
Visto il dato di partenza mi piacerebbe poter sostenere che tra teologia e letteratura vi sia un rapporto di mutuo riconoscimento. Nei miei studi ho invece constatato che nonostante tale rapporto sia ineludibile, spesso cade nell’irrilevanza oppure è percepito come problematico. Da una parte infatti la letteratura si occupa dell’uomo e di conseguenza anche della sua tensione per il divino, ma sono davvero pochi i critici che di questa presenza religiosa si occupano. Dall’altra la teologia non ha ancora mai avviato un dialogo con questa disciplina, focalizzando finora il proprio interesse soprattutto verso il mondo scientifico. Se il discorso scienza-fede si è reso indispensabile per dare conto dell’interpretazione biblica dei racconti della creazione, ritengo che anche la letteratura offra un indispensabile confronto con il mondo laico – ad esempio per il fatto che rappresenta la “recezione” dei racconti biblici (nel caso delle riscritture) o perché in racconti e romanzi la religione è intrecciata con la narrazione come esperienza vissuta o problematizzata. Non che tutto questo sia estraneo ai teologi, naturalmente, ma di queste narrazioni ritengo si dovrebbero occupare, conoscerle e impiegarle adeguatamente nella pratica teologica e pastorale. Citare Il signore degli anelli (che trasuda cristianesimo da ogni poro) parlando ai giovani di Vangelo può essere un modo molto efficace per attirare la loro attenzione. Eppure di fronte alla tesi su Tolkien di uno dei miei studenti della facoltà, il presidente della commissione aveva commentato (a porte chiuse) chiedendosi perché abbiamo bisogno di questi testi quando abbiamo già i Vangeli. Ecco, io credo che questa obiezione rappresenti proprio una mancanza di conoscenza, frutto di un disinteresse che forse non ci possiamo permettere.
Naturalmente ci sono eccezioni notevoli su entrambi i fronti. In teologia da alcuni decenni sono nate alcune piste di riflessione, note come teologia narrativa e teologia letteraria. Pur con le dovute differenze, entrambe nascono con l’intento di fornire alla teologia un linguaggio per esprimersi fuori dai circuiti specialistici, anche considerando la sempre minore conoscenza dei fondamenti del cristianesimo persino tra i credenti.
In che modo, accanto alle Scritture, sono fiorite altre scritture?
In modo spontaneo e naturale qualunque racconto può essere riraccontato un’infinità di volte, modificato a ogni ripetizione. Credo si tratti di un’esperienza comune a tutti, dai genitori che raccontano ai figli le fiabe per la buona notte, alle storie di famiglia costantemente ripetute a chi non le avesse ancora ascoltate, da chi si trovasse nella necessità di riportare un fatto a chi volesse raccontare una storia letta o ascoltata (e persino una barzelletta!). Inevitabilmente non usiamo mai le stesse parole, a volte arricchiamo i nostri racconti di dettagli, in altre occasioni ne modifichiamo delle parti anche reagendo ai nostri uditori.
Ora se questo avviene nella comunicazione orale, altrettanto si può dire per la forma scritta. Il fenomeno del riscrivere non vale solo per la Bibbia, ma per quel che riguarda le Scritture ebraico-cristiane esiste persino all’interno dei libri biblici: ad esempio, abbiamo due racconti della creazione (e quando lo faccio notare ai miei studenti del liceo, ci chiediamo sempre quale dei due sia adottato come “unico” dai creazionisti). Tale ripetizione-riscrittura è indubbiamente più frequente per i racconti ritenuti fondativi, che vengono ripresi in più occasioni in libri diversi, con sottolineature diverse e spesso anche diverse interpretazioni. Non c’è da scandalizzarsi per questo. La Bibbia è composta da un insieme di libri che sono stati scritti nell’arco di secoli (la Bibbia ebraica, anche detta Antico Testamento, dal X al I a.C.; la Bibbia cristiana o Nuovo Testamento, nel I d.C.) e che ha conosciuto varie tradizioni e stratificazioni. Ho sempre trovato stimolante la legge esegetica della “conservazione” enunciata dal biblista J.-L. Ska, secondo cui nella Bibbia non si è buttato via niente, neppure le sue parti contraddittorie e nessun redattore ha rimaneggiato le unità narrative per renderle coerenti. E questo perché la rivelazione del Dio di Israele e poi del Dio di Gesù Cristo è un cammino che avviene nella storia e che deve necessariamente attraversare tutti i limiti umani. Si tratta della questione fondamentale che riguarda il carattere della “parola di Dio” detta e compresa in parole di uomini (e donne).
