
La conclusione volonterosa e appassionata di Lucrezia, che accetta il male che le è imposto e, non senza un sorriso di malizia ribelle (“io voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbia voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che ‘l cielo vuole che io accetti”) percorre animosamente la nuova strada dove le tocca di camminare, prolunga in un nuovo tono e in un nuovo amaro incanto la premessa favolosa della pozione magica e il tema cavalleresco dell’amore che vien di lontano: ma l’alone favoloso dell’antefatto e il seguito voluttuoso e coperto sono soltanto le parentesi d’apertura e di chiusura della vicenda comica, che irrigidisce in una stupenda definizione di personaggi il giuoco della burla carnale.
Ognuno di quelli, e specialmente il dottor Nicia e frate Timoteo, appartengono alla convenzione novellistica e teatrale; ma serrati come sono da un’osservazione tanto attenta da diventar crudele, si trasfigurano in potenti immagini di poesia: l’uno rimbambito dietro la sua fantasia, pur cara, ma rovesciata in un vaneggiamento cupido, in un pronto patteggiar col delitto, in una condiscendenza che, per voler essere mondanamente esperta, non si cura dei danni altrui né balordamente s’avvede dei propri; l’altro, ignaro ormai d’ogni fede religiosa, infastidito dell’incoerenza e della dappocaggine, ma attentissimo e saldo a tradurre in utilità immediata quanto d’ogni fede e fiducia sopravvive negli altri.
Né qui si ferma il commediografo: la vicenda di Lucrezia, se da un lato s’irrigidisce in un gioco esemplare di teatro, diventa anche esempio di un naufragio della moralità tradizionale e familiare, cui il moralista assiste con un melanconico e dispettoso senso di commiato.»