
di Carlo Emilio Gadda
Adelphi
«Carlo Emilio Gadda, reduce della Prima guerra mondiale, ingegnere di professione e scrittore per vocazione, pubblica sui fascicoli del 1946 della rivista “Letteratura” cinque puntate di un romanzo poliziesco ambientato nel 1927 a Roma: Liliana Balducci, una donna della borghesia benestante, sposata ma senza figli, viene trovata con la gola tagliata nel suo appartamento, in un caseggiato rispettabile della via Merulana, dove qualche giorno prima una vecchia contessa veneziana di nome Menegazzi era stata derubata da un misterioso rapinatore dal volto coperto. Un commissario di origini molisane, don Ciccio Ingravallo, dirige le indagini, che condurranno gli inquirenti nelle campagne attorno alla capitale e in particolare in una bettola/bordello gestita da una vecchia dall’aspetto ripugnante, Zamira Pacori. Sospettata dell’omicidio finisce per essere una ragazza che ha lavorato a servizio presso i coniugi Balducci, la bella Assunta. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che uscirà in volume nel 1957 presso Garzanti […] appare, a una prima considerazione, come un’assoluta anomalia nel panorama della narrativa del secondo dopoguerra: è un giallo psicoanalitico in cui il colpevole non viene individuato (il finale è sospeso); la voce che racconta la storia – la più straordinaria invenzione del romanzo – è indeterminata per effetto di una sistematica sfocatura della prospettiva e, soprattutto, è a sua volta abitata da una molteplicità di voci altre che dentro al testo parlano, spesso senza che ci sia una corrispondenza precisa con i singoli personaggi; dialetti diversi si mescolano, così come stile tragico-sublime e stile comico-grottesco; la trama si espande in direzioni diverse, si sfrangia in digressioni apparentemente ingiustificate, si complica in un groviglio di personaggi che sembrano diventare l’uno il doppio dell’altro.
È la struttura narrativa stessa a disarticolarsi in un accumulo di sdoppiamenti: anzitutto, si sovrappongono e si intrecciano due delitti che si corrispondono come fossero l’uno (il furto) l’anticipazione comica e farsesca dell’altro (il tragico assassinio della signora Liliana); due sono le squadre investigative che conducono le indagini, la polizia e i carabinieri; due gli spazi, apparentemente contrapposti ma in realtà somiglianti e contigui, entro cui i personaggi si muovono, cioè la città – il centro del potere fascista nell’Italia del 1927 – e la campagna, che sembra smaterializzarsi in una dimensione mitica e ancestrale. La protagonista e vittima, Liliana Balducci, ossessionata dal non poter avere figli, muore nel secondo capitolo ma mantiene una presenza fantasmatica nel resto del racconto: non solo riaffiora nei ricordi del commissario Ingravallo e nei racconti di chi l’ha conosciuta, ma ritorna, in maniera ora implicita ora esplicita, in punti distanti del testo. […]
Lo stesso Ingravallo, che viene introdotto nell’incipit del romanzo come un eroe intellettuale, un investigatore-filosofo che si interroga sulla pluralità di cause all’origine dei fatti delittuosi e dei casi umani in genere, non riesce a reprimere del tutto il desiderio e l’attrazione nei confronti di Liliana. […]
La divaricazione tra voci e punti di vista è il fenomeno discorsivo più eclatante del romanzo: la verosimiglianza stessa del racconto ne esce perturbata, al punto che, ad esempio, in una famosa sequenza del capitolo viii in cui si racconta apparentemente in soggettiva il sogno di uno degli inquirenti (il brigadiere Pestalozzi) si accumulano immagini e residui diurni di fatti e persone che il brigadiere non conosce. Come può Pestalozzi, non avendola mai vista, sognare la vittima Liliana Balducci, travestendola coi panni mostruosi della contessa Menegazzi e della tenutaria del bordello Zamira Pacori? Non c’è una spiegazione razionale ma l’episodio non ha neanche risonanze soprannaturali: è la voce che parla dentro al testo a raccontare il sogno del brigadiere e a far confluire in esso i contenuti rimossi e indicibili di un inconscio non più individuale ma collettivo.
L’uso stravolto del romanzesco, la costruzione di personaggi abitati da pulsioni indicibili, il ruolo centrale, anche a livello di retorica del racconto, delle figure dell’inconscio, collocano il Pasticciaccio agli antipodi del neorealismo. […]
Se è anzitutto sul piano della costruzione del racconto che Gadda rifiuta il neorealismo, più implicita, ma ugualmente determinante, è la sua distanza ideologica da esso: da uomo di destra, che aveva aderito con convinzione al fascismo fin dai primi anni Venti e che solo alla fine della guerra aveva maturato un odio viscerale nei confronti di Mussolini e del regime, Gadda recepisce con disagio la politicizzazione del campo letterario e reagisce a essa rifiutando l’egemonia della cultura di sinistra; al tempo stesso, però, non rinuncia ad assumere, attraverso le sue opere, una posizione decisa, anche se fatalmente tardiva, sul fascismo. Il mondo narrato nel Pasticciaccio, infatti, rovescia sistematicamente tutti i presupposti del potere fascista: oltre a includere degli inserti di invettiva vera e propria rivolti al duce, il romanzo prende di mira la morale sessuale del ventennio, portando in scena personaggi dalla sessualità deviante, a cominciare dalla vittima, la bella signora Liliana, che è sterile e ha anche tendenze omosessuali, e dallo stesso commissario Ingravallo, celibe e fatalmente attratto dalla vittima, come emerge in maniera disturbante al momento della scoperta del cadavere. Ma lo scandalo maggiore del Pasticciaccio – la sua più potente ambivalenza – sta nella contiguità implicita tra vittime e carnefici: nessuno è assolto o innocente se è la legge stessa – quella dello Stato fascista – a essere aberrante.
Il Pasticciaccio può dunque essere letto come una reazione furiosa tanto alla caduta del fascismo quanto alla diffusione di un gusto estetico del tutto alieno a Gadda».
tratto da Letteratura italiana contemporanea. Narrativa e poesia dal Novecento a oggi, a cura di Beatrice Manetti e Massimiliano Tortora, Carocci editore