Fuori della Bibbia poi la fioritura delle scritture altre è sterminata e inizia quasi subito, a partire dagli apocrifi, per non finire più fino ai giorni nostri. Le ragioni di tali riscritture sono moltissime, ma per citarne almeno una, vi è in tante il desiderio di colmare con l’immaginazione tutto quello che la Scrittura non dice e che al lettore invece interessa infinitamente – i Vangeli, ad esempio, non descrivono l’aspetto fisico di Gesù e nulla dicono della sua vita prima del battesimo nel Giordano: se ha lavorato come carpentiere nella bottega paterna, perché inizia ad annunciare il Regno solo in età molto matura e in genere che cosa abbia fatto negli anni della “vita nascosta”. Alcuni apocrifi raccontano infatti dettagli sull’infanzia di Gesù o sulla sua famiglia, ma purtroppo con scarsi fondamenti storici, a dispetto dell’interesse che suscitano.
Un testo risponde sempre a una domanda iniziale, come veniamo a sapere ogni volta che un autore contemporaneo si cimenta in queste opere. Ricordo tra questi Eric-Emmanuel Schmitt con Il vangelo secondo Pilato, di cui conosciamo la conversione adulta raccontata ne La notte di fuoco e poi, l’intento esplicitamente rivelato nella postfazione del suo vangelo, dove riferisce la propria insoddisfazione per il modo in cui la figura di Cristo è predicata e di conseguenza il desiderio di “salvarla” (se sulla prima parte possiamo essere anche d’accordo, sui risultati dell’operazione di Schmitt nel mio testo esprimo non pochi dubbi). Nella postfazione, con cui il lettore è invitato a riconsiderare quanto ha appena finito di leggere, Schmitt riferisce la genesi dettagliata dell’opera sgorgata quasi come un’esperienza mistica: “Ogni giorno prendere la penna esige una preparazione strana, tra la meditazione e la preghiera, con le mani posate sul tavolo, la nuca affaticata sotto il peso della testa, gli occhi chiusi per sentire meglio, come se stessi per raggomitolarmi e scendere nel fondo di me stesso per trovarvi il meglio. Nel silenzio e negli effluvi di una candela alla lavanda, mi allontano dal mondo, dai suoi inquinamenti, tento di trasformarmi in un grande orecchio” (p. 300).
Un altro caso particolare è Sete di Amélie Nothomb, che nelle diverse interviste rilasciate riferisce il bisogno personale di confrontarsi con un discorso che le sta a cuore da sempre. Da piccola infatti leggeva di nascosto i vangeli, affascinata dalla figura di Gesù. E la vicenda evangelica sembra persino all’origine della sua professione: “sapevo che avrei dovuto raccontare io stessa questa storia”, dichiara nelle interviste all’uscita del libro. Il suo vangelo è quindi frutto di una religiosità familiare (discende da una famiglia belga di tradizione profondamente cattolica, ma lei si definisce una mistica senza religione), di un’appropriazione personale e persino di uno studio biblico iniziale. Il libro invece è un tentativo di fare i conti con quanto le appare incomprensibile e inaccettabile. E in questo riconosciamo una certa affinità con Schmitt e moltissimi altri, tanto che potremmo dire che le riscritture sono – non sempre, naturalmente, ma spesso – il risultato di un’insoddisfazione e il desiderio di offrire la propria versione, comprensione, esperienza.
