
di Marcello Simonetta
FrancoAngeli
«Rinascimento: come può essere segreto un oggetto di studio tanto frequentato? Forse, è possibile elaborare un modo nuovo di attraversarlo, in compagnia di buone guide, sia filologi che storiografi. Sono convinto che gli equivoci ermeneutici fra studiosi di diverse discipline siano frutto di reciproca incomprensione metodologica. La letteratura per gli storici è spesso un’attività decorativamente servile o retoricamente libertaria, e le intime ambiguità testuali vengono ridotte ad atteggiamenti unilaterali. D’altra parte, la storia per i letterati diventa perlopiù un esercizio di stile, e l’esigenza di verificare su fonti di archivio le «belle menzogne» elaborate dai poeti, per se stessi o per i prìncipi, non sembra interessarli.
Il mestiere delle lettere nel Rinascimento è l’altra faccia del mestiere delle armi. Come mostra la lista dei sinonimi del segretario sforzesco Nicodemo Tranchedini, il segreto è in questo periodo un mondo pieno di sfumature semantiche e di nuances fattuali. Il mondo del Segretario include gli spazi chiusi delle corti (o dei conclavi) e quelli aperti delle città. Il cosiddetto umanesimo civile non può prescindere dagli uni o dagli altri.
Non è un segreto per nessuno che la letteratura italiana sia nata in esilio. Le «tre corone» vissero a lungo lontane da Firenze. Dante, come Machiavelli gli avrebbe ambiguamente rinfacciato, scrisse le più violente invettive contro la sua città d’origine. Petrarca e Boccaccio non erano fiorentini «puri», ma appartenevano alla provincia, mai abdicando al tacito orgoglio di chi conquista la fama nella capitale pur non essendone che cittadino onorario. La centralità culturale di Firenze (per non parlare di Venezia, che richiederebbe un libro a parte) è un mito costruito ad arte per tutto il Quattrocento, almeno fino al primo splendido e tormentato terzo del Cinquecento, con i due papi Medici. Rimettere in discussione il Rinascimento italiano da una prospettiva eccentrica significa attuare una rivoluzione copernicana che non è certo inaudita negli studi storico-letterari. Osservatorio privilegiato sarà qui Milano, per ragioni che già Carlo Dionisotti aveva messo in evidenza : «Il duello tra Firenze e Milano è diventato ormai, dopo gli studi del Valeri e del Baron, una chiave di volta della nostra interpretazione storica: così della storia d’Italia in genere, come dell’umanesimo italiano in ispecie. Sarebbe forse il caso di tenerne maggior conto anche nella nostra interpretazione, che non è separabile da quelle, della letteratura e poesia volgare» («Italia medievale e umanistica», 1958).
Tuttavia, questo libro non predilige una singola città (Milano, Roma, Napoli, o Mantova, Ferrara, Urbino) da contrapporre a Firenze. Non si vuole adottare la prospettiva fiorentino-centripeta, tipica della tradizione anglo-americana, né quella europeo-centrifuga, alla Peter Burke. Piuttosto, qui si vuole ripercorrere il Rinascimento italiano attraverso una figura chiave, quella dell’umanista segretario. […] Gli umanisti sono allo stesso tempo «l’esempio più cospicuo e le vittime di una sfrenata soggettività». Le loro carriere di clerici vagantes, in eterno esilio, vengono qui osservate in stretto rapporto con i poteri contemporanei, con le diverse città-stato. […]
Nel Quattrocento emergono i problemi del rapporto tra vita activa e vita contemplativa, ossia fra teoresi e prassi, con conseguenze che si ripercuotono sul piano etico nella relazione tra sapere e virtù, e sul piano politico. Il tema segreto del volume è la legittimazione dello stato e della storia, ovvero la tormentata nascita dell’auctoritas politica e letteraria, in senso lato. A tal scopo, non si considerano solo lettere e orazioni (predilette da Kristeller), ma anche trattati e traduzioni, dialoghi e diari, poemi epici e racconti storiografici, novelle e commedie. Nel loro intreccio fra dimensione privata e pubblica, le opere di Petrarca e di Machiavelli rappresentano i limiti cronologici e gli orizzonti ideologici del libro, come ambivalenti modelli di stile e di comportamento segretariale.
