
di Marco Balzano
Feltrinelli
«Le immagini originarie che indicano la felicità nelle lingue che conosco o che da un punto di vista culturale mi sono più vicine, con la loro tridimensionalità e il loro sapore (che ha la stessa radice di “sapere”), forse potevano aiutarmi a capire meglio, a slacciarmi dalla ragnatela in cui mi sentivo impigliato. In quel momento ho immaginato di scrivere questo libro. Un racconto sulla felicità e sul potere che possiede di condizionare ogni istante della nostra vita.
Siamo abituati ad accedere ai temi più complessi con gli utensili del pensiero, a mettere in campo prima di ogni altra cosa i nostri strumenti logico-deduttivi e le nostre conoscenze storiche e scientifiche. Vorrei invece provare a varcare la soglia della felicità con le chiavi della lingua, partendo dall’etimologia, perché sono convinto sia una strada che, sebbene poco battuta, offre una conoscenza ugualmente legittima.
Tre delle quattro lingue che prenderò in considerazione sono quelle in cui la civiltà occidentale affonda le sue radici: il greco e il latino della tradizione classica, l’ebraico di quella giudaico-cristiana; la quarta infine è l’inglese, in quanto codice universale del nostro tempo. In ognuno di questi idiomi il termine felicità dischiude immagini e significati molto differenti che tracciano diversi valori etici e morali, questioni politiche, atteggiamenti psicologici e, più genericamente, maniere di guardare al futuro e alla memoria, alla vita e alla morte.
L’etimologia, scandagliando in profondità la lingua, riesce a farci assumere un punto di vista critico, evidenziando come le parole siano spesso presentate – dall’informazione, dal web, dalla politica, ma anche da noi stessi – con significati alterati o addirittura modificati ad arte. Questa disciplina così eterogenea, che si avvale della filosofia e della grammatica, della letteratura e della filologia, della geografia e della religione, restituisce sempre complessità perché riporta a galla le epoche, mettendo in comunicazione l’oggi con una dimensione storica e culturale che rivela interpretazioni tutt’altro che superate. È grazie a questa operazione che possiamo prenderci cura della lingua, praticarla più liberamente, evitarle il deterioramento a cui la sottopongono, per esempio, la pubblicità, i social o la propaganda, e proiettarla nel futuro con una consapevolezza potenziata. Se, dopo aver passato in rassegna le immagini che ruotano attorno all’etimo e aver sgranato alcuni degli usi più interessanti che ne sono stati fatti, porto quell’idea di felicità nel presente, forse ne riuscirà ampliata anche la nostra, che di questi tempi, nell’economia capitalistica e nella società globalizzata, viene troppo spesso ridotta ad affare privato e individualistico, lasciata al caso o legata alle sole possibilità di acquisto. […]
Le storie che racconto in questo libro presentano concezioni della felicità che variano da popolo a popolo, da lingua a lingua, e ciascuna di loro mostra una maniera peculiare di poterla raggiungere. […]
Lo scopo della ricerca etimologica non è l’erudizione, come per troppo tempo abbiamo pensato, e come spesso anche la scuola e l’università ci hanno fatto credere, è piuttosto la militanza, ossia la sua capacità di intervenire e reagire ricordando la lunga storia che ogni parola si porta dietro, esigendo quindi attenzione e tutela da appropriazioni indebite e utilitaristiche.
Ciò che non smette di meravigliarmi è la modalità conoscitiva che questa disciplina innesca: prima del significato in sé – per cui esiste il vocabolario della lingua – ci presenta immagini e storie. Mentre il concetto, con il suo lessico astratto, fornisce definizioni, l’immagine è sempre concreta, si apre spontaneamente a una narrazione con i suoi personaggi e i loro stati d’animo, colorando la lingua di una dimensione mitica molto seducente. Sebbene non possa essergli attribuita con certezza, si dice che Shakespeare avesse dato di “cultura” un’enunciazione molto breve, “only connect”: collegarsi, mettersi in ascolto. È quello che proverò a fare a mia volta. Anche a costo di forzare il tempo e lo spazio cercherò di collegare mondi lontani, perché a volte nemmeno il trascorrere dei secoli basta a polverizzare un’idea forte o un’immagine potente.
Alla luce di tutto questo, le pagine che seguono non potranno che essere a un tempo oggettive e soggettive. Aspirano a essere oggettive nell’analisi dell’etimologia e nell’esposizione dei testi proposti, così come nell’illustrazione del pensiero che le rispettive culture hanno costruito nelle varie epoche. Saranno invece un esercizio più soggettivo quando sceglierò quali rappresentazioni, fra quelle che l’etimologia offre, calare nel nostro presente, cercando di osservare cosa abbiano ancora da dire, come siano state rielaborate, che cosa la parola abbia perso per strada e di cosa si sia arricchita lungo il cammino, con chi si sia ammogliata e da chi separata. Si tratta, insomma, di toglierla dal suo alveo naturale per farne ascoltare la voce “a gente che di là forse l’aspetta”.»