Infine mi sembra utile ricordare il fatto che le riscritture sono molto numerose e per quante io riesca a leggerne, c’è sempre qualche amico che me ne segnala di nuove. È pressoché impossibile star dietro a tutte le pubblicazioni. E tutto questo in epoca secolarizzata (o post-secolarizzata) o della “morte di dio”. Qualcosa vorrà pur dire…
Che nesso esiste tra Scrittura e ri-Scrittura?
Il mondo delle riscritture (o ri-Scritture, secondo il suggerimento di Piero Boitani) è un piccolo rompicapo, perché questi testi sono tutti diversi per motivazioni di fondo e risultati. Quando ho iniziato a occuparmene mi sono chiesta perché non si fosse mai tentata una qualche comprensione del fenomeno, limitandosi essenzialmente a recensire il libro di turno, per lo più indicandone la maggiore o minore vicinanza con il racconto biblico di riferimento. Boitani ha fatto un lavoro eccezionale, che ha ispirato il mio interesse, e tuttavia ha letto le riscritture “solo” da critico letterario (come è giusto che sia, immagino, dal suo punto di vista). Diciamo che questa mancanza, specie da parte teologica a cui ho visto assumere lo sgradevole ruolo del censore, mi ha spinta a lavorare in una direzione che ho ritenuto più utile, ovvero che cosa hanno da dire alla teologia tutte queste voci che si levano, a volte anche gridando. Mi rendo conto che questo significa che anch’io nutro le mie “insoddisfazioni”… Ed è probabile che il mio contributo non sarà ritenuto soddisfacente o adeguato – questo è il prezzo che si paga a esporsi -, ma l’obiettivo che mi sono posta è davvero minimo: offrire uno stimolo per avviare il discorso. Non intendo certo gareggiare con i “giganti”.
Ora per tentare di rispondere alla domanda, che è vastissima e che copre di fatto tutto il libro, posso usare l’immagine dell’elastico: lo si può tirare al massimo fino a spezzarlo, nei casi in cui il nuovo testo è totalmente altro, magari irriverente e desacralizzante; oppure può mantenersi in buona tensione con il racconto originario tentando di attualizzarlo, comprenderlo, offrendo parole nuove, descrivendo gli ambienti, aiutando il lettore a immergersi in un contesto sconosciuto.
Ma se tradizionalmente il discrimine tra le Scritture sacre e le altre scritture è rappresentato dal concetto di ispirazione, la letteratura non lo rispetta vantando la piena libertà dovuta all’artista. Sarebbe pertanto ridicolo scandalizzarsi alle affermazioni di Schmitt che parla della sua scrittura come “ispirata”: “In fondo a me c’è altro rispetto a me. Lì mi attendono sentimenti, pensieri, stati che non appartengono all’ordinario della mia personalità. Da dove nasce questa sorpresa che si chiama ispirazione? Dalle esperienze accumulate, da un cuore più grande della mente, da un inconscio più ricco della coscienza?…” (postfazione al Vangelo secondo Pilato, p. 300-1). Sarebbe interessante che la teologia fondamentale (che si occupa di ispirazione) leggesse questo passaggio (molto più lungo di quello riportato) e molti altri che vantano una tale autorevole fonte. Che il tradizionale concetto di ispirazione biblica sia stato recentemente rivisto dopo un lungo silenzio è segno che si avverte la necessità di ricomprendere l’esperienza in un alveo sempre più mediato dal vissuto umano. Perché allora questi autori (o riscrittori) non dovrebbero sentirsi “ispirati”? Indubbiamente i loro testi sono “altri” e tali resteranno in quanto il canone è chiuso da 19 secoli ed è bene che sia così. Ma come possiamo considerare questo modo di intendere l’ispirazione evitando di rifiutarla aprioristicamente? Di ispirazione poi, non dimentichiamolo, si è sempre parlato per il mondo dell’arte in senso lato. Ma quella di Schmitt non è solo l’ispirazione dell’artista, perché egli racconta di una notte in cui si è sentito trasportato da una forza di amore a cui solo a fatica nelle settimane successive ha dato il nome di Dio (La notte di fuoco).
