) e che è stato in parte ripreso dalla Porciani per nuove declinazioni nel saggio Antigone nell’epoca dell’infotainment. Dalla tragedia sofoclea al melodramma mediatico, pubblicato nel nostro volume. Qui è stata richiamata l’attenzione, da Monica Farnetti, su opere teatrali del Cinquecento in cui Antigone insieme a Ismene costituisce un ‘modello’ di sorellanza, modello anzitutto poetico e letterario. Per concludere, che il mito di Antigone sia e sia stato fonte di ispirazione per poetesse, scrittrici, pensatrici, come Lou Salomé o Hannah Arendt, di cui si sono occupati per noi Paola Del Zoppo e Giuliano Lozzi, appare quasi scontato, ma parlare di ‘modello Antigone’ nella critica letteraria e nella scrittura delle donne, senza una serie di premesse e puntualizzazioni (si veda ad esempio il citato saggio di Paola Del Zoppo), non è opportuno.
Quali rappresentazioni iconografiche ha assunto il mito?
Se il dialogo fra il mito di Antigone e la letteratura, il teatro, il diritto, la psicanalisi, il pensiero politico è stato fertile e dinamico e, al contempo, oggetto di molte, svariate indagini critiche e interpretative, lo stesso può dirsi solo in parte per le iconografie, che hanno ricevuto poca attenzione, cosicché risulta semiscoperto un segmento significativo della polifonia di ideazione, ricezione e re-invenzione di questo mito. La storia delle immagini antigonee inizia in età classica e, tra salti e interruzioni, giunge alla contemporaneità. Concentrandomi sulle iconografie in vasi prodotti e/o circolanti in Grecia, Magna Grecia, Sicilia fra IV e II sec. a.C., di cui mi sono occupata nel saggio intitolato appunto Controcorrente, nel libro di cui stiamo parlando, do una parziale risposta alla domanda. Proprio nei periodi e contesti culturali più vicini alla tragedia sofoclea, la chiave di volta per la ricezione del mito nel mondo delle immagini non è stato questo dramma, certo non in misura determinante. I ceramografi, che hanno liberamente rielaborato la figura di Antigone tenendo conto delle prerogative e finalità della loro techne, degli stimoli del mercato, della cultura e società del tempo, sembrano aver considerato versioni del mito suggerite principalmente da altre tragedie sofoclee (Edipo re; Edipo a Colono), dall’Antigone di Euripide e/o di drammaturghi di IV sec. a.C., dalle Fenicie, da commedie. Iniziando dalle prime re-visioni (IV sec. a.C.), Antigone appare figlia e sorella, soprattutto di Ismene: è così, ad esempio, sul corpo di un cratere (Pittore di Capodarso) trovato a Siracusa, in una tomba, spazio rituale dove l’universo della casa/famiglia ha particolare valore. L’immagine allude a momenti chiave dell’Edipo re incentrati sull’imminente deflagrazione dell’oikos. Il Pittore inserisce le piccole figlie-sorelle nel frangente in cui Edipo viene a conoscenza della tragica verità che lo riguarda e, attraverso questa scelta, l’artigiano rappresenta l’idea del disfacimento di un ghenos malato che non risparmia nessuno, nemmeno i figli che anzi, essendo i più indifesi, sono i più esposti alla contaminazione. Antigone e Ismene, legate da una tragica sorellanza, hanno però due destini diversi. Il Pittore li lascia presagire, differenziando gesti e atteggiamenti: nella sorte di Ismene pare aprirsi uno spiraglio alla speranza di sopravvivenza, in quella di Antigone invece si riverbera il nero fato del padre-fratello e la conseguente impossibilità di riscatto dal dramma familiare. La funzione filiale e sororale di Antigone spicca anche in un’anfora lucana (Pittore di Brooklyn-Budapest) e in un cratere apulo (cerchia del Pittore De Schulthess), allusivo all’Edipo a Colono. Qui Antigone, raffigurata mentre partecipa al conflitto familiare e di potere tra padre (Edipo) e figlio (Polinice), si fa immagine di una difesa tutta ‘al femminile’ del padre esule, caratterizzata da affetto, cura, protezione di