“Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” di Niccolò Machiavelli

«Famosa opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527), composta tra il 1513 e il 1517. non di getto, ma in almeno due fasi ben distinte. | primi frammenti furono infatti scritti dal Machiavelli subito dopo il suo ritiro a San Casciano, nell’aprile del 1513, dopo il breve imprigionamento subito per effetto della cosiddetta congiura antimedicea di Pietro Paolo Boscoli, di cui il Machiavelli stesso fu sospettato consapevole. Poi lo scrittore abbandonò, d’un tratto, il suo commento a Livio, e scrisse, di getto, il Principe; e soltanto più tardi riprese i Discorsi, che venne poi leggendo, a mano a mano, durante l’elaborazione, agli amici degli “Orti Oricellari”, cioè ai frequentatori di casa Rucellai.

L’opera uscì postuma: la prima edizione è infatti del 1531 (Roma, presso Antonio Blado); nello stesso anno, posteriormente ma indipendentemente dal testo bladiano, uscì pure un’altra edizione, a Firenze, presso Bernardo Giunta. L’opera, che è dedicata a Zanobi Buondelmonti e a Cosimo Rucellai, è divisa in tre libri; il primo composto di 60 capitoli, il secondo di 33, il terzo di 49. Nell’insieme, il primo libro concerne il problema politico “interno”, cioè l’organizzazione della repubblica, le sue leggi, ecc. (sono le “…diliberazioni fatte da’ Romani, pertinenti al di dentro della città”), il secondo, la politica estera (le deliberazioni “che ‘l Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo”); il terzo è di argomento assai più misto, perché, prefiggendosi di dimostrare “quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni effetti”, tratta indifferentemente quistioni di politica interna (per esempio il lunghissimo capitolo III “Delle congiure”), di politica estera e soprattutto di argomenti militari (cap. X “Che uno capitano non può fuggire la giornata, quando l’avversario la vuol fare in ogni modo”; capitoli XI, XII, ecc.).

Ma occorre notare che in tutti e tre i libri (e non solo nel terzo) manca la organicità esteriore discorsiva che caratterizza invece il Principe. Il Machiavelli commenta Livio: ma Livio – com’è ovvio – non costituisce se non lo spunto, il pretesto perché il Machiavelli svolga il suo proprio, originale pensiero, che senza dubbio alcuno è profondamente, rigorosamente organico e unitario. E tuttavia, l’avere scelto, per esporre le proprie idee, la forma del commento a uno storico classico, fa sì appunto che, formalmente, questo pensiero machiavelliano non appaia dispiegato in un discorso continuo, per logica successione, bensì si palesi un po’ a stacco, si potrebbe dire a va e vieni; il testo (narrazione storica) di Livio che l’autore vuole interpretare, trasformare in un ragionamento politico, impone talora di passare da un argomento all’altro, anche quando questi non siano strettamente congiunti da un immediato nesso logico.

Così accade che nello stesso libro I, per espressa dichiarazione del Machiavelli rivolto a studiare il “di dentro della città”, si inseriscano capitoli che non hanno nulla a che fare coi problemi relativi alla struttura politica interna dello Stato, bensì si collegano a questioni militari ecc.; per esempio, al cap. XXII, che esamina il caso dei tre Orazi e dei tre Curiazi, segue il cap. XXIII, dove si afferma “che non si debba mettere a pericolo tutta fortuna e non tutte le forze; e, per questo, spesso il guardare i paesi è dannoso”. Il racconto liviano del duello fra Orazi e Curiazi, legato alla figura di Tullo Ostilio di cui trattavano i capitoli precedenti (XIX-XXI), fa sì che il Machiavelli passi dal problema generale della organizzazione militare dello Stato all’episodio il quale, a sua volta, gli suggerisce considerazioni sul pericolo che vi è nel cercar di resistere a un nemico difendendo un passo di montagna, anziché affrontandolo in pianura aperta.

È uno sviluppo logico di pensieri per chi parta dal testo liviano; ma, dal punto di vista della struttura formale e generale di un ragionamento politico, è una parentesi introdotta nello schema complessivo. Per questa ragione, non è possibile esporre uno schema sistematico della struttura dei Discorsi, perché uno stesso argomento viene toccato più volte, in passi diversi. Piuttosto, si possono indicare i momenti salienti, i capitoli cioè dove il pensiero del Machiavelli giunge alla sua più alta e piena espressione.

