“Storia delle donne nell’Italia contemporanea” a cura di Silvia Salvatici

Prof.ssa Silvia Salvatici, Lei ha curato l’edizione del libro Storia delle donne nell’Italia contemporanea, pubblicato da Carocci: quali tendenze hanno caratterizzato la costruzione storica delle relazioni tra i sessi nel nostro Paese tra Otto e Novecento?
Storia delle donne nell'Italia contemporanea, Silvia SalvaticiIn primo luogo mi sembra utile ricordare che la costruzione storica del maschile e del femminile nel nostro paese si è intrecciata con dinamiche transnazionali, che hanno presieduto alla definizione del ruolo di uomini e donne anche altrove. Non si tratta di percorsi lineari, ma di traiettorie articolate, che hanno preso forma intorno ai grandi eventi e ai processi socio-economici che hanno segnato la contemporaneità. Prendiamo per esempio la Grande Guerra, sulla quale sono usciti recentemente molti nuovi studi, a seguito delle celebrazioni del centenario. In tutta Italia, come negli altri paesi europei, le donne sono state coinvolte nella mobilitazione collettiva, da un lato per l’assistenza ai soldati al fronte, dall’altro per il lavoro necessario a sostenere lo sforzo bellico. Questo ha comportato un maggiore protagonismo femminile, una intensificazione delle attività delle organizzazioni delle donne, un loro rapporto diretto con le istituzioni. Ma nello stesso tempo si è posto l’accento sull’esclusivo ruolo di cura delle donne, contrapposto alla figura maschile del combattente. Sul fronte del lavoro alle donne sono state assegnate attività solitamente ad esclusivo appannaggio maschile, ma questo non si è accompagnato a un riconoscimento dei loro diritti ed ha piuttosto comportato un intenso sfruttamento delle loro forze e capacità. Non è un caso che proprio nei luoghi di lavoro (le campagne, le fabbriche) siano emerse le proteste delle donne contro la guerra. Nelle regioni adiacenti al fronte le donne sono poi diventate profughe, hanno subito gravi perdite e le violenze dell’esercito nemico. Dunque l’esperienza del primo conflitto mondiale (ma considerazioni analoghe, pur con certe differenze, valgono anche per il secondo) costituisce uno snodo importante nella ri/definizione dei rapporti fra i generi, e nello stesso tempo acquisisce connotati diversi non solo da un paese all’altro, ma anche da una regione all’altra dello stato nazione.

Come si è via via esteso lo spazio pubblico delle donne?
Non parlerei tanto di una espansione quanto di un mutamento, nel corso del tempo, della presenza delle donne nello spazio pubblico. Diversi elementi sono intervenuti in questo senso, ma possiamo prendere come esempio l’attività politica femminile, che non è certo iniziata con l’acquisizione del diritto di voto. Come dimostrano i capitoli del volume, l’attivismo politico delle donne accompagna tutta la storia italiana, e solleva la questione della condizione femminile all’interno di una visione più complessiva della società e della nazione. Per esempio le numerose associazioni che si sviluppano a cavallo tra otto e novecento hanno vocazioni diverse (l’assistenza, l’educazione delle donne, la rivendicazione del diritto di voto) ma tutte fanno leva sul potere trasformativo dell’azione femminile. Certo l’ingresso delle donne nelle istituzioni rappresentative rappresenta poi una svolta importante, che imprime un segno profondo alla fondazione della repubblica e offre nuova visibilità all’azione politica femminile. Pensiamo al ruolo giocato dal piccolo manipolo di donne che entra a far parte dell’Assemblea Costituente e al rilievo pubblico che molte di loro hanno. Nello stesso tempo è bene ricordare che l’operato delle donne elette nelle istituzioni rappresentative dell’Italia repubblicana trova sempre riscontro nel lavoro capillare delle associazioni femminili di massa, come l’Unione Donne Italiane (Udi) e il Centro italiano femminile (Cif).

Quali tappe hanno segnato il riconoscimento del lavoro femminile?
Non è facile rispondere a questa domanda, per diverse ragioni. Intanto perché il lavoro femminile è ancora lontano dall’aver trovato pieno riconoscimento, come hanno dimostrato gli effetti della pandemia, che ha colpito più duramente le donne, nei termini tanto della perdita di occupazione quanto del sovraccarico di attività dovuto allo sconvolgimento della vita domestica. Inoltre gli elementi del mancato riconoscimento del lavoro delle donne sono di diversa natura: giuridica, economica, sociale, culturale. Dunque la loro rimozione (o riduzione) è avvenuta con modalità e tempi diversi e non senza contraddizioni, come dimostra il capitolo del volume dedicato proprio al lavoro. Prendiamo la Carta costituzionale, che – come sappiamo – istituisce un legame diretto tra lavoro e cittadinanza, dichiarando con l’articolo 1 che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. L’articolo 37 riconosce alle lavoratrici gli stessi diritti e la stessa retribuzione dei lavoratori, ma nello stesso tempo subordina il lavoro delle donne allo “svolgimento della sua essenziale funzione familiare”. La cittadinanza delle donne nel mondo del lavoro resta così fortemente limitata e non è un caso che dopo l’entrata in vigore della carta costituzionale continuino a esistere forti iniquità, come la “clausola del nubilato”, che consente di licenziare le lavoratrici dopo il matrimonio. La lunga battaglia per l’esclusione di questa clausola dai contratti si conclude solo nel 1963.

