
Quanto al secondo quesito, è evidente che di fronte a sviluppi di tale portata (e tanti altri su cui ora si deve glissare), anche le metodologie di indagine sono profondamente mutate. In linea generale non si può negare la forte radice che lega gli studi di storia delle relazioni internazionali alla ‘vecchia’ storia diplomatica; allo stesso tempo, lo studio del puro fatto e dell’atto diplomatico si era dimostrato incapace da solo di spiegare le complesse dinamiche che hanno condotto al turbinio di avvenimenti del Novecento e il campo si è allargato. Moltissime discipline hanno contribuito con il loro patrimonio di conoscenze e metodi di indagine a questo allargamento, che a sua volta si è esteso alla rilettura dei periodi antecedenti, proponendo interpretazioni più compiute e in alcuni casi alternative. In tal senso, fondamentale è stato l’apporto della Scuola francese – si pensi alla sottolineatura delle famose ‘forze profonde’ di Pierre Renouvin o ai magnifici studi di Braudel sul Mediterraneo. Ma anche la storiografia italiana ha avuto la sua parte in questo processo. Né il percorso è terminato ed anzi gli ultimi anni, sotto la denominazione di ‘Storia internazionale’ si è inteso, tra le altre cose, raccogliere insieme le esperienze della Storia delle relazioni internazionali e delle discipline storico-istituzionali specie di ambito extra-europeo (le cosiddette ‘storie d’area’): in questo la vicenda della Società Italiana di Storia Internazionale (SISI) che oggi raggruppa tali ambiti disciplinari e ne promuove l’interazione è illuminante; nel nostro piccolo, il volume di cui oggi parliamo è un esempio di quanto detto, perché nasce proprio all’interno della Società ed è rappresentativo dei suoi interessi di ricerca.
Su quali tematiche principali si è articolato il dibattito nel campo della storia internazionale del Novecento?
Come anticipato, la storia internazionale presenta svariate tematiche ricorrenti, che corrispondono in definitiva ad interessi, necessità ed obiettivi degli attori della comunità internazionale e che per questo motivo appaiono come delle costanti: le esigenze dettate dalla collocazione geografica e politica, dalla disponibilità di risorse o la loro assenza, dalla tradizione e dagli indirizzi di governi e popoli e le contrastanti pulsioni alla cooperazione e al multilateralismo, o viceversa all’individualismo e al perseguimento dell’interesse nazionale che ne possono derivare. Il Novecento è stato una grande camera di gestazione di fenomeni e interpretazioni nuove ed altresì la prosecuzione e spesso deflagrazione di dinamiche pregresse, talvolta rimaste a lungo latenti: pensiamo alle questioni identitarie, allo stesso principio nazionale così ben attestato nel XIX secolo e agli esiti poi sperimentati nel XX: la Grande Guerra come momento di dissoluzione di imperi multinazionali, la successiva deriva nazionalistica, il diffuso annacquamento di molte dinamiche nazionali nel magma del confronto bipolare e infine la loro fatale risorgenza dopo la fine della Guerra Fredda: dalla dissoluzione del blocco sovietico e della stessa URSS alla questione jugoslava alla stessa vicenda coloniale, comprensiva delle responsabilità dei colonizzatori nell’approntamento di soluzioni territoriali e/o politiche parziali o erronee (e un apposito filone di studi dedicato ai cosiddetti border studies, oggi molto in voga, se ne occupa specificamente), che hanno proiettato effetti drammatici in epoca recente o attuale; l’esempio del Ruanda di metà anni ’90 è tra i più noti di un insieme purtroppo molto vasto. Anche sotto il profilo delle tematiche, la pubblicazione in uscita presenta uno spaccato significativo di questo dibattito: dalle riletture della questione degli Stretti a nuovi profili nel processo di integrazione europea ai temi legati all’attestazione del cosiddetto soft power, molti e diversificati sono gli ambiti di studio.
Quali dinamiche caratterizzano le relazioni internazionali in seguito alla fine della guerra fredda?
