
a cura di Alessandra Pezza
Mimesis Edizioni
«Questo volume costituisce il frutto degli interventi della giornata di studio interdisciplinare del Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale del Dipartimento di Scienze Umane della Formazione “Riccardo Massa” del 31 maggio 2019. Il titolo della giornata era “L’in-traducibile: La comunicazione interculturale e la traducibilità”. […] Il tema della traduzione e il questionamento sulla possibilità di tradurre investono in effetti una gamma estremamente vasta di aree del sapere e competenze. Come nota Berman, del resto, lo spazio della traduzione è “di natura interstiziale. Non vi è la traduzione (come postula la teoria della traduzione), ma una molteplicità ricca e sconcertante, che sfugge a ogni tipologia, le traduzioni, lo spazio delle traduzioni, che ricopre lo spazio di ciò che vi è ovunque, in ogni luogo, da-tradurre.” (Berman 1985; tr. it. 2003, p. 20).
Al centro della giornata era in particolare l’“intraducibile”, cioè lo spazio residuale e di resistenza che avanza una volta messo in atto il processo di traduzione, sia essa interlinguistica, intermediale o interdisciplinare. Si tratta di una questione cruciale in tutti gli studi sulla traduzione, al punto che Enrico Terrinoni arriva ad affermare che “[l]a traduzione, lungi dall’essere un vero e proprio ponte che conduce all’altra sponda, [è] al contrario un ponte in disappunto nel senso che, nell’attraversarlo, la nostra ambizione di raggiungere alcun dove esce talvolta frustrata.” (2019, p. 77).
La valorizzazione di quanto rimane intraducibile, come essenza intangibile e intrasportabile, ha del resto una lunga tradizione. Spesso si è detto che quanto è intraducibile è ciò che di più prezioso vi è di un testo. Non a caso, in letteratura è una definizione che si applica in primo luogo alla poesia, ma anche alla letteratura “alta”, più che a quella di intrattenimento, come se l’intraducibilità della lettera diminuisse man mano che scendiamo di livello “letterario” e artistico: “in tutti gli ambiti della scrittura”, ci ricorda Berman, “l’intraducibilità è tendenzialmente vissuta come un valore” (1985; tr. it. 2003, p. 36), e Gérard Genette arriva a parlare di “privilegio glorioso” dell’intraducibilità di un testo (1982, p. 294). Non c’è in questa valorizzazione solo il “rifiuto di pensare la traduzione” che sempre Berman identifica come tipico della nostra cultura (1985; tr. it. 2003, p. 38). Quei residui di intraducibile, quel pontile su cui ci affacciamo senza del tutto raggiungere l’altra sponda, diventano, utilizzando le parole di Barbara Cassin, “sintomi della differenza” (2004, p. XVII), una messa in luce di quell’alterità e di quella costante imperfezione che trasformano la potenziale frustrazione in una forza produttiva, capace di stimolare la creatività e foriera di senso e di contenuti: sempre Cassin ci ricorda che l’intraducibile “è piuttosto ciò che non si smette mai di (non) tradurre” (ibidem). L’attività traduttiva, per dirla con Franca Cavagnoli, “partecipa” insomma “alla creazione di nuovi modelli” (2012-2019, p. 70).
I primi quattro contributi si concentrano sulla traduzione dal punto di vista filosofico, linguistico, storico e pedagogico. Fulvio Carmagnola, il cui intervento apre la raccolta (Una parola che non si finisce mai di tradurre), ci ricorda per esempio che “l’in-traducibile è al cuore dell’operazione filosofica” e “una sorta di intraducibilità percorre sempre l’innovazione filosofica”: è nelle crepe di significato che si creano nella materia linguistica che riusciamo a vedere concetti nuovi, un po’ come l’arte giapponese del kintsugi crea nuova bellezza proprio impreziosendo le fratture. Queste crepe sono particolarmente evidenti nel passaggio da una lingua all’altra, anche grazie al fatto che si tratta di un processo in continuo divenire, mai perfetto: “L’in-traducibilità della parola filosofica è la necessità che questa sia continuamente ri-pensata e nella traduzione c’è un in-traducibile intrinseco che va preservato”. Anche l’intervento di Francesco Cappa (Bildung e traduzione. Attualità di un intreccio pedagogico) valorizza l’impossibile perfezione della traduzione come tratto produttivo (“si tratta […] di assumere come tratto propositivo la sua infedeltà”). Cappa ci porta nella Germania di fine Settecento per proporre un’analogia quanto mai attuale tra formazione e traduzione: “La traduzione è – come la formazione – sempre una mediazione etico-pratica: si tratta di rinunciare al sogno della traduzione perfetta anche nel senso di purificare il desiderio di dominazione e assimilazione […].” “L’esperienza etica della traduzione formativa” proposta è dunque una possibilità di incontro con l’altro che, proprio in virtù della sua imperfezione e delle variazioni che produce, “non può che generare un sapere aperto”: ogni traduzione è costruzione di nuovi sensi.