Fondamentali sono, a questo riguardo, nel libro I, i capitoli III-IV, dove lo scrittore sostiene che la disunione della plebe e del Senato in Roma non fu causa di male, bensì di bene, anzi fu la causa prima della grandezza della repubblica; i capitoli IX-X, che affermano la necessità dell’azione di un uomo solo, quando si voglia “ordinare una repubblica di nuovo” o riformarla a fondo (concetto, questo, della necessità di un’azione individuale che ritorna nel capp. LIV del l. I, e I del l. III); i capitoli XI-XV, sull’importanza, decisiva, della religione per la vita politica; il capitolo XXVII, dove si accenna al motivo, così largamente svolto nel Principe, dell’incapacità degli uomini di essere “al tutto cattivi o al tutto buoni”; i capitoli XXXIV e XXXV, XXXVII e XL, sull’autorità dittatoria, il decemvirato e la legge agraria in Roma antica; i capitoli XXIX e LVIII, dove il Machiavelli sostiene essere il popolo meno ingrato e più savio e costante che il principe.

Nel libro II si staccano, per importanza, il proemio, sorta di parallelo fra i tempi antichi e i moderni, concluso dalla constatazione che più chiari del sole sono “la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna”. il cap. I, se a formare l’impero dei Romani abbia concorso più il valore dei Romani stessi o la fortuna (il Machiavelli risponde: il valore); il cap. IV sui modi tenuti dai vari Stati “circa lo ampliare”; i capitoli X, XVI-XVII, XIX, sul problema militare, risolto dal Machiavelli, conformemente a quanto già aveva detto nel Principe, con l’affermazione della necessità di armi “proprie”, e con il ripudio del precetto comune che il nerbo della guerra sia costituito dal denaro (“… l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l’oro”).

Nel libro III è fondamentale il cap. I sulla necessità, per far vivere lungamente una repubblica, di “ritirarla spesso verso il suo principio”, vale a dire riformarla in guisa da far rivivere quei principi da cui era derivata la iniziale forza dello Stato (per es. il senso religioso, il senso della giustizia, ecc.).

I Discorsi si presentano dunque, esternamente, con assai minore compattezza e organicità del Principe. E anche stilisticamente sono più pacati di tono; manca loro la straordinaria incisività, nettezza, del periodare del Principe, che sembra continuamente teso verso il precipitar dell’epilogo, mentre ora la voluta è più ampia, la frase più calma, meno scavata e martellata. Ma a chi poi vada nel fondo delle cose e, superata la apparente frammentarietà, veda lo svolgersi del pensiero machiavelliano nella compiutezza dei tre libri, i Discorsi si presentano allora come l’opera di più ampio respiro che il Machiavelli abbia
scritto.

La vita dello Stato, che nel Principe era riassunta esclusivamente nella figura del condottiero, del capo, si amplia, ora, e si irrobustisce grazie alla partecipazione alla vita politica del “popolo”, non solo, ma grazie all’importanza di primo piano che per la vita politica assumono gli “ordinamenti”, cioè le leggi, l’educazione, la religione. Nel Principe lo Stato viveva esclusivamente per la “virtù” del suo capo, era cioè un organismo di carattere antropomorfico; nei Discorsi, invece, vive bene se i suoi “ordini” (leggi ecc.) sono efficienti (ed efficienti possono essere solo se c’è molta “virtù” nel popolo), male se gli “ordini” non sono più osservati. Lo Stato appare ora come un “corpo misto”, come un organismo simile a quelli che la natura crea, che nasce, cresce, giunge a pieno sviluppo, si corrompe e muore: a meno che non sopravvenga una tempestiva riduzione ai “principi” (cap. I del lib. III), a meno che, cioè, non si riesca a rinnovare, con una energica azione, la vitalità interna degli ordini dello Stato.

Certamente, anche ora il Machiavelli non dimentica mai l’individuo, la capacità d’azione del singolo, la necessità, specie in alcuni momenti, di un capo: tanto è vero che anche ora egli proclama la necessità di essere “solo” la necessità della “virtù” di un cittadino per ordinare “ex novo” una repubblica o per far “vivi” gli “ordini” di uno Stato (cap. IX del libro I e I del libro I). Ma, pur con questo pieno riconoscìmento del valere dell’individuo, della personalità politica, i Discorsi hanno tono assai diverso, più ampio che non il Principe.

Sarebbe tuttavia erroneo contrapporre il Machiavelli dei Discorsi al Machiavelli del Principe come un democratico-repubblicano in antitesi all’assolutista-monarchico. Una simile contrapposizione è stata fatta più volte, e ci si è trovati allora di fronte al grave problema di metter d’accordo i due Machiavelli diversi che balzavano fuori dalle due opere. Ma la contrapposizione non esiste. Poiché in verità, anche nei Discorsi come già nel Principe, il Machiavelli contempla, sempre, la vita politica, non dal punto di vista dei vari partiti o gruppi di individui, bensì dal punto di vista generale dello Stato: l’interesse dello Stato, non quello dei singoli o dei gruppi, costituisce sempre il punto di partenza del pensiero machiavelliano.»

tratto da Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Bompiani

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