Quale influsso hanno avuto, sulla cultura occidentale, le ri-Scritture?
Il fatto che il fenomeno non sia mai stato tematizzato, ha reso le riscritture tout court parte del mondo letterario senza ulteriori specificazioni. Nel passato presecolarizzato che la Bibbia fosse presente nella letteratura era considerato un fatto normale. In seguito la presenza di riferimenti biblici (specie nel mondo protestante) a molti è sembrato un fatto non degno di nota. Ricordo che all’università una volta avevo chiesto al mio insegnante di letteratura angloamericana perché in Bartleby di Melville ci fossero tanti riferimenti a Cristo e per tutta risposta mi sono sentita rispondere: “You know, it’s Melville!”. È Melville (basta la parola!), non c’è altro da aggiungere. Ma io credo che accanto a questa indifferenza, se così vogliamo chiamarla, rispetto a tali citazioni, ci sia anche poca conoscenza della Bibbia in genere, persino nel mondo letterario, oltre a un certo snobismo nei confronti del religioso. È nota la partenza del grande lavoro di Northrop Frye – che ha contribuito a dare vita a questo riconoscimento reciproco – dalla constatazione che i suoi studenti di letteratura inglese non conoscevano la Bibbia. Dobbiamo questa carenza, specie nel mondo cattolico, all’allontanamento dei fedeli dal testo sacro che è stato operato dalla Chiesa dopo la separazione con il mondo protestante. Tutti sappiamo che nelle scuole si legge Omero ma non la Bibbia, come già Francesco De Sanctis lamentava.
A dispetto di tutto questo però, gli autori la Bibbia la usano per attingervi materiale per le loro storie o anche semplicemente perché è tanta parte della nostra cultura, persino inconsapevole (ai miei studenti del liceo faccio notare come tante parole o espressioni che adoperiamo normalmente siano desunte dalla Bibbia: noi le usiamo ma non sappiamo da dove provengano, né quale significato avessero in origine). Non mi soffermo sul caso a tutti noto di Dante, ma non possiamo dimenticare come l’immaginario che ci siamo costruiti dell’aldilà, tanto deve alla struttura della Commedia.
Riscritture fondative o capaci di condizionare le successive scritture non mi sembra che ce ne siano e la mia impressione è che ogni volta si torni direttamente all’originale. Certo alcune opere hanno fatto parlare più di altre, ma questo avviene solo nei casi “scandalosi” come quello di José Saramago o di Nikos Kazantzakis per L’ultima tentazione. Qualche anno fa hanno fatto parlare di sé Il regno di Emmanuel Carrère e Non dirlo. Il vangelo di Marco di Sandro Veronesi, ma credo che dietro quell’interesse ci fosse soprattutto la notorietà degli autori e l’agnosticismo dichiarato da entrambi. In Italia l’autore più noto è indubbiamente Erri De Luca, amato dai più al punto da dimenticare le sue ripetute dichiarazioni di ateismo (anche se De Luca su questo puntualizza e distingue, ritenendosi un non credente che non esclude Dio dal proprio orizzonte, un fatto questo che lo allontanerebbe da tanti che in Lui invece credono). Ma non mi sembra di vedere un’influenza di qualche tipo che parte da questi autori o che questi avrebbero acquisito. Ogni volta, come detto, si tratta di riconoscervi il tratto distintivo ed esclusivo, e quindi l’apporto che possono rappresentare (anche per la teologia).