Fonte primaria sono i dispacci diplomatici, prodotto di una realtà frammentata e frastagliata, che ispirò i Cantos malatestiani di Pound. In termini mitologici, essi inscenano la lotta fra Calliope e Clio, la musa della Poesia e quella della Storia, vista come flusso cristallizzato dai documenti-reliquie archivistici. Tale inclusione non è priva di conseguenze metodologiche: spinge a leggere i documenti storici con occhio attento alle suggestioni stilistiche e a prendere in considerazione anche opere non strettamente «letterarie», analizzandole nella loro sostanza linguistica, retorica e metaforica. […]
Il libro è strutturato come una narrazione di vite parallele, di storie indissolubilmente individuali, che compongono il mondo del Segretario.
Dopo il preludio «pirandelliano» su Dante e Pier delle Vigne, il primo capitolo è dedicato a Petrarca, il maestro delle sinuose distinzioni retoriche, che teorizza la vita solitaria, e vive al centro della politica del suo tempo. La sua vastissima autocoscienza culturale gli permette una inaudita libertà personale, vincolata ai suoi mutevoli rapporti col potere laico e religioso. È l’inventore della soggettività moderna, e della paradossale legittimazione della tirannia. Dalla sua lezione deriva l’ambiguità del ruolo dei «nipotini» di Petrarca: Salutati, Loschi, i Decembrio, Bracciolini, Filelfo, Valla, e il meno celebre Moroni.
Tre figure di segretari milanesi si definiscono intellettualmente e praticamente nei rapporti con gli arcivescovi di Milano: Petrarca e Giovanni Visconti, in una forma sottilmente autocelebrativa e letteraria, che riproduce l’incontro fra Agostino e Ambrogio; Uberto Decembrio e Pietro Filargo (futuro papa Alessandro V), elogiato come perfetto padrone virtuoso di fronte al servitore della repubblica fiorentina, Coluccio; Pier Candido Decembrio e Francesco Pizolpasso, il cui rapporto è forse il più complesso e culturalmente significativo. Pier Candido, segretario per il nuovo duca Filippo Maria Visconti, non era alle dipendenze di Pizolpasso. La sua dichiarata servitù istituzionale gli garantiva una notevole libertà di parola. Nel corso di intensi scambi epistolari coll’arcivescovo, Decembrio formula posizioni ardite, criticando non solo l’auctoritas di Aristotele, ma anche di un padre della Chiesa come Gerolamo, seguendo l’esempio di Petrarca (a sua volta elogiato in pubblico e criticato in privato).
I segretari, addestrati a dissimulare il proprio punto di vista personale, finiscono con l’esprimerlo nelle forme più insidiose. Le cangianti alleanze milanesi con le forze scismatiche e papali permettono al segretario una valutazione più spregiudicata: prima della giravolta viscontea a favore di Eugenio IV, la discussione su temi teologici era ai margini dell’ortodossia. Del resto, il recupero della Laudatio bruniana era proprio in funzione conciliare, e verteva intorno alla scelta della città in cui accogliere i rappresentanti bizantini, che avverrà qualche anno più tardi. In questo contesto di opposizioni ideologiche ed ecclesiastiche si inserisce nel secondo capitolo la figura di Enea Silvio Piccolomini, «eroe stendhaliano avant la lettre» (Sciascia), il quale, prima di ascendere al soglio pontificio, si trovò a combattere su tutti i lati delle barricate, elaborando gradualmente un’originalissima sintesi umanistico-curiale. L’ambizione in lui si confonde con l’amour-passion ideale: una cristallizzazione, direbbe Stendhal, del cristianesimo militante in letteratura. Dopo la sua «bella morte», la violenta polemica fra Lodrisio Crivelli e Francesco Filelfo tocca i nodi della lotta di auctoritas fra curia romana e cancellerie principesche. Anche la postuma guerra storiografica di Giovanni Simonetta con gli eredi del Piccolomini si pone su questa stessa linea.
