
Lei stigmatizza la deformazione del linguaggio contemporaneo che adotta metafore economiche per rappresentare anche la sfera della cultura
Non bisogna credere che le metafore siano solo un modo lezioso, svagato o poetico di abbellire il discorso. La metafora è prima di tutto un potente dispositivo cognitivo, serve a interpretare, descrivere e rappresentare la nostra esperienza. Se continuiamo a rappresentare la creazione culturale attraverso immagini come “giacimenti culturali”, “spendibilità dei saperi”, “crediti formativi” (e relativi “debiti”, peraltro quasi mai saldati), e così via, si dà forza all’idea che la cultura sia come un’azienda: che deve fare profitti. Che la cultura debba “servire” ad uno scopo pratico, produttivo, e il significato delle sue creazioni debba essere misurato sulla base del proprio valore economico, di quanto riesce a “produrre” nell’immediato. Come se uno pensasse che il “significato” che Pompei o Uffizi hanno per la comunità nazionale, corrisponda semplicemente alla quantità di biglietti staccati. A questo punto, visto che lo studio di Dante o di Gianbattista Vico non stacca biglietti, allora decidiamo che non “serve”: tanto vale farne a meno e studiare cose più immediatamente “spendibili”. Al contrario, bisogna accettare l’idea che lo studio delle discipline dette “umanistiche” non produce immediatamente niente per il semplice motivo che produce molto, anzi moltissimo “dopo”: creando menti flessibili, critiche, capaci di uscire rapidamente dai vecchi quadri mentali per assumerne di nuovi, tutte virtù che sono state fondamentali nei millenni passati e ancora più lo sono oggi, in una società sempre più complessa come la nostra.
Sempre nel Suo testo, Lei auspica un cambiamento di paradigma nell’insegnamento delle materie classiche nella nostra scuola: come immagina questo cambiamento?
Puntando da subito sugli aspetti più vivi, interessanti del mondo antico. Mettendo in evidenza da un lato la grande continuità che ci lega ad esso e al suo patrimonio di testi; dall’altro però sulla sua estrema diversità rispetto alla cultura in cui viviamo. Mettendo cioè in evidenza quanto i modelli familiari, religiosi, politici e così via degli antichi, siano diversi dai nostri. Fare questo ci permette di riflettere su come siamo “noi”, con una continua comparazione fra “noi” e “loro” che è fondamentale in qualsiasi esperienza formativa o culturale. Questi nostri antenati, così simili e così diversi! Inoltre, è proprio facendo reagire fra loro queste due dimensioni – il vicino e il lontano, lo stesso e il diverso – che noi possiamo suscitare nei ragazzi una cosa fondamentale per qualsiasi studio: l’interesse. Senza interesse non si impara e non si approfondisce. È chiaro che se ai ragazzi di oggi – quelli che nuotano in un costante mare di immagini, di messaggi, di connessioni – si insegna il latino come lo si insegnava a me, ovvero ai miei genitori o nonni, come ancora spesso avviene, mi dite voi per quale motivo i giovani dovrebbero amare e appassionarsi alle materie classiche?
La cultura umanistica e la riscoperta del mondo classico sono un patrimonio storico del nostro paese, culla del Rinascimento: ritiene che una politica culturale meno miope possa avvantaggiarsene e in che modo?
Sì certo. L’Italia ha bisogno di cittadini che ragionano, che possiedono la propria lingua e sanno argomentare servendosi di essa, che vivono il proprio paese nei suoi aspetti migliori. La cultura fa dei buoni cittadini, che hanno meno paura e sfuggono al pregiudizio. Sono tutti obiettivi che si possono raggiungere anche promuovendo lo studio del mondo antico e della civiltà che ne è scaturita. E poi c’è un altro motivo, che credo dovrebbe risuonare alle orecchie di politici e attori della nostra economia. Il mondo che ci circonda è sempre di più – in bene e in male, ovviamente – costruito su immagini rapide, identità veloci, spesso stereotipe: che comunque sono quelle che permettono di essere riconosciuti come interlocutori in una società globale che stabilisce connessioni, comunicazioni multiple e continue, con una pluralità di soggetti. Anche da questo punto di vista, dunque, l’Italia ha tutto l’interesse a rappresentarsi come il paese della cultura, dei monumenti, della bellezza, in una parola della civiltà. Se gli Italiani mangiano bene, sono bravi nella moda e nel design, sono creativi e inventivi, questo si deve al fatto che hanno alle spalle una grande, longeva cultura. Non è un dono della natura.
Corriamo davvero il rischio che la cultura classica si inabissi in nuovo Medioevo tecnologico?
No se ci impegniamo per difenderla. La storia insegna che nessuna tradizione culturale sta in piedi da sola. Se si smette di insegnare, leggere, apprendere certe cose, anche le migliori, dopo al massimo tre generazioni scende il silenzio e l’oblio cancella il passato. Questo vale anche per l’eredità del mondo classico. Se lo manteniamo vivo, se lo usiamo come palestra di identità storica ma anche, come dicevo, di alterità culturale, promuovendo un costante confronto fra noi e loro; se ne facciamo conoscere ai giovani prima gli aspetti più affascinanti e coinvolgenti, e poi li avviamo allo studio (motivato adesso …) delle lingue in cui quei grandi testi sono stati scritti – beh, allora abbiamo speranza che tutto questo sopravviva nelle generazioni future. Se invece ci ostiniamo a negare il cambiamento della società e della comunicazione, a non vedere il trapasso da una cultura fondata essenzialmente sulla scrittura ad una fondata su una multimedialità capillare, allora riusciremo solo a prolungare un’agonia.