Come ha fatto notare Boitani, la maggiore presenza (nell’arte come in letteratura) di alcuni personaggi o episodi biblici ci può segnalare un interesse particolare. Lui fa l’esempio di Susanna o Betsabea mentre fanno il bagno, ritratte con compiacimento da diversi artisti del passato perché offrivano l’opportunità di dipingere un seno femminile. In letteratura non possiamo non notare una frequenza delle riscritture evangeliche che puntano su figure problematiche come Giuda oppure fissano l’obiettivo tutto su Gesù. Tutte le domande sono immense, davvero. Mi dispiace se ho potuto rispondere solo parzialmente e immagino in modo non molto esauriente.
Quali esempi ritiene più significativi del rapporto tra Scrittura e ri-Scrittura?
Proprio perché si tratta di un mondo estremamente variegato e quasi imprendibile per tratti comuni, possiamo individuare solo alcuni esempi tra i moltissimi, tenendo presente che ogni volta si tratta di capire che cosa abbiamo in mano. A partire dal fronte ecclesiale, ritengo che i testi critici siano sempre utili a verificare quale immagine di cristianesimo e di Chiesa si sta offrendo – e qui il “caso Saramago” è perfetto: un premio Nobel che, pur definendosi orgogliosamente ateo, non poteva non parlare di Dio nonostante il tono durissimo e quasi irricevibile per qualunque credente. All’opposto abbiamo esempi di grande poesia in cui personaggi o episodi sono raccontati con notevole ampliamento narrativo, aggiungendo dettagli e descrizioni dai quali il lettore di oggi è generalmente molto attratto. Qui gli esempi sarebbero moltissimi, dal Davide di Carlo Coccioli a Eleazar di Michel Tournier, da In nome della madre di Erri De Luca a Cominciò in Galilea di Stefano Jacomuzzi. Ma mi rendo conto che si tratta di gusti personali. Chi frequenta i miei corsi di riscritture in genere li apprezza, e anche molto, specie dopo un’adeguata presentazione, comprensiva del modo in cui questi racconti si sono accostati al testo biblico.
Nel libro ho trattato diffusamente questa parte, inserendo ampie citazioni proprio perché il lettore potesse “gustare” questa bellezza letteraria. Tra i due opposti, la rabbia irriverente e la poesia, c’è tutto il mondo del riscrivere, più o meno problematico, incomprensibile eppure quasi sempre stimolante. Solo per fare un esempio, ricordo Il vangelo dei bugiardi di Naomi Alderman, in cui dei vangeli non c’è quasi nulla. Ancora più estremo in questo senso è L’infanzia di Gesù di Coetzee che senza il titolo sarebbe davvero arduo accorgersi di una tale traccia. Ma il titolo c’è e questo richiede al lettore un supplemento di attenzione.
A conclusione, una delle questioni che mi pongo è se i lettori di questi testi (che ci sono e sono numerosi, come le vendite stanno a dimostrare) conoscano il riferimento originario o si fermino a queste riscritture. In questi anni ne ho parlato con molte persone, e spesso, specie quando non c’era una conoscenza biblica di base ma il mero ricordo del catechismo infantile, mi sono accorta che queste versioni piacciono e sono persino ritenute più attendibili della “versione ufficiale”. Basta pensare al battage pubblicitario di alcuni titoli del passato (non riscritture bibliche, ma in quei casi riscritture della storia della Chiesa) presentati come la “verità che la Chiesa ha sempre nascosto”. Assieme a questo fenomeno, che pure esiste anche nel mondo delle riscritture, spero di aver dimostrato come la letteratura sia invece anche una bella risorsa per la teologia. Se in questo io sia stata efficace non posso dirlo in anticipo. Attendo il responso dei miei lettori.
Maria Nisii è insegnante di religione in un liceo di Torino, docente di letteratura e religione all’Istituto Superiore di Scienze religiose e docente formatrice in riscritture bibliche. Scrive per la rivista della facoltà teologica, Archivio Teologico Torinese, e collabora occasionalmente con altre riviste di interesse teologico (articoli e recensioni sono consultabili sul sito Academia.edu). È una delle autrici del blog Effatà di riscritture bibliche (https://scrittoridiscrittura.it/) per la parte letteraria.