
Certo, in simile marasma documentario, non sempre è facile distinguere le divorazioni reali da quelle sfumate nella leggenda: spesso e volentieri in cronache e annali il resoconto dei fatti si mescola alla narrazione fantastica. Se in certi ambiti, dunque, il cibarsi di carne umana è ben attestato, in altri contesti figurano tematiche stereotipate, topoi letterari, notizie poco credibili. Anche in queste circostanze, tuttavia, è possibile presagire qualche episodio realmente incorso alla radice degli archetipi.
Quali motivazioni spingevano a cibarsi di carne umana?
Prima di tutto la fame. Nell’Europa medievale l’avvento di guerre, assedi e carestie arrivava ad estinguere disastrosamente e in modo repentino le scorte alimentari. Il cibarsi di carne umana, divorando i defunti o spingendosi all’omicidio, si trasformava allora in una risorsa a cui ricorrere nei momenti di estremo bisogno. Questo, almeno, è quanto raccontano cronache e annali.
Ma ancor più diffuso del cannibalismo nutrizionale fu nel Medioevo l’impiego terapeutico dei resti umani, altamente reputato in una farmacologia di derivazione tardoantica infarcita di folclore e credenze pagane e sempre in bilico tra sfera medica e religiosa.
Negli erbari e nei manuali di farmacologia abbondano, infatti, le ricette di composti a base di resti umani destinati all’ingestione: sangue, ossa polverizzate, acque e olii distillate dal fegato e dal cranio, midollo, latte di donna, sperma saliva e cerume erano usati come ingredienti di oscuri amalgami. Tra i più celebri medicinali derivati dal corpo umano figurano il vinage, ottenuto filtrando i resti dei santi con vino, acqua o olio e la portentosa mumia, un poco rassicurante “liquamento d’huomini” trasformatosi verso il tramonto del Medioevo in vera e propria carne umana essiccata.
L’antropofagia rivestiva anche un significato di sfregio nei confronti del nemico.
Esatto. Si tratta di un’impressionante modalità di oltraggio, una forma estrema di vendetta pubblica post-mortem. Questa forma di cannibalismo dispregiativo compare solitamente all’apice di un violento rituale infamante che include processioni derisorie, svestizione della vittima, saccheggi e roghi di documenti, impiccagioni, squartamenti, decapitazione, amputazioni simboliche di arti, impiccagione per i piedi, trascinamento, dissotterramento ed esposizioni di membra umane. A scatenarlo sono congiure, rivolte, punizioni dell’attentatore del signore, scontri tra fazioni, lotte contro nemici esterni e vendette private.
Al tramonto del Medioevo, aggirandosi per le rinomate città della nostra penisola si correva quindi il rischio di capitombolare nel bel mezzo di un massacro dai risvolti cannibalici: le cronache italiane dal XIV al XVI secolo riportano infatti almeno una quindicina di episodi di questo genere. Celebre è, ad esempio, la rivolta del 1343 contro il duca di Atene Gualtieri di Brienne, signore di Firenze. Il tumulto scoppiò il 26 luglio, fomentato dalle famiglie degli Adimari, Medici, Donati e Ruccellai. Gli insorti, asserragliato il Brienne nel suo palazzo, chiesero come prezzo per rompere l’assedio la consegna di Guglielmo d’Assisi, un suo fido collaboratore, e del figlio. Il duca, avendo cara la pelle, abbandonò repentinamente i due capri espiatori alla folla in subbuglio.
Il giovane figlio di Guglielmo venne ucciso e squartato davanti al padre, al quale toccò ben presto la stessa sorte. I brandelli dei loro corpi furono fatti sfilare sulle lance lungo le strade del nucleo urbano ed i più crudeli tra i rivoltosi ne mangiarono le carni crude e cotte, raccontano i cronisti coevi.
Quali erano i riti connessi all’antropofagia?
I linciaggi e le vendette pubbliche sono le forme rituali di antropofagia meglio documentate, per quanto riguarda il territorio italiano. Ma travalicando i confini europei diverse tipologie di cerimonie antropofaghe e necrofaghe sono variamente ricordate nei racconti dei viaggiatori che attraversarono remote contrade, raccogliendo preziose informazioni sugli usi locali.