Nel terzo capitolo si analizza la genesi del mito secolare della «virtù» di Francesco Sforza, creato dai cancellieri e dai cortigiani milanesi, e coronato da Landino e Machiavelli (Principe VII), e la sua caduta in Galeazzo Maria, che incarna il fallimento di un progetto di educazione umanistica e di trasmissione ereditaria del potere. Complementare, nel quarto capitolo, il percorso di Cicco Simonetta, sempre al servizio di Francesco Sforza, favorendolo nell’irresistibile ascesa al potere e propagandando costantemente la sua immagine trionfatrice, fino a sostituirlo di fatto nel governo del ducato, dopo l’assassinio di Galeazzo. La ramificatissima rete di rapporti diplomatici e culturali con una piccola folla di umanisti rende la figura relativamente oscura di Cicco una miniera inesplorata per comprendere il Quattrocento.
Le turbolente vicende della reggenza si intrecciano col destino del protagonista del quinto capitolo, il giovane Lorenzo de’ Medici insidiato dalle congiure e assediato dai segreti. Si prende spunto da lui per divagare su importanti figure che agiscono dietro le quinte della storia, l’ambizioso ambasciatore Angelo Acciaiuoli, il petulante precettore Gentile Becchi, il figlio d’arte e di parte Jacopo Bracciolini e il «capitano di esserciti» (Guicciardini) Federico da Montefeltro, attori nella congiura dei Pitti e soprattutto in quella dei Pazzi, rivisitata come un tragico chiasmo di letteratura e politica. Illumina in senso comico tale chiasmo l’inedito rapporto fra Luigi Pulci, poeta déraciné, e Roberto da Sanseverino, eroe morgantesco post litteram.
Nel sesto capitolo la scena si sposta a Napoli, seguendo Ippolita Sforza e studiando la sua relazione privilegiata con i letterati, in particolare con Masuccio, «indigno secretario», e con gli onnipotenti segretari Petrucci e Pontano, fino alla catastrofe del 1494. Nel settimo e ultimo capitolo, emerge un altro tema sotterraneo, quello della lingua cortigiana, attraverso le vicissitudini del Calmeta, l’avversario assente di Bembo. Infine, si ritorna al principio indagando il «petrarchismo segreto» di Machiavelli e di Vettori.
L’andamento digressivo più che progressivo, tematico più che sistematico della prosa, e le conclusioni aforistiche più che analitiche, forse disorienteranno il lettore, non solo quello abituato alla chiarezza di scuola anglosassone. La prospettiva teorica, che rimane sostanzialmente implicita, è aperta a contaminazioni metodologiche ed eclettiche, ricorrendo ai contributi degli storici dell’arte e dell’architettura, e con l’uso a tratti spregiudicato dei cultural e gender studies, trattando temi sessuali senza seriosità. Non inutile a bilanciare eventuali squilibri nell’esposizione dovrebbe essere la funzione degli innumerevoli documenti inediti citati nel testo, che si richiama alla tradizione inaugurata dagli eruditi sette-ottocenteschi e dei pionieri positivisti, esploratori di un continente sommerso e ancora in gran parte segreto. Questi amanti del lavoro lento, che rifugge dalle sintesi affrettate e dai facili universalismi, avevano l’ambizione di aprire nuove strade, non di esaurire vecchi itinerari. […]
In conclusione questo libro, ricco di fatti e di documenti, affronta obliquamente uno degli aspetti più impalpabili della storiografia: la nascita della fama, la costruzione dell’immagine letteraria, muovendosi continuamente fra «facti» e fiction. Pier delle Vigne o Petrarca, Pio II o Francesco Sforza, Lorenzo de’ Medici o Machiavelli, sono fantasmi la cui vita e le cui opere e azioni sono entrate nel mito astratto che convenzionalmente chiamiamo Rinascimento, la «maestosa copertura» di una realtà politica e culturale inquietamente in movimento. Svelarne alcuni retroscena è lo scopo del presente studio. I segretari hanno fabbricato il Rinascimento nella loro officina curiale. Gli storici lo rifanno continuamente. Ma mettendosi dal punto di vista dei segretari si colgono aspetti arcani e oscuri: ora forse meno segreti.»