“Al Principio. Invito alla Filosofia del Diritto” a cura di Stefano Fuselli e Paolo Moro

Prof.ri Stefano Fuselli e Paolo Moro, Voi avete curato l’edizione del libro Al Principio. Invito alla Filosofia del Diritto, pubblicato da FrancoAngeli: a quali domande si occupa di dare risposta la filosofia del diritto?
Al Principio. Invito alla Filosofia del Diritto, Stefano Fuselli, Paolo MoroL’indagine filosofica sul diritto, come su di ogni ambito della realtà, muove da alcune domande che, nella loro apparente banalità, possono sembrare affatto trascurabili. Platone poneva come prima imprescindibile questione il determinare se ciò su cui si ricerca è qualcosa o è nulla. Chiedersi se il diritto sia qualcosa o nulla significa anzitutto farsi carico di indicare in che modo esso si distingue da altri fenomeni o dinamiche, quali sono i tratti specifici con cui si mostra nella quotidianità, da dove essi abbiano origine. Questo percorso ha però il suo coronamento – ma al contempo il suo principio – nella domanda: perché il diritto? Questa domanda, infatti, mette in questione la necessità che si dia qualcosa che chiamiamo diritto. Ad esempio, ci costringe a chiederci se esso sia uno strumento – come tale fungibile e sostituibile con strumenti più efficaci in relazione agli scopi che via via ci si pone – o se invece non sia sostituibile, proprio perché non è riducibile a un mero strumento, ma costituisce un peculiare modo dell’essere uomini.

Per quali ragioni la filosofia del diritto ha assunto un rilievo sconosciuto a molte possibili filosofie particolari?
Nell’indagare ciò che è al principio dei fenomeni giuridici, la filosofia del diritto si pone alla confluenza di una pluralità di ambiti e di piani che non sempre è dato trovare altrove. Il diritto di per sé interseca dinamiche sociali, politiche, assiologiche, economiche, culturali, e tutto questo non può non riflettersi anche nella filosofia del diritto.

Come abbiamo visto, il solo chiedersi se e perché il diritto apre alla dimensione antropologica, impegna a riflettere su quel “chi” che necessita del diritto, sulle ragioni per cui vi fa ricorso, sul modo in cui queste ragioni si sono declinate nel corso del tempo, sui motivi per cui di volta in volta i diversi modelli giuridici esperiti abbiano avuto una fioritura e un declino, sulle maniere in cui questo deposito si è stratificato nel tempo e investe il presente, su quali siano le urgenze del proprio tempo a cui il diritto è chiamato a rispondere e sul perché e come esse abbiano una dimensione giuridica.

Parafrasando Kant, si può dire forse che la particolare rilevanza della filosofia del diritto sta proprio nel suo costituire una modalità di declinazione della domanda in cui si raccolgono le domande fondamentali della filosofia: chi è l’uomo.

Raymond Boudon affermava che l’esperienza sociale è il posto del disordine: come nasce l’idea di diritto?
Le relazioni sociali si costituiscono nel naturale disordine delle differenze intersoggettive, che spesso sono conflittuali e generano l’esperienza giuridica, che non è originariamente un sistema di regole stabilite, ma è la pratica di organizzare e comporre i conflitti. Il pensiero computazionale del tecnodiritto contemporaneo pretende di esaminare con approcci quantitativi e assiomatici le controversie, congetturandone l’inclusione schematica in norme prestabilite e statiche, incapaci di percepire l’eterno trasformarsi dei rapporti intersoggettivi, rinnovando il secolare tentativo della scienza moderna di individuare l’ordine del mondo immobilizzando il brulicante cosmo delle relazioni sociali.

Invece, il senso problematico della giustizia assegna dignità di valore a qualsiasi opposizione avanzata dai soggetti nella loro inevitabile e talvolta conflittuale interazione sociale. Giuste procedure di risoluzione dei conflitti costituiscono il genere fondamentale della giustizia del caso concreto, realizzandosi nell’equità che, dunque, è il valore invariabile di ogni giudizio.

Quali caratteri e limiti presenta la riflessione filosofico-giuridica moderna?
In uno dei suoi primi lavori a stampa, Hegel affermava che i moderni hanno dovuto fare i conti con qualcosa che il mondo antico, la civiltà classica di Platone e Aristotele, non conosceva. Si riferiva alla soggettività, a quello che chiamava il principio del nord, capace, da un lato, di assorbire in sé tutto, fino a farsi fondamento e garante dell’esistenza stessa della realtà – il cogito cartesiano – e, dall’altro, tuttavia, perennemente insoddisfatto proprio a causa di questa sua immane potenza negatrice e capacità di astrazione.