colui che è pilastro del ghenos. È verosimile ritenere che, in queste vesti, la figlia di Edipo potesse costituire uno specchio o un modello per le donne delle famiglie gentilizie apule. Anche di Antigone ‘protettrice’ di Polinice esistono racconti per immagini. La memoria della trasgressione del divieto di seppellire il fratello era diffusa anche fuori Atene, ma con significati diversi da quelli avuti nel teatro di Dioniso. Su due anfore apule, una del colto Pittore di Dario, Antigone, rea di aver infranto il veto di Creonte, è condotta prigioniera tra lo sposo Emone, il figlio, Creonte, Eracle e altri personaggi. In entrambi i vasi, i ceramografi hanno voluto enfatizzare gli esiti destabilizzanti della cattura della donna sui legami familiari, hanno voluto dare risalto all’amore tragico fra Antigone ed Emone e, infine, mostrare il nevralgico intervento di Eracle-deus ex machina. La condizione di Antigone e le relative dinamiche svelano altri volti della donna presenti solo qui, vale a dire quelli di moglie e madre, che sembrano riprendere e risemantizzare quelli dell’Antigone nell’omonima tragedia di Euripide e/o di tragediografi di IV sec.. Più vicina all’Antigone sofoclea, paladina della sepoltura del fratello, è la figura femminile dipinta in una nestoris lucana (Pittore di Dolone). Anch’essa prigioniera, è sola al cospetto di Creonte, colpevole di pietoso amore verso il fratello-guerriero. Il Pittore si concentra su due questioni: la rivendicazione da parte della donna di aver compiuto un’azione ineludibile per un essere umano – il seppellire degnamente –, un’azione quindi lecita, nonostante e a dispetto delle interdizioni dall’alto; l’inderogabilità della sepoltura di un familiare sempre, anche se si è soli contro il potere e i suoi divieti. Nelle raffigurazioni di IV sec. a.C. viene dunque toccato soltanto in modo implicito e parziale l’antagonismo Antigone-Creonte, che è invece polo d’attrazione della ricezione moderna e contemporanea del mito di Antigone, e appena accennata – nella nestoris – la valenza politica insita nello scontro mortifero fra individuo e potere propria del dramma di Sofocle. Nel IV secolo il mito si presta anche a versioni comiche, come racconta l’Antigone en travesti di un cratere apulo (Pittore di Rainone) trovato in Campania: nel rovesciamento del comico, la solida, ostinata e audace Antigone tragica si trasforma nel suo grottesco contrario. La storia per immagini continua nei due secoli successivi, ad Atene e a Tebe. Sono questi i luoghi di produzione e rinvenimento di due coppe “omeriche”, ispirate alle Fenicie di Euripide: qui Antigone è con Giocasta, il re-zio Creonte, i corpi senza vita dei fratelli Eteocle e Polinice, la personificazione della città di Tebe. Attraverso le dinamiche innescate da questi rapporti familiari, Antigone si mostra in preda a più emozioni: vergogna, paura, pietà, disperazione, mania bacchica («baccante dei morti», si legge in Fenicie). Vive questi stati emotivi e agisce in irriducibile solitudine. Sola come lei è la città di Tebe, che assiste alle scene di dolore: la tragedia della figlia di Edipo è sì familiare ma anche politica, iscritta fra le mura di una città.
Le immagini, non meno delle parole, danno conto di una variegata eterogeneità di tradizioni sui miti di Antigone, rielaborate dai ceramografi per contesti di fruizione privati e domestici, usate in senso ideologico – specie familiare e gentilizio – e rituale – soprattutto funerario – dalle élites indigene ellenizzate della Magna Grecia, da quelle greche coloniali di Sicilia, dalle ateniesi e tebane. L’Antigone per immagini è solo in minima parte il personaggio del mito teatrale dell’Antigone di Sofocle e si può quindi dire che sia ‘controcorrente’ rispetto alle Antigoni letterarie, teatrali, e via dicendo, le quali hanno ricevuto la prima scintilla proprio dalla tragedia sofoclea.
