
Come si è sviluppata la carriera accademica del teologo bavarese?
La carriera accademica di Joseph Ratzinger si è sviluppata in modo lineare, malgrado talune difficoltà iniziali incontrate dalla dissertazione che gli doveva aprire le porte dell’insegnamento universitario: il lavoro sulla teologia della storia in san Bonaventura può essere considerato uno dei suoi migliori scritti, se non il migliore. Giovane teologo molto apprezzato al tempo del Concilio Vaticano II e chiamato a Tubinga per interessamento di Hans Küng, nel 1969 ritornava nella nativa Baviera per insegnare all’università di Regensburg (Ratisbona). Se inizialmente era stato vicino agli orientamenti riformatori della rivista «Concilium», a partire dal 1972 fu tra i fondatori, e maggiori collaboratori, di un’altra rivista teologica internazionale, «Communio»: che in sostanza le contrapponeva un orientamento conservatore (e che a volte sapeva di restaurazione). All’interno di una produzione teologica che annovera un numero davvero rilevante di pubblicazioni, è in parte possibile verificare una sostanziale continuità del suo pensiero: il che non ha nulla a che vedere con la drastica affermazione di non avere mai cambiato opinione nel corso del tempo.
Quali orientamenti hanno ispirato il suo servizio come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede?
Il motto episcopale scelto da Joseph Ratzinger, quando fu scelto come vescovo di Monaco di Baviera nel 1977, fu «Cooperatores veritatis». Quando nel 1982 assunse la carica di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (la denominazione con cui Paolo VI aveva aggiornato l’intitolazione dell’antico Sant’Ufficio della Inquisizione), la sua asserita «fedeltà alla verità» posava su una visione dottrinale della fede, che lo spingeva a configurarsi come custode della tradizione – vale a dire della configurazione assunta dal cattolicesimo tra gli inizi dell’800 e la metà del ‘900. Si sono molto enfatizzate le decisioni repressive da lui prese, e non solo nei confronti degli esponenti sudamericani della c.d. teologia della liberazione (mentre non con altrettanta decisione ci si mosse da prefetto contro le prime denunce che sollevavano il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico). È stato invece molto più influente la sua produzione di innumerevoli, e ampi, documenti dottrinali. A ciò si aggiunga, a partire da una certa data, un’intensa presenza all’interno delle pubblicazioni a stampa, che raggiungevano in traduzione le librerie di tutto il mondo, e non soltanto quelle cattoliche. Le diverse interviste di Peter Seewald gli hanno offerto la possibilità di illustrare i propri orientamenti teologici a un pubblico ben più ampio dell’apparato clericale ecclesiastico.
Con quale difficile fase per la Chiesa ha coinciso il pontificato di Benedetto XVI?
Si è discusso se si sia trattato della “crisi di un papato”, come ha scritto Marco Politi, ovvero se con il suo pontificato si sia andato “oltre alla crisi della Chiesa” cattolica, come ha sostenuto invece don Roberto Regoli: in ogni caso di “crisi” si tratta, dunque (anche se la situazione è talora molto diversa sul colle Vaticano rispetto alle periferie situate nei diversi continenti). Non soltanto per la sua brevità, se comparata al regno di Giovanni Paolo II (otto anni contro ventisette), il pontificato di Benedetto XVI non ha potuto, e presumibilmente non poteva, incidere su orientamenti che si erano caratterizzati come una dismissione delle istanze riformatrici cui il Concilio Vaticano II (1962-1965) aveva aperto le porte: ovvero le finestre, si vuole ricordare una frase di Giovanni XXIII (1958-1963) sulla opportunità di rinnovare l’aria all’interno della Chiesa cattolica. Con l’esasperata accelerazione che si volle dare al processo di beatificazione di Karol Wojtyła si mirava ad apporre il sigillo della santità sulla situazione che era stata consolidata nei lunghissimi anni del suo pontificato. Non si dimentichi, peraltro, che sul piano degli orientamenti teologici e dottrinali la collaborazione tra il papa e il prefetto dell’ex S. Ufficio fu particolarmente stretta e intensa. Li accomunava la scelta di schierarsi «in difesa della fede» (come si intitolava un importante libro di Giovanni Miccoli, il maggiore storico della Chiesa dell’ultimo mezzo secolo).
Quali motivazioni hanno spinto Joseph Ratzinger allo storico gesto della rinuncia al ministero petrino?
