
Nel Medioevo da dove provenivano le possibilità di riscatto economico o sociale?
Per rispondere a questa domanda è anzitutto necessario ricorrere alla distinzione tra i secoli che precedono il cosiddetto “anno Mille” (altomedioevo) e i secoli successivi (bassomedioevo). Sebbene mai immobile, la società altomedievale appare statica, con scarse possibilità di ascesa sociale, limitate perlopiù alla capacità di acquisire e di sfruttare beni fondiari o di emergere grazie alle virtù militari; la società bassomedievale, invece, conosce cambiamenti notevoli dal punto di vista economico, offrendo nuove occasioni di ascesa sociale. Si può anzitutto citare il fenomeno che caratterizza i secoli tra l’XI e il XIII, ossia lo sviluppo delle città, che si coniuga con una crescita del commercio e della produzione artigianale. Per molti abitanti delle campagne ciò fu occasione per uscire dal contesto rurale e affermarsi in ambito urbano, con un miglioramento delle condizioni economiche e sociali.
Quella medievale, era una società pauperistica?
Il termine pauperismo ha un duplice significato.
Il primo rimanda a situazioni nelle quali gran parte della popolazione vive in miseria, o per cause strutturali o per cause eccezionali. In tale accezione, non definirei il Medioevo come una società pauperistica, ma piuttosto come una realtà che, sebbene avesse a disposizione abbondanti risorse naturali rispetto ad una popolazione non numerosa, era però limitata da uno scarso sviluppo delle tecniche (ad esempio nello sfruttamento agricolo), da una forte dipendenza dagli eventi naturali (clima) e da una distribuzione ineguale delle ricchezze (si pensi ai grandi signori fondiari e anche alle grandi proprietà ecclesiastiche e alla scarsa incidenza della piccola e media proprietà). Tutti questi fattori ponevano larga parte della popolazione in una condizione di estrema precarietà.
Il secondo significato del termine è più particolare, e indica la scelta di una povertà volontaria, ricercata singolarmente o in comunità, come espressione di una religiosità cristiana profonda. In questa seconda accezione, molte sono le esperienze pauperistiche che caratterizzano questi secoli. Basti pensare a Francesco d’Assisi, che non è che il personaggio più noto di una diffusa ricerca di una vita di privazione volontaria dei beni terreni per imitare la figura di Cristo (cristomimesi).
Qual era la concezione della povertà medievale?
In questi secoli, la varietà delle riflessioni su questo tema dovrebbero portare a diversificare e a distinguere posizioni non sempre coincidenti sulla povertà. Un elemento, però, non deve essere dimenticato come denominatore comune, ossia il fatto che la società medievale si autodefiniva come societas christiana, nella quale l’adesione alla dottrina e l’appartenenza alla comunità dei cristiani erano elementi unificanti. Esistevano ovviamente identità religiose e culturali diverse, ma la società europea del tempo (nel bene e nel male, verrebbe da dire) si riconosceva nella comune identità cristiana. La povertà, dunque, a livello di riflessione colta e di autorappresentazione della società, era letta e interpretata all’interno di tale contesto, ossia nella prospettiva di una vita terrena come preludio alla vera vita, quella ultraterrena. Le condizioni materiali nelle quali ciascuno viveva non potevano essere rifiutate, e il povero doveva anzitutto accettare il suo destino, perché, secondo le parole di Cristo, ne avrebbe avuto una ricompensa dopo la morte. Poche erano le voci che mettevano in discussione l’ordine sociale, molte erano le voci che sollecitavano i poveri ad accettare il proprio status come espressione della volontà divina. Ciò non esclude che la Chiesa stessa sentisse come proprio compito quello di far sì che le condizioni di povertà non trascendessero in condizioni di miseria e, soprattutto, non richiamasse i ricchi all’obbligo di utilizzare i propri beni per mitigare le sofferenze dei miseri. Se dunque i poveri non dovevano ribellarsi al proprio stato ma accettarlo con spirito di sopportazione cristiana, chiunque fosse in grado di farlo era tenuto a soccorrerli, secondo le proprie possibilità, non in nome di una giustizia sociale, ma del rispetto della morale cristiana.