A trent’anni dalla sua fine è ormai possibile riconoscere che la Guerra Fredda è stato un lungo e sfaccettato periodo della storia della politica internazionale – e fin qui nulla di nuovo – caratterizzato certo da un’atmosfera di perdurante tensione, ma dalle dinamiche in definitiva ‘leggibili’ e, per questo motivo, sovente prevedibili; l’’equilibrio del terrore’ allarmava, ma di equilibrio infine si trattava, anche laddove raggiunto attraverso rincorse reciproche sul piano politico, economico, militare.
Il declino e la fine di quest’epoca è stato salutato da istanze di rinnovamento della politica internazionale e da auspici di superamento di conflitti e contrapposizioni. Il negoziato sulla limitazione e poi riduzione degli armamenti ne esprimeva il miglior viatico diplomatico, contestualmente ai fermenti di libertà presenti (e spesso vincenti) in più angoli del pianeta. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite si affrettò a dichiarare la propria volontà di guidare un processo virtuoso di innovazione, adempiendo finalmente all’originario mandato ideale. Ma mentre in molti ambiti il percorso è proseguito, conseguendo importanti risultanze (ancora il disarmo e la denuclearizzazione, i percorsi multilaterali di apertura alle nuove sensibilità in tema sociale e ambientale, le stesse vicende politico-militari ora affrontate in ambito multilaterale, su tutte la prima guerra del Golfo), anche il riflusso non ha tardato a manifestarsi. Come rilevato in precedenza, le tensioni irrisolte sono destinate a riproporsi e questo è quanto è occorso specie in ambito regionale (dai Balcani al Caucaso all’Africa subsahariana), mentre nuove minacce iniziavano a manifestarsi, a cominciare dal fenomeno del terrorismo internazionale, giunto l’11 settembre 2001 alla sua punta anche simbolica, ma preceduto da moltissimi antefatti, che l’analisi storica ha oggi dimostrato essere spesso collegati, come la vicenda di ‘al-Qaeda’ ha confermato. E dal punto di vista politico-diplomatico non c’è dubbio che questi sviluppi abbiano cominciato a dettare nuove priorità nell’agenda internazionale, parallelamente al riorientamento della politica estera statunitense.
Quale ruolo ha avuto l’antiamericanismo tra le culture politiche del secondo dopoguerra?
Un ruolo importante, che richiede alcune precisazioni. Come la ricerca più attenta ci segnala, ‘antiamericanismo’ è di per sé dicitura generica, utilizzata da cultori di storia per indagare la sistematica avversione alle politiche e agli stessi valori statunitensi, ma che è stata altresì impiegata con maggiore disinvoltura per accomunare tutte le analisi in qualche modo critiche della politica a stelle e strisce. Relativamente alla politica estera, a Washington già dopo la fine della seconda guerra mondiale si era avvertita la necessità di contrastare le campagne pregiudizialmente anti-statunitensi con una contro-narrazione strutturata, incapace tuttavia nel medio periodo di sopravanzare l’impulso contrario: un impulso di provenienza sovietica ma recepito anche in Occidente e ripetutamente corroborato da scelte controverse compiute dal governo americano, da Cuba al Vietnam. Si era sviluppato in tal modo un anti-americanismo che, sulla base di vecchi pregiudizi di tipo socio-culturale ben radicati nella ‘vecchia Europa’ irritata dalla pervasività dell’‘eccezionalismo’ americano, trovava modo di proliferare ammantandosi di contenuti politici e legandosi alle versioni più militanti del terzomondismo (a loro volta espressione di precise direttrici politiche, come nel caso cinese). Le pulsioni unilateralistiche di Washington, il suo rampantismo economico, la prolungata sordità rispetto al rinnovarsi del dibattito internazionale in sede ONU tra gli anni ’70 e ’80 ne giustificavano punte di forte asperità, diffuse anche tra i paesi alleati: si pensi al dibattito francese ed anche italiano. Così, quando Ronald Reagan divenne presidente – aveva evidentemente una sensibilità ed una expertise in proposito – dichiarò in maniera assai chiara che un salto di qualità avrebbe dovuto essere realizzato anche nella diffusione della ‘vera storia’ del popolo americano, da esso stesso raccontata. I risultati furono controversi ma la fine della Guerra Fredda parve dare ragione, in ambito politico ed altresì culturale, alle scelte degli Stati Uniti. Che a ben vedere, proprio nel momento di massima difficoltà rappresentato dagli attacchi dell’11 settembre – non a caso rivolti contro alcuni dei simboli stessi dell’America – sperimentarono una grande e diffusa solidarietà (reale e interessata) e un contestuale declino del sentimento anti-americano. Non trascorrerà tuttavia molto tempo prima che l’attacco all’Iraq del marzo 2003 riporti quest’ultimo oltre il livello di guardia e dal “siamo tutti americani” risuonato da Parigi al resto del mondo si sia passati al ripresentarsi sui media statunitensi del quesito: “perché ci odiano?”. Il nuovo indirizzo dell’Amministrazione recentemente insediatasi, improntato al recupero di istanze multilateralistiche, non pare estraneo alla volontà di colmare infine la distanza ancora esistente, specie con riferimento alla società civile dei paesi alleati.