Iniziai a prendere in esame la figura di Benedetto XVI quando rese pubblica la decisione di rinunciare al pontificato l’11 febbraio 2013. L’annuncio colse tutti di sorpresa, dal momento che si trattava di una scelta priva di precedenti vicini nel tempo. Peraltro, i pontefici che prima di allora avevano rinunciato agirono in situazioni totalmente diverse (vedi R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Brescia, Morcelliana, 2013). In tempi recenti il “papa emerito” ha nuovamente smentito che sia stato lo scandalo suscitato dalla fuga di documenti dal suo ufficio – il c.d. Vatileaks – a indurlo a lasciare il pontificato. A dire il vero, molti anni prima e in un contesto insospettabile aveva già ventilato la possibilità che determinate condizioni potesse indurre a una rinuncia del genere. Inoltre, la motivazione esplicitamente avanzata, legata al peso crescente dell’età, ha trovato una dolorosa conferma nel progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute negli anni successivi. Non si può negare, comunque, che Benedetto XVI avesse riscontrato non poche difficoltà nel gestire la Chiesa cattolica per il tramite di una pesante macchina curiale. Il bianco scatolone, contenente i risultati di un’approfondita indagine sulla Curia romana affidata a tre cardinali, spiccava nella fotografia del primo incontro di Ratzinger e Bergoglio a Castel Gandolfo: in altri termini, egli era consapevole del fatto che un successore avrebbe dovuto affrontare i nodi rimasti irrisolti alla fine del proprio pontificato.
Ratzinger ha inaugurato l’inedita figura di “papa emerito”: quali interrogativi e prospettive pone la “coabitazione” con papa Francesco?
A Benedetto XVI deve essere tributato un giusto riconoscimento per avere evitato che rimanesse in carica un pontefice che non era in grado di governare in maniera effettiva la Chiesa cattolica (in tempi recenti, in effetti, ha cominciato a essere sollevato il velo che occultava talune discutibili e perniciose prassi curiali instaurate negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II). La nuova situazione, legata alla presenza di un “papa emerito” e del papa regnante, non poteva essere racchiusa in dichiarazioni di circostanza. Già nell’elaborazione della figura inedita di un “papa emerito”, ambigua nella sua determinazione teologica ed energicamente ricusata dai canonisti, si poneva la premessa non tanto di un condizionamento, più o meno diretto, nelle scelte di governo immediate, quanto di una riserva che, più o meno esplicita, poteva essere avanzata nei confronti di orientamenti di carattere generale. Al di là dei rapporti personali e delle ritualità, a diverse riprese l’antico pontefice ha fatto sentire la sua voce in netto disaccordo con le scelte del pontefice regnante, in verità interferendo di conseguenza in decisioni incipienti.
Quale bilancio e quale futuro per la Chiesa del ventunesimo secolo?
Di recente si vanno accumulando sugli scaffali delle librerie i volumi che stanno tentando di tracciare un bilancio dello stato della Chiesa cattolica e di delineare il suo possibile futuro nel primo secolo del terzo millennio. Essi riflettono lo sconcerto che il papato di Jorge Mario Bergoglio ha suscitato sia tra i riformatori sia tra i conservatori, ai lati opposti di un ventaglio di posizioni molto più complesso. Tra l’altro, i criteri di valutazione mutano, a seconda che si voglia esprimere un parere avendo sullo sfondo lo scenario del ruolo delle religioni nel mondo attuale ovvero collocandosi nel contesto della sorte millenaria del cristianesimo e delle sue chiese. In questa situazione il cardinale Joseph Ratzinger aveva già avanzato la propria risposta, quando si accingeva a essere eletto papa: durante la messa che aveva preceduto il conclave, nella sua veste di decano del collegio cardinalizio, nel suo sermone si era scagliato contro il relativismo e aveva prospettato un orientamento sostanzialmente difensivo da parte della Chiesa cattolica. Con l’elezione del suo successore è stato al contrario proposto, sia pure in maniera non organica, un atteggiamento di apertura e di accettazione, che nel corso degli anni si è variamente articolato. Nel momento in cui si è prospettata la scelta di non imporre un rigido inquadramento dei ranghi della Chiesa cattolica, in tutti i suoi livelli è emersa la realtà sottostante di una complessa varietà di situazioni, che a taluni è apparsa persino dirompente. Senza entrare in profondità nel merito degli indirizzi suggeriti da papa Francesco, e tanto meno nella problematica gestione del vertice ecclesiastico romano (evidenziata dalle recenti incriminazioni da parte della magistratura vaticana), gli orientamenti che si affermeranno questi decenni risulteranno senza dubbio decisivi per quanto riguarda il futuro storico del cristianesimo, e in particolare della Chiesa cattolica.
Roberto Rusconi, già professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università Roma Tre, è tra i fondatori della «Rivista di storia del cristianesimo». Tra le sue pubblicazioni: Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette (2013), Il governo della Chiesa. Cinque sfide per papa Francesco (2013), Papi santi (2014) e I papi e l’anno santo (2015), tutti editi da Morcelliana.