
di Giovanni Reale
a cura di Vincenzo Cicero
Bompiani
«Non si può dire che le ricostruzioni storiche del pensiero antico siano numerose. In generale, gli interessi di molti studiosi – e quindi anche di parte della communis opinio – sono rivolti soprattutto al pensiero moderno e a quello contemporaneo. Una prima ragione di questo fatto dipende da una convinzione – molto diffusa – che ciò che è «antico» sia «più piccolo» di ciò che è «moderno», e ancora più piccolo di ciò che è «contemporaneo», in quanto l’antico corrisponde al momento della nascita, e quindi richiederebbe necessariamente di crescere e di maturare per raggiungere adeguati livelli.
Invece, per la filosofia è successo proprio il contrario. Ma c’è voluto un filosofo della statura di Martin Heidegger perché la verità sull’importanza del pensiero antico venisse espressa adeguatamente e con autorità. A giusta ragione egli sostiene, infatti, che la filosofia antica è nata grande (si potrebbe addirittura dire che – semmai – con il passare del tempo in certi casi si è rimpicciolita, e che questo sta accadendo, per molti aspetti, proprio ai nostri giorni). […]
Una seconda ragione dipende dal fatto che, negli ultimi decenni, si è diffusa una sorta di sfiducia nella filosofia in generale, e soprattutto nella filosofia classicamente intesa. Da più parti, ci si domanda se questa disciplina non sia ormai giunta alle sue colonne d’Ercole, non sia ormai un hortus conclusus, e quindi una «storia» finita forse per sempre.
Qualcuno parla addirittura della filosofia di oggi come «pensiero post-metafisico».
Viviamo, cioè, in un momento in cui nella crisi della filosofia si è inserita altresì una sorta di «filosofia della crisi della filosofia», vale a dire un pensiero che teorizza la fine della filosofia in quanto tale. […]
In tutte le critiche della filosofia di cui abbiamo fatto cenno si nasconde, in realtà, un autentico smarrimento del senso e della portata della dimensione teoretico-speculativa della ragione umana, vale a dire della dimensione più propriamente «filosofica»: si teorizza la fine della filosofia, perché si sta perdendo il senso della filosofia.
La mentalità scientifico-tecnologica ci ha abituati a credere valido solo ciò che è verificabile, accertabile, controllabile con l’esperienza e con il calcolo, e in particolare ciò che è fecondo di risultati tangibili.
A sua volta, la moderna mentalità politica ci ha abituati a credere che abbia rilevanza solamente ciò che sa far cambiare le cose (ben più di ciò che sa far cambiare gli uomini stessi): non la «teoresi» ma la «prassi» – si dice – è quella che conta. Non serve il θεωρεῖν, il «contemplare la realtà», ma il calarsi attivamente in essa.
E, così, da un lato, alla filosofia si vuole imporre un metodo desunto dalle scienze, che la fa cadere inesorabilmente nello «scientismo»; dall’altro, un condizionamento di tipo attivistico che la fa degenerare nell’«ideologia» e nel «prassismo».
Nell’uno e nell’altro caso, si pretende assurdamente di fare filosofia uccidendo la filosofia. […]
Come avremo modo di vedere con ampiezza nel corso della trattazione, il problema filosofico è nato e si è sviluppato come tentativo di cogliere e di spiegare l’«intero», ossia la «totalità delle cose», o almeno come problematica dell’intero e della totalità.
La filosofia resta tale solo se e fino a quando tenti di misurarsi con l’«intero» e cerchi di prospettarsi il senso della totalità. Per contro, le scienze sono nate come considerazione razionale ristretta a «parti» o a «settori» del reale, e hanno elaborato metodologie e tecniche di indagine che, modulate in funzione delle strutture di queste parti, danno eccellenti risultati, ma valgono solamente per queste parti, e non possono in alcun modo valere per l’«intero». […]
Contro le varie tendenze sopra descritte, la presente Storia della filosofia greca e romana è nata e si è via via sviluppata allo scopo di recuperare il senso del pensare in dimensione teoretico-speculativa.
Inoltre, cerca di dimostrare come certe categorie elaborate dal pensiero greco restino tuttora strutturalmente indispensabili per impostare in senso forte qualsiasi problema metafisico-teologico ed etico.
Infine, anche se – come vedremo – la visione ellenica della vita resta essenzialmente diversa da quella cristiana e da quella dell’uomo moderno e contemporaneo, i pensatori antichi dicono sull’uomo molte cose che si impongono come «conquiste valide per sempre».
Non sono certo le categorie proprie delle «scienze particolari» e delle moderne «ideologie politiche» a poter far luce sulla problematica dell’«intero», quindi sui problemi metafisici, teologici e morali al più alto grado, i soli squisitamente filosofici. […]
A questo recupero meglio di tutti possono guidare proprio i Greci, i quali, per la prima volta, hanno insegnato al mondo come si filosofa, e lo hanno fatto in modo veramente egregio.
Pertanto, abbiamo dato a questa Storia della filosofia greca e romana una impostazione prevalentemente imperniata sui «problemi» e sulle «idee», visti nel loro nascere, nel loro svilupparsi e nel loro dissolversi.
Abbiamo, di conseguenza, cercato il più possibile di dire non solo il che, ma anche il perché delle asserzioni dei filosofi.
Troppe volte varie storie della filosofia si limitano a dirci che il tale filosofo ha pensato questo e quest’altro, e non ci dicono perché lo ha pensato, quale legame ha quel pensiero con quanto precede, quale funzione ha di sollecitazione del pensiero che segue. Ma se non si fa questo, i problemi e le idee rimangono slegati dalla matrice che li ha generati; e dalle idee slegate è quasi fatale la caduta nella mera «dossografia», e in varie forme di «nozionismo», contro il quale da tante parti giustamente si polemizza. […]
Questa nostra Storia della filosofia greca e romana ha appunto il preciso scopo di far comprendere filosoficamente al lettore le idee create dai pensatori antichi, nella loro genesi e nel loro sviluppo.»