Spesso in questi contesti il cannibalismo non è affatto considerato un atto infamante, ma al contrario un gesto di grande pietà. Sono, ad esempio, descritti con minuzia dai principali memoriali di viaggio bassomedievali i rituali funebri della popolazione turco mongola stanziata in Tibet. In seguito a un decesso, narrano missionari e mercanti, i figli del defunto invitano sacerdoti, parenti e amici a partecipare a un grande banchetto funebre, che sarà accompagnato da canti e preghiere. Nel corso del banchetto la salma è spartita tra i figli, cui spetta il capo, i membri della comunità e aquile e avvoltoi, considerati angeli. Il corpo dell’antropofago si trasforma allora nella più incontaminata e nobile delle sepolture.
Presso altre popolazioni, invece, l’antropofagia è volta ad assimilare le virtù del nemico ucciso. Una simile valenza non compare però nelle testimonianze relative ai territori europei, se non come credenza attribuita ai saraceni da Goffredo Malaterra.
Vi era correlazione tra il rito eucaristico e la sua transustanzazione e l’antropofagia?
Certo, c’è stata (e c’è tutt’ora) una correlazione tra eucaristia e teofagia, dal momento in cui storicamente prevalse l’interpretazione realista del miracolo eucaristico, ovvero quella linea di pensiero che postulava la reale presenza del corpo e del sangue di Cristo nelle specie consacrate.
Ovviamente più complesso è il significato teologico attribuito al miracolo eucaristico, che non si traduce in un processo alimentare, ma nell’essere assimilati dalla divinità. Quanto però nella pratica la ricezione del dogma fosse connotata in senso alimentare lo mostra bene il lessico culinario che permea le testimonianze medievali di devozione o ancora la grande diffusione di exempla eucaristici che tramandano le apparizioni di Cristo nell’ostia consacrata in forma di adulto, di bambino o di vera e propria carne umana sanguinolenta.
A cibarsi di esseri umani, nell’immaginario medievale, non erano solo gli altri esseri umani: quali erano le credenze al riguardo?
L’immaginario medievale pullula di divoratori. La figura più tipica è la strega, tutt’oggi evocata dalle fiabe di origine come Hänsel e Gretel, la cui origine, infatti, risale al Medioevo. La cattiva megera nella notte sorvola i tetti a cavallo di una scopa, rapisce i neonati dalle culle, somministra filtri d’amore, pronuncia vaticini e formule arcane rimestando immensi calderoni dove sobbollono code di rospo, ali di pipistrello, ragni, e oscure polveri: il grasso di bambino costituisce l’immancabile componente delle sue misteriose pozioni. Per quanto demoniaca, l’accolita di Satana si può pur sempre annoverare tra gli esseri umani, ma la si ritiene in grado di operare perniciose metamorfosi di stampo maligno.
Non a caso, fedeli compagni delle streghe sono i lupi mannari, indefessi fagocitatori di infanti, posseduti dai demoni e preda di insaziabili voracità. L’ingordigia verso la carne umana è del resto una caratteristica degli ibridi canini: un altro tipico esempio è quello dei cinocefali, feroci antropofagi dalla testa di cane. A prediligere il sangue sono invece gli antenati dei vampiri – vrykolakas, upir, uber, anárracho, lampasma, e così via. I succhiasangue non si limitano a infestare i lugubri villaggi e le tetre foreste della Transilvania, ma sconfinano nell’Ellade medievale, nei Balcani meridionali, nell’area germanica, in quella scandinava e nelle contrade inglesi del XII e XIII secolo. In territorio greco sono particolarmente temuti i rettili mostruosi che suggono sangue e si nutrono di carne umana, capaci di cambiare forma infiltrandosi subdolamente tra gli uomini assumendone l’aspetto e le abitudini. Mostri e draghi divoratori popolano infine miti e leggende nordiche, ma gli antropofagi per antonomasia restano senza dubbio orchi e giganti che, sotto spoglie comico-grottesche, incarnano l’incubo della fame e il rimorso collettivo dovuto all’infrazione di uno dei più profondi tabù della cultura cristiana.