Lussu registra quanto lo aveva maggiormente colpito, richiamandosi alle idee e ai sentimenti di allora. Così la guerra può anche significare la gioia di vivere dei soldati, felici di abbandonare le pietraie del Carso e di poter combattere in vere azioni, tra alberi e vallette, o il dolce riposo al sole, nelle retrovie. Maggior risalto acquistano però le pagine di pacata denuncia, ferma alla fredda costatazione, ma che si avvale di un’ironia tagliente e insistita per suggerire un inequivocabile giudizio: è la denuncia, dapprima, della disorganizzazione, della faciloneria, della micidiale noncuranza con cui la fanteria veniva mandata allo sbaraglio.
Molti aneddoti costituiscono la struttura documentaria del libro (le suole delle scarpe avevano scritto in tricolore “viva l’Italia”, ma erano di cartone), ed evidenziano l’attenzione continua di Lussu per i suoi sottoposti, di cui sono continuamente sottolineati la paziente saggezza e il coraggio. Impietoso risulta, invece, il confronto con l’impreparazione e la tronfiezza dell’alta ufficialità. Il dolore di Lussu per quello a cui assiste e partecipa, con la certezza di gravi responsabilità evase (nei comandi e nelle autorità politiche) e con la consapevolezza dell’inutilità di tanti sacrifici, ha quasi il pudore delle parole: egli demanda la riflessione e la condanna ai soli fatti, con la loro allucinata ed esatta trascrizione. Dice Lussu che chi non ha conosciuto i momenti precedenti l’assalto, non ha conosciuto la guerra: quella volta, in quei pochi minuti di attesa c’erano stati due suicidi, poi tutti si erano lanciati allo scoperto, ma l’attacco non era altro che file di soldati che cadevano con le braccia tese: un battaglione di morti che avanzava. Lussu sentiva nella mente “ondate di follia” attorno al pensiero lucido e, mentre con gli altri arrivava vicino agli austriaci, che sparavano in piedi come in piazza d’armi, sentirsi dire: “Basta! Basta! Bravi soldati. Non fatevi ammazzare così!”»