Quali politiche sono state sviluppate, nell’Italia contemporanea, per la tutela della maternità?
I provvedimenti per la tutela della maternità che si sono susseguiti nel corso del tempo hanno avuto declinazioni differenti nei vari periodi, in base anche al contesto politico-istituzionale in cui si sono inseriti (lo stato liberale, il regime fascista, la repubblica). Spesso, tuttavia, si sono concentrati sulla protezione della lavoratrice madre. Vale la pena ricordare, per esempio, l’istituzione della Cassa Nazionale di Maternità, avvenuta nel 1910 sull’esempio dei provvedimenti presi in altri paesi. Nello stesso tempo il nuovo organismo poggia sull’esperienza di Casse di maternità locali, attivate in singole città grazie all’impulso delle associazioni di donne. La Cassa Nazionale si fonda sul principio di compartecipazione tra lo Stato, le lavoratrici e i datori di lavoro e senza dubbio segna uno scatto in avanti per la protezione delle lavoratrici madri. Tuttavia i suoi limiti sono subito evidenti, perché non include il periodo di gestazione e soprattutto perché in moltissime piccole e medie imprese non viene affatto rispettata. Questo è un altro aspetto molto importante: mettendo a fuoco l’acquisizione dei diritti delle donne non possiamo mai limitarci alla loro affermazione dal punto di vista legislativo, ma è necessario tener conto della discrepanza tra paese legale e paese reale.

In che modo la violenza contro le donne ha segnato la storia culturale e sociale del nostro Paese?
Un primo aspetto che mi sembra opportuno mettere in evidenza riguarda proprio la lunga durata di un fenomeno come quello della violenza maschile contro le donne. Si tratta di un tema di attualità molto discusso, ma allungare lo sguardo al passato ci aiuta a comprendere le ragioni di un problema che certo non è comparso solo in tempi recenti. Intanto è bene sottolineare che quella di cui parliamo è una violenza di genere, ovvero una violenza che colpisce le donne in quanto tali, per la loro appartenenza al genere femminile. A giocare un ruolo di primo piano sono le asimmetrie del rapporto fra uomini e donne all’interno del contesto domestico, che costituisce il principale teatro delle violenze di genere tanto nel passato quanto nel presente. Pensiamo al codice civile di cui si dota l’Italia subito dopo l’unificazione, comunemente denominato Codice Pisanelli. Il base a questo codice la famiglia costituisce un’unità gerarchica in cui il capo è il marito, mentre la donna occupa una posizione subordinata, per esempio non ha alcun diritto in merito alla cura e all’educazione dei figli. Come dimostra il saggio contenuto nel volume, questo tipo di struttura della famiglia legittima, anche se il codice non lo menziona, il ricorso allo ius corrigendi ovvero l’uso di una certa dose di violenza da parte del capofamiglia per ridurre all’obbedienza la moglie e i figli. Si può discutere intorno agli eccessi, e magari condannarli, ma l’esercizio della violenza contro la moglie viene comunemente accettato, tanto nel sentire collettivo quanto nei tribunali.

Come hanno inciso i movimenti femministi sulla storia del nostro Paese?
Indubbiamente i movimenti femministi sono stati soggetti rilevanti per la storia delle società contemporanee, perché il loro attivismo ha contributo a innescare importanti processi di trasformazione (economica, politica, culturale) e nel mondo occidentale questo ha coinciso con un allargamento delle basi democratiche delle istituzioni. Pensiamo al femminismo degli anni Settanta nel contesto italiano. Sicuramente le cruciali riforme varate in questi anni (l’introduzione del divorzio, la riforma del diritto di famiglia, la legge di parità) sono portate avanti dalle donne presenti nelle istituzioni e dunque dalle esponenti dei partiti politici, in alcuni casi impegnate da tempo su certi fronti (per esempio Nilde Iotti rispetto al divorzio). Tuttavia i movimenti femministi svolgono un ruolo imprescindibile di mobilitazione dal basso, di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di presa di coscienza collettiva delle questioni in gioco. Inoltre i femminismi sono capaci di collegare le singole riforme legislative a un dibattito ben più ampio e articolato sulla necessità di rimettere in discussione le gerarchie di genere tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. I femminismi hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione storica della democrazia in Italia.

Silvia Salvatici insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze. Tra le sue pubblicazioni: Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra (il Mulino, 2008) e Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale (il Mulino, 2015; trad. ingl. Manchester University Press, 2019).

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