“Dopo Warhol, il pop, il postmoderno, l’estetica diffusa” di Andrea Mecacci

Prof. Andrea Mecacci, Lei è autore del libro Dopo Warhol, il pop, il postmoderno, l’estetica diffusa edito da Donzelli: cos’è l’estetica o estetizzazione diffusa?
Dopo Warhol, il pop, il postmoderno, l'estetica diffusa di Andrea MecacciLa formula “estetica diffusa” indica la pervasività dei fenomeni estetici nello scenario attuale: superata la lunga fase dell’esclusivo dominio dell’arte come parametro dei valori estetici, la contemporaneità si riconosce in una pluralità di pratiche nelle quali anche il non estetico è pensato ed esperito come estetico. Figlia dei due grandi processi di estetizzazione del secondo Novecento, il pop e il postmoderno, l’estetica diffusa rappresenta in campo estetico ciò che è stata la globalizzazione per l’economia e la politica. Nel relativismo etico della contemporaneità l’estetizzazione assume un ruolo di primo piano: più che le scelte politiche o morali sono i gusti condivisi, che confluiscono nelle strategie del consumo materiale ed immateriale, a unire le pratiche quotidiane degli uomini. L’estetico si diffonde in modo pervasivo emergendo non solo in ambiti di scontata iperestetizzazione (la moda, il design o la tecnologia in generale), ma in pratiche potenzialmente infinite (il cibo, il turismo, lo sport e così via).

Quali sono i momenti decisivi del passaggio dal pop al postmoderno fino all’estetica diffusa?
La contemporaneità – un’epoca che come lascia intuire il titolo viene definita l’epoca che viene «dopo Warhol» (ma si potrebbe anche dire «con Warhol») – ha conosciuto tre grandi processi di estetizzazione: il pop (dalla metà degli anni cinquanta agli inizi degli anni settanta), il postmoderno (dagli anni settanta alla fine degli anni ottanta) e l’estetica diffusa (dagli anni novanta fino a oggi). In questi passaggi la realtà è stata concepita via via sempre più come una costruzione estetica. La cultura pop, che trova in Warhol la sua figura paradigmatica, ha rappresentato la massima espressione estetica della tarda civiltà industriale dando una forma definitiva a ciò che oggi chiamiamo “secondo Novecento”: l’estetico come consumo simbolico. Questo approdo estremo della modernità confluisce nella fase successiva del postmoderno nel quale le pratiche più diverse rientrano in un’immensa strategia della simulazione e dell’ibridazione. Elaborando una continua erosione di ogni gerarchia culturale il postmoderno aprì le porte a una fase post-storica dell’estetico, sempre meno rintracciabile nell’arte e sempre più individuato nell’esperienze della quotidianità. Questo terzo momento, appunto l’estetica diffusa, rappresenta la dimensione estetica della globalizzazione, per usare un termine un po’ inflazionato, e le infinite possibilità di declinare esteticamente ogni pratica individuale o sociale.

Andy Warhol è stato il profeta della cultura pop e ha caratterizzato quello che oggi chiamiamo «secondo Novecento»: cosa si intende con questa espressione?
Come ho accennato nella risposta precedente con questa dicitura si possono, da un punto di vista estetico, indicare i vari momenti in cui sostanzialmente la cultura di massa si è strutturata in poetiche precise. Il pop fu il primo passo: una condivisione istantanea di simboli riconoscibili da tutti. Se mostriamo due immagini, un personaggio mascherato vestito di nero con una spada laser e un maturo signore anglosassone premio Nobel per la letteratura nel 1948, tutti riconosciamo l’eroe negativo di Stars Wars, ma quanti saprebbero riconoscere il volto di T.S. Eliot? Ecco quel riconoscimento collettivo ci catapulta in quella dimensione che chiamiamo “pop”. Warhol ha mostrato questa condizione che determina il “secondo Novecento”. E lo ha fatto con le sue opere più famose che non a caso tutti conosciamo.

Lei ha dedicato uno studio al fenomeno del kitsch: da dove origina e come si sviluppa questa pratica?
La categoria estetica del kitsch nasce in Monaco, in Baviera, verso il 1860. Quel termine indicava nei mercatini d’arte i prodotti di scarsa qualità. In realtà questo fenomeno ha una lunga gestazione che possiamo far risalire ai dibattiti sul gusto del Settecento, attraversa l’estetica romantica carpendone le caratteristiche più superficiali, come il sentimentalismo e si radica infine prima nella cultura borghese ottocentesca e poi in quella piccolo-borghese e di massa nel Novecento. Con estrema sintesi possiamo affermare che il kitsch diventa una categoria estetica sulla scia dell’affermazione di tre macrofattori: il feticismo (l’assoluta predominanza dell’oggetto e il suo potere di fascinazione), l’estetismo (l’elevare il culto della bellezza come valore in sé) e il consumismo (l’incontro tra produzione industriale e bisogni indotti). Ma il kitsch non è tanto un fenomeno circoscrivibile all’estetica dell’oggetto (il famoso nano da giardino), ma un fenomeno che parla del soggetto, dei nostri gusti e delle nostre scelte. Semplificando possiamo utilizzare questa equazione: il kitsch sta all’estetica come la stupidità sta alla vita. Nessuno è immune dal kitsch, allo stesso modo in cui ognuno di noi ha fatto, fa o farà cose stupide. Ovviamente c’è chi è più stupido e chi lo è di meno.

Nella società contemporanea, esiste una distinzione tra il pop e il quotidiano?
Partiamo da un quesito: Warhol è stato il profeta di una indistinzione tra pop e quotidiano? Proviamo per due giorni a guardarci attorno con attenzione e vedremo la sua traccia ovunque. Warhol ha stabilito il repertorio iconico definitivo del XX secolo nel quale tutti si riconoscono all’istante, un repertorio che ha subito avuto vita feconda anche nel secolo successivo. E così facendo ci ha inchiodato alle nostre ipocrisie, alle nostre miserie, alle nostre menzogne. La sua è stata una vendetta unica. Non ha fatto ricorso alla logica della negazione delle avanguardie né a quella ideologizzata della denuncia politica. Ci ha offerto al contrario un alfabeto visivo, un breviario estetico che incontriamo ogni volta che ci guardiamo un po’ con disprezzo o forse con autocompiacimento. Warhol ci ha insegnato a vedere la nostra vacuità con indifferenza, relegandoci nell’impossibilità di superare dialetticamente questo nulla. Ogni volta che ci sentiamo più attuali dell’attuale: in quel momento si attiva la feroce eredità di Andy Warhol. In fin dei conti i primi ritratti che Warhol fece non erano dei selfie? All’epoca un gesto pop, oggi uno dei gesti più quotidiani per (quasi) tutti.

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