Nel Suo testo Lei descrive diversi volti della povertà
Ho cercato (anche se ho proceduto più per esempi che per analisi sistematica) di definire come in una società complessa qual era quella dei secoli analizzati per “stato di povertà” si dovevano intendere condizioni diverse, che non possono essere identificate nella sola povertà economica (quindi la privazione dei mezzi necessari per vivere), ma devono comprendere condizioni di debolezza e di mancanza di protezione nella quali gruppi sociali o singoli potevano venirsi a trovare. Quindi, accanto al servo o al salariato povero o al contadino privo di mezzi per sostentare la famiglia o all’artigiano in difficoltà economica, vi erano coloro che per stato di malattia vivevano in miseria o erano oppressi e vessati da persone potenti o decaduti economicamente e socialmente, o ancora le donne e i bambini, che più di altri soffrivano di condizioni difficili e di scarsa protezione. In particolare ciò che mi pare interessante sottolineare è che in questi secoli si sia operata una distinzione tra coloro che avevano diritto ad essere aiutati e coloro che non avevano tale diritto. La distinzione non era legata al grado di miseria o all’oggettiva condizione di debolezza. Un giudizio morale negativo gravava su coloro che erano considerati oziosi e che nulla facevano, apparentemente, per uscire dal loro stato di necessità (vagabondi, mendicanti), mentre maggiore attenzione era riservata ai poveri laboriosi e ai cosiddetti poveri vergognosi, ossia coloro che, nonostante il loro impegno, non potevano in alcun modo sfuggire lo stato di bisogno. In altri termini, la società privilegiava non tanto il diritto di tutti ad un uguale soddisfacimento di bisogni quanto il mantenimento per ciascun ceto sociale delle proprie condizioni di vita. Nell’analizzare, dunque, i diversi volti della povertà è necessario tentare di distinguere ciò che noi, oggettivamente, considereremmo uno stato di necessità e ciò che per i contemporanei era valutato come tale, senza farsi trarre in inganno dall’uso di un termine quale pauper che assume significati assai diversi a seconda del contesto nel quale è utilizzato.
Come si praticava l’aiuto ai poveri da parte delle istituzioni civili ed ecclesiastiche?
Nell’alto medioevo, in Occidente, esistevano strutture di accoglienza per i poveri, soprattutto se malati e pellegrini, detti xenodochia, che si configuravano come enti religiosi. Le autorità civili non provvedevano ad organizzare e a gestire direttamente strutture di ricovero, ma svolgevano in questo come in altri ambiti forme di vigilanza e di protezione. Il re aveva tra le proprie funzioni quella di difendere i deboli dai soprusi dei potenti. Le autorità civili, dunque, intervenivano laddove non vedevano rispettati i diritti dei pauperes, facendosi anche promotori, soprattutto in periodo di carestia, della corretta distribuzione di elemosine e cibo ai poveri. Era la Chiesa, però, ad avere tra i propri fini la cura dei bisognosi, destinando una parte delle proprie risorse (la cosiddetta quarta) ai poveri, risorse che venivano distribuite secondo modalità definite a livello locale. Nel pieno e basso medioevo si assiste al moltiplicarsi di strutture di accoglienza (che prendono il nome di hospitalia), destinati ad accogliere i bisognosi, non solo i malati, e ad assisterli. Spesso si trattava di fondazioni volute da laici religiosi, che destinavano, tramite donazioni e testamenti, i loro beni alla cura dei poveri. Tali strutture assistenziali continuavano ad essere considerate loca religiosa, ossia enti ecclesiastici, anche se le autorità civili, soprattutto nelle città comunali, si preoccuparono in misura via via crescente della loro cura e della loro gestione, in quanto strumento necessario per provvedere ai bisogni dei più deboli e, insieme, per garantire l’ordine sociale. La distribuzione di elemosine, da parte degli stessi ospedali e di confraternite laicali, si coniugava nelle città a forme di aiuto pubblico tramite distribuzioni di cibo o di vendita a prezzi calmierati, in particolare in periodo di carestie.
Qual era il ruolo e quali le forme della carità nella società medievale?
La cosiddetta “carità” riveste un ruolo centrale nell’assistenza ai bisognosi nella società medievale. Come detto, era anzitutto compito della Chiesa occuparsi dei più deboli (poveri, vedove, orfani, malati), come espressione dell’aiuto al prossimo secondo la predicazione di Cristo. Le autorità ecclesiastiche, con modalità diverse, richiamavano continuamente i laici all’obbligo della carità, facendo anche ricorso alla minaccia della dannazione eterna per coloro che non avessero agito da buoni cristiani. anzitutto coloro che approfittavano di chi si trovava in stato di necessità prestando loro ad usura o coloro che accumulavano denaro e non lo usavano a vantaggio della comunità, ma per ostentare la propria ricchezza. Ma la Chiesa faceva anche ricorso alla promessa di remissione della pena da scontare in Purgatorio (indulgenze) a coloro che facevano opere buone. In assenza di un sistema di welfare, era tramite la carità dei singoli che nascevano strutture di aiuto per i poveri e venivano garantite forme di assistenza: doti per le fanciulle, elemosine per i poveri, distribuzione di cibo e vestiti, cura dei bambini abbandonati, ricovero per gli ammalati. Era prassi abituale dei ricchi, in occasione della stesura del testamento, destinare parte delle proprie ricchezze o, in caso di assenza di eredi, tutto il proprio patrimonio ad enti (ospedali, confraternite) che si occupavano dei bisogni dei poveri: un modo per salvare la propria anima e per acquisire, per sé e per la propria famiglia, prestigio e riconoscimento sociale.