Federica Da Milano (Traducibile e intraducibile: di limiti e di confini) affronta il tema della traduzione in prospettiva linguistica e si interroga sui confini della traducibilità: qual è il limite oltre il quale il traduttore non può andare? A partire da esempi tratti da lingue diverse, e in particolare dal giapponese, Da Milano propone una riflessione su quei casi in cui il traduttore, nel suo “‘stare tra’ due sistemi linguistici” e di pensiero, è costretto a scegliere là dove la lingua di partenza poteva essere vaga, o a rendere con strategie alternative sfumature di senso non immediatamente presenti nella propria lingua. “La traduzione, mettendo in contatto con la lingua dell’altro, porta in luce la questione della differenza, dell’alterità” e, in questo, l’analogia che si crea è fra traduzione e pratica migratoria. Un’altra frontiera che deve passare la traduzione è quella temporale: a partire dalla presentazione dell’edizione curata da Maria Teresa Orsi nel 2012, Andrea Maurizi (Il Genji monogatari in Italia) ci offre un excursus sulla storia della traduzione di un grande classico della letteratura giapponese in Italia: il colossale Genji monogatari di Murasaki Shikibu, risalente all’inizio dell’anno Mille. Ripercorrendo le alterne fortune traduttive di questo testo in Italia e in Europa, tra traduzioni mediate da lingue “ponte” e versioni ridotte, Maurizi mette in luce la sfida principale affrontata dalla traduttrice: da un lato, le strategie traduttive sono soggette al passare degli anni e “perdono con il tempo la freschezza della gioventù”, dall’altro, cambia la concezione di come portare il lettore della lingua di arrivo a “relazionarsi con categorie culturali […] così estranee” che rischiano di impedirgli “l’interpretazione e la godibilità del testo”. Il contributo ci mostra, anche grazie al confronto tra due traduzioni di un medesimo passaggio, in che senso Orsi ha saputo trovare un nuovo equilibrio tra addomesticamento e straniamento del testo nella sua traduzione italiana.
I quattro casi contenuti nella seconda metà del volume considerano non tanto, e non solo, le lingue di partenza e di arrivo, ma i supporti e gli universi di significato entro cui ci si traghetta. Incontriamo prima due casi di testi scritti la cui traduzione pone vincoli e offre prospettive particolari: Ali Faraj (Fino a che punto si possono “tradurre” i testi magici?) si concentra sull’analisi di una placca d’incantesimo in metallo inedita con iscrizioni in lingua araba, probabilmente risalente al periodo Safavide (Collezione privata Alberto Di Castro-A53812), decifrando e traducendo alcune delle iscrizioni e delle formule incise sulla placca, anche grazie al supporto delle figure animali e dei motivi decorativi (simboli, lettere, numeri) che le accompagnano. Faraj sottolinea come, da un lato, l’analisi comparata di segni e immagini permetta di approfondire la nostra comprensione dei fenomeni linguistici; dall’altro, la lettura e la registrazione dei simboli e dei grafi anche quando indecifrabili o non comprensibili ci rimandi alla “scienza delle lettere”, ʿilmu l-ḥurūfi, che riteneva che “le proprietà magiche insite nelle lettere, sia singolarmente sia in gruppo, potessero aiutare a controllare angeli e ǧinn”: proprio nella sua componente “intraducibile”, dunque, permane una componente di senso essenziale per il testo. Il contributo di Giacomo Calorio (Tradurre il manga. Vincoli, negoziati, interlocutori) indaga invece le diverse dimensioni della traduzione di uno dei prodotti culturali giapponesi più in voga in Italia negli ultimi tre decenni: il manga. Calorio sottolinea i diversi aspetti per cui la figura del traduttore di manga si distingue da quella del traduttore letterario: il pubblico a cui si rivolge, i costanti riferimenti alla cultura pop coeva o appena passata, il modello di pubblicazione seriale e, soprattutto, la natura del testo che traduce: “una natura intrinsecamente intermediale in cui è preponderante una parte visiva ‘intraducibile’”. Il fumetto appartiene infatti alla categoria delle “traduzioni vincolate”, e “l’interlocutore principale con cui il traduttore di manga si trova a negoziare sono […] le immagini stesse”, che costringono il traduttore a ingegnarsi dal punto di vista spaziale, sintattico e nella scelta di dovere o non dovere esplicitare riferimenti deittici e giochi di parole.
Chiudono il volume due casi di traduzione interdisciplinare o intermediale. Alessandra Pezza (Un monumento all’amnesia. Yan Lianke e la traduzione della storia nazionale in letteratura) considera la questione della traduzione della storia in letteratura nel contesto cinese. Partendo da una panoramica sulla rappresentazione della storia nella Cina contemporanea e sui molteplici casi in cui la letteratura contemporanea si è occupata di rappresentare la storia, facendo anche in parte le veci della storiografia nei casi in cui l’episodio storico in questione sia particolarmente “sensibile” (mingan), il contributo si concentra sulla figura dell’autore contemporaneo Yan Lianke. Utilizzando una lingua letteraria estremamente mutevole e il ricorso a strategie narrative con tratti marcatamente post-moderni (uno stile che l’autore definisce shenshi zhuyi, termine tradotto in italiano come “pararealismo”), Yan Lianke fa dell’insieme delle sue opere un tentativo di ricostruire la memoria storica nazionale, in vece di quel “monumento all’amnesia” di cui l’autore propone, provocatoriamente, la costruzione in piazza Tian’anmen. L’intervento di Enrico Squarcina (Dalla terra alla carta), riflette infine su quella “formula magica” o “strumento immaginifico” che fin dall’antichità permette una rappresentazione della superficie terrestre sulla carta geografica, trasformando “l’individuo in un gigante capace di possedere con lo sguardo un’intera regione o addirittura l’intera superficie terrestre”, in un’operazione che infrange, almeno in apparenza, i vincoli spaziali e temporali a cui siamo sottoposti. Traduzione che è, naturalmente, unicamente simbolica anche se spesso, come Squarcina ci mostra, la carta ha sostituito “il suo ruolo di rappresentazione di uno spazio a quello di oggetto di attenzione”. La carrellata su alcune delle deformazioni inevitabili e necessarie che il reale subisce quando passa su carta (la rappresentazione dei rilievi, le proiezioni, l’uso dei colori) costituisce l’ultimo esempio di come le categorie di traducibile e intraducibile permeino la nostra percezione del mondo e la sua comunicabilità.»