Si tratta di una dinamica che è ben visibile nel contrattualismo moderno, nella sua visione dello stato come individuo artificiale che nasce proprio per dare una riposta ad una tensione – nuova rispetto all’antichità – fra il singolo e la collettività.

Questa tensione non è mai venuta meno, anche se si è data forme via via diverse. La consapevolezza del valore infinito di ogni individuo – che va dalla proclamazione dei diritti umani fino al black lives matter – va di pari passo con il rifiuto di tutto ciò che non si lascia ridurre alla propria volontà e rappresentazione, per dirla con Schopenhauer.

Di qui la centralità – nel pensiero giuridico moderno – della funzione della norma intesa come una regola d’azione (tanto generale e astratta, quanto particolare e concreta) imposta da chi ne ha il potere per porre limiti a ciò che in sé non si mostra capace di darsene, al fine di garantire un qualche tipo di ordine. Di qui anche una strisciante astoricità di questo diritto normocentrico: vuoi perché lo si ancora a criteri che si immaginano intrinsecamente razionali, e come tali universali ed eterni, vuoi perché lo si risolve in una serie di disposizioni garantite da un criterio di validità formale, vuoi perché lo si riduce alla puntualità di una decisione assunta da un organo dotato di un potere efficace.

Se un merito ha il Novecento, soprattutto nella sua seconda metà, è quello di aver cominciato a mettere in questione questi assunti: spinto dalle circostanze, da un lato, ma anche anticipandole sul piano della riflessione teorica, dall’altro. Si tratta, ora, di essere all’altezza della sfida.

Di quale importanza è la riflessione di Hans Kelsen sulla norma giuridica?
L’influenza della teoria generale delle fonti normative di Kelsen si è diffusa soprattutto in Europa e specialmente nel diritto pubblico, ove ha avuto ampia risonanza, anche per l’invenzione a lui dovuta del modello continentale della Corte costituzionale, istituita a Vienna nel 1920. Ma il pensiero di Kelsen non fu esclusivamente orientato al giuspositivismo formalistico, come ripete l’insegnamento diffuso: nel secondo dopoguerra, infatti, il giurista praghese elaborò una certa idea del diritto naturale e, trasferitosi negli Stati Uniti, prese atto del valore indubbio del realismo giudiziario e del sistema di common law.

Come si sviluppa la prospettiva processuale del diritto?
In una prospettiva processuale, che è l’impronta teorica più rilevante della Scuola padovana di Filosofia del Diritto, l’esperienza giuridica non è riducibile ad un sistema oggettivo e formale di norme, abbandonato al potere legislativo o al tecnicismo giudiziale, ma è un’attività del giurista come soggetto che ragiona e agisce in funzione del giudizio.

Nella tutela dei diritti fondamentali, per esempio, questa visione critica del diritto consente di riflettere in modo più adeguato sulla problematica concretezza dell’azione della giurisprudenza, che in tutta Europa rende difficile distinguere nell’ordinamento tra norme e sentenze e rende ormai manifesta la prevalenza del sistema di common law, come si nota nel metodo casistico utilizzato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.

Stefano Fuselli è professore ordinario di Filosofia del diritto e di Metodologia e logica giuridica nell’Università di Padova. Le sue ricerche vanno dalla filosofia della pena, alla metodologia e all’epistemologia giuridiche, fino ai rapporti fra diritto, neuroscienze e neurotecnologie. Tra le sue pubblicazioni, i volumi Processo, pena e mediazione nella filosofia del diritto di Hegel; Apparenze. Accertamento giudiziale e prova scientifica; Diritto, neuroscienze, filosofia. Un itinerario; la curatela del volume Neurodiritto. Prospettive epistemologiche, antropologiche, biogiuridiche.

Paolo Moro è Professore Ordinario di Filosofia del Diritto e Informatica Giuridica nell’Università di Padova, ove è Presidente del Corso di Laurea in Giurisprudenza 2.0 (sede di Treviso). Dottore di Ricerca in Filosofia del Diritto, è anche Avvocato abilitato al patrocinio avanti alla Corte di Cassazione in Italia. È Direttore Scientifico della rivista Journal of Ethics and Legal Technologies (Padova University Press) e ha pubblicato vari libri, articoli e contributi su Retorica giuridica, Informatica giuridica e Tecnodiritto, Educazione giuridica e Diritto sportivo. È il fondatore di CollectIUS (http://collect-ius.net/it), piattaforma digitale di ricerca, discussione e archiviazione di casi di Tecnodiritto, ed è anche membro del Global Integrity Research Network dell’Università di Coventry. È stato Visiting Scholar in varie università in Europa e oltremare (Kingston University of London, Universidad de Cordoba, Fordham University of New York, New South Wales University of Sydney, Australian National University of Canberra).

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