Quale attualità mantiene oggi il mito di Antigone?
In un’epoca come la nostra attraversata da contrasti e barbarie, di ogni genere e globalizzati, che interpellano con urgenza l’uomo e le sue responsabilità, sono molte le voci del mito sofocleo di Antigone che possono parlare al presente e considerarsi perciò ‘attuali’. Fra tutte c’è senza dubbio la voce del coro del primo stasimo della tragedia, che spinge a riflettere su quanto l’uomo sia il più mirabile e, al contempo, inquietante (deinoteron) tra le molte cose al mondo (vv. 332-333). In due recenti articoli, uno dei quali scritto in piena pandemia, Claudio Magris (Il mito di Antigone, in Il Piccolo; Alla vita serve un clown, in Corriere della Sera–La lettura) trova a ragione, nel coro dell’Antigone, il ritratto più fedele dell’uomo: essere indecifrabile, ambiguo, che crea e al contempo distrugge, migliora la natura e sé stesso ma allo stesso tempo inquina l’una e l’altro in senso proprio e metaforico, «trasformando il mondo, la vita, la propria identità, in una mutazione sempre più accelerata che lo rende e lo renderà sempre più irriconoscibile pure a sé stesso, ora creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio ora virus mutante e recidivo» (Magris).
Se si sposta lo sguardo sul paradigmatico conflitto Creonte-Antigone, il mito continua a porci questioni sulle conseguenze distruttive e autodistruttive delle idee ostinatamente granitiche, di quelle idee, cioè, che disconoscono e rifiutano per natura confronti realmente dialettici. Creonte e Antigone mostrano come i semi di chiusura e pervicace ostilità, che hanno entrambi, seppure in modi e misure diverse, abbiano conseguenze mortali per sé stessi e, con effetto domino, per i familiari e la città. Se assecondati, questi semi possono impedire ai tratti di umanità di germogliare e avere il sopravvento. Dal mito si rinnova così l’invito a impegnarci attivamente nella ricerca di punti di conciliazione, a riconoscere anzitutto in noi ciò che ci impedisce di dialogare ragionevolmente con l’antagonista, a sconfiggere in noi, prima che nell’altro, la barbarie. L’attualità del mito va anche oltre il mito stesso. Un esempio. Se è difficile non pensare ad Antigone e alla polvere della sepoltura di Polinice quando si legge del lavoro di Cristina Cattaneo, (I diritti annegati. I morti senza nome del Mediterraneo, scritto con Marilisa D’Amico, 2016; Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, 2018), della necessità di dare onore, rispetto e identità a corpi insepolti, quasi sentendoli corpi di nostri familiari esposti agli abissi, è tuttavia vero che molti gesti e molte parole della Cattaneo vanno ben oltre Antigone.
Vorrei concludere con un suggerimento. Il mito di cui abbiamo qui dialogato non è solo quello di Antigone e Creonte. Riguarda e coinvolge altri personaggi: penso soprattutto a Ismene, Emone, Tiresia, Euridice. I loro ruoli, messaggi, valori andrebbero maggiormente riconsiderati e rimeditati – lo ha fatto di recente Colm Tóibín con Ismene in Pale Sister (su cui ha scritto per il nostro volume Loredana Salis) – perché sono portatori di significati che avrebbero molto da dire al vivere contemporaneo, alle sue trame complesse e (troppo) spesso lontane dalla saggezza e dalla misura.
Raffaella Viccei è archeologa classica, storica e critica dell’arte, studiosa di teatro. Tra le pubblicazioni: Non solo spettatrici. Le donne nei teatri della Regio VII Etruria; Musica dionisiaca a Cerveteri. L’olpe etrusca A 0.9.7201 del Civico Museo Archeologico di Milano; Raffaello e Omero (da Urbino alla Stanza della Segnatura); L’immagine fuggente. Riflessioni teatrali sulla Alcesti di Barcellona. È nel comitato scientifico di Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena del XXI secolo e Archivi delle emozioni. Ricerche sulle componenti emotive nella letteratura, nell’arte, nella cultura materiale.