Quale impatto hanno la stampa e i social media nelle politiche degli Stati?
La questione del rapporto tra informazione e politica internazionale è importante e di lunga durata e costituisce un’altra delle variabili dell’azione esterna di cui si parlava. Evidentemente, anche sotto questo aspetto il XX secolo ha ancora una volta rappresentato un momento di svolta, parallelamente ai progressi sperimentati dalla stampa e di seguito da tutti i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto in relazione alla necessità di veicolare contenuti spesso vitali per l’esistenza stessa degli attori coinvolti (si pensi al tema della propaganda in relazione alle guerre e massimamente ai due conflitti mondiali). Della necessità di utilizzare/condizionare gli apparati della comunicazione in tempi di Guerra Fredda si è accennato. Certamente negli ultimi anni si assiste al manifestarsi di una nuova fase, con l’ulteriore accelerazione nell’utilizzo di strumenti informativi che hanno acquisito un ruolo politico sconosciuto in passato: l’informatizzazione prima e l’emergere poi dei cosiddetti social media sulla scena globale – accanto alla grande capacità informativa – non si può negare rappresentino mezzi formidabili di promozione di interessi di parte, in virtù di una straordinaria capacità di mobilitazione e creazione di consenso/dissenso, anche sulla scorta di linguaggi fortemente ‘militanti’ e identitari. Tanto più significativo risulta il processo allorché si è giunti alla capillare diffusione su scala globale di false informazioni (anch’esse sempre esistite ed ora sublimate dal fenomeno delle fake news, oggetto di dibattiti anche tra decisori ai massimi livelli). Dagli Stati Uniti al resto del pianeta, specie dopo la ‘tempesta’ trumpiana alla Casa Bianca e l’impiego di Twitter come strumento di comunicazione diretta estraneo al controllo degli apparati dell’Amministrazione, l’espansione dei social network e la scientificità nel loro utilizzo caratterizza oramai ampiamente le relazioni internazionali presenti e pone in maniera stringente la necessità di una regolamentazione sovranazionale dei contenuti; in questo senso, come ha chiaramente espresso un Autore della nostra raccolta, essi debbono essere considerati alla stregua di efficaci generatori di processi “tanto nella micro-scala della sfera relazionale di un singolo individuo, quanto nella macro-scala delle interazioni sociali e politiche delle collettività organizzate, dei sistemi-Paese, e dell’unica comunità mondiale”. Sotto questo profilo, il futuro delle dinamiche internazionali è già presente.
Gianluca Borzoni è professore associato di Storia delle Relazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Cagliari, dove insegna Storia delle relazioni internazionali e Storia internazionale contemporanea. Si è occupato di politica estera italiana e di relazioni internazionali in ambito mediterraneo. Tra le pubblicazioni, Renato Prunas diplomatico, Rubbettino 2004; Il Mediterraneo e la sfida che arriva da Est (con C. Rossi), FrancoAngeli 2017; Bilateral Relations in the Mediterranean. Prospects for Migration Issues (con F. Ippolito e F. Casolari), Elgar 2020.