
Dal 14 giugno in poi, la città fu per mesi e mesi preda dei sanfedisti – giunti dalle province col cardinale Ruffo – e dei lazzari napoletani, che mantennero sostanzialmente in mano loro il potere, senza che le autorità (a partire da Ruffo e dal re) riuscissero a frenare l’autentico olocausto che si scatenò. Le masse uccidevano a man franca giacobini veri o presunti, infierendo in modo brutale sui cadaveri: strascinandoli a terra, facendoli a pezzi e portandone parti in trofeo sulle picche (ma c’era chi s’intascava le parti pudende), usando le teste per giocare a pallone, perfino stuprando donne già morte! Erano così tante le donne e gli uomini uccisi, tanti erano i cadaveri che a mucchi ricoprivano le strade della città, che il diarista borbonico Carlo De Nicola si augurò tremebondo che non insorgesse un’epidemia di peste.
Un «orrore», come fu definito da tutti i testimoni, sia repubblicani sia borbonici: Ruffo, il re e i loro più stretti collaboratori ne furono letteralmente sconvolti. Con la differenza che da allora quel grand’uomo di Ruffo abbandonò la carriera di leader controrivoluzionario («certe follie si fanno una volta sola», disse), mentre il re e la dinastia dei Borbone continuarono a lungo a soffiare sul fuoco della sconcertante violenza popolare, col brigantaggio che perpetuò il terrore del sanfedismo.
Nel 1799 (e anche col brigantaggio) le sevizie giunsero in vari casi all’acme supremo del cannibalismo, dell’ingestione di carne umana, contravvenendo a quello che è il tabù supremo dell’Occidente (e non solo, come ci insegna Marc Augé), ben più dell’incesto. Una realtà documentata al di là di ogni dubbio, visto che essa è attestata dalle stesse fonti borboniche. Dubitarne, significa o non conoscere il mestiere di storico e la filologia, o essere gravemente disonesto intellettualmente.
Le violenze dei sanfedisti non rappresentano un episodio isolato ma si inseriscono in una pratica assai diffusa che pervade tutta l’Europa moderna: quali altri episodi di antropofagia rituale conosciamo?
In realtà, il cannibalismo europeo (non solo quello napoletano) fu per secoli e secoli nascosto da una portentosa censura, dunque è stato estremamente difficile documentare questo e ulteriori casi sparsi nel resto d’Italia e d’Europa. Anche data l’assenza di studi storici e antropologici che, salvo rarissimi casi, non hanno trattato il fenomeno. Il cannibalismo nei continenti extra-europei è studiatissimo. Il cannibalismo in Europa per niente.
Occorre avere ben presente il fatto che, con la scusa del cannibalismo degli altri, noi Europei abbiamo massacrato le popolazioni dell’America, dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania, attuando veri e propri genocidi che non hanno nulla da invidiare agli orrori nazisti (che, del resto, avvennero pur sempre in Europa). Gli Europei dicevano: questi popoli sono selvaggi, sono al di là dell’umano, mangiano i propri simili. Sono l’«altro» da noi, sono «mostri». D’altra parte, il termine stesso «cannibali» è un neologismo coniato da Cristoforo Colombo. Questa presunzione rappresentò il pilastro ideologico fondamentale della brutale colonizzazione, dispiegata dalle potenze europee per secoli e secoli in tutto il Mondo. Schiavizzando donne, uomini e bambini. Facendo morire milioni di persone. Attuando una sistematica rapina delle loro ricchezze. Stravolgendoli culturalmente, con la conversione forzata alla fede cristiana e l’imposizione delle nostre lingue: lo spagnolo, il portoghese, il francese, l’inglese…
Ci volle una suprema ipocrisia ad annientare intere popolazioni con la scusa del cannibalismo, visto che il cannibalismo era molto diffuso anche da noi. Nel libro documento, in modo inoppugnabile, decine di episodi in cui gli Europei mangiarono altri Europei non per fame, per insopprimibile bisogno, ma nel fragore della lotta politica. Dal Medioevo delle lotte tra Guelfi e Ghibellini e delle Signorie che chiudevano l’esperimento dei Comuni, all’Età Moderna del Sacco di Roma del 1527, delle Guerre di religione che insanguinarono la Francia nel ’500, del ’600 della Rivoluzione inglese e del Secolo d’oro olandese. Furono numerosi in Europa i casi in cui i massacri popolari giunsero all’apogeo cannibalico.
E documento anche due episodi occorsi nella Rivoluzione francese: uno era già noto agli specialisti, l’altro invece, avvenuto durante la celebre «grande paura del 1789», l’ho scoperto io. Esso è del tutto eccezionale, visto che a parte i testimoni oculari, è attestato dallo stesso cannibale: un certo Pierre Hébert, scaricatore di pietre, che fu interrogato all’indomani degli eventi. Ciò che sconvolge, è la naturalezza e la nonchalance con cui il cannibale giustificò l’accaduto. Disse, infatti, che una volta che la vittima (un ufficiale borbonico) era stato trucidato e fatto a pezzi dalla moltitudine, non credeva di avere fatto nulla di male e di non «avere mancato a nessuno» mangiandone un pezzo, ma di avere «festeggiato» l’annientamento di un personaggio che voleva arrestare il corso rivoluzionario nella sua città (Caen, in Normandia).
«La banalità del male», verrebbe da dire richiamando Hannah Arendt. Ma ciò deriva dal nostro modo contemporaneo di guardare a un fenomeno che abbiamo in qualche modo «normalizzato» ed esorcizzato rendendolo una pratica individuale specchio di psicopatologia criminale (serial killer o meno), che invece fu piuttosto diffusa quale rito collettivo fino all’altro giorno, se giudicato col metro dei tempi storici. Uno scioccante dato costitutivo – finora ignoto – della nostra civiltà. Abbiamo creato le libertà individuali e collettive moderne, i diritti, la democrazia, la divisione dei poteri, lo Stato sociale, e tante altre conquiste dell’umanità. Ma siamo stati anche cannibali, censurandolo e accusandone gli altri, di ciò dobbiamo esser coscienti.
Quale valore simbolico aveva il cannibalismo nell’Europa d’ancien régime?
In parte ciò può comprendersi dalle parole del cannibale francese che ho appena citato: un festeggiamento. In effetti, dall’analisi dei casi che ho esaminato, ho visto affiorare uno sfondo sia rituale sia magico. Ma il dato cruciale mi è parso potersi sintetizzare nella politica: il cannibalismo era un rito magico che metteva in pratica la forma suprema di vendetta e disprezzo popolare nei momenti di radicale crisi politica: quelli in cui era in gioco – o poteva entrare in gioco – il nodo della sovranità.
Era una pratica attraverso cui il popolo dal basso affermava il proprio potere, la sua cultura politica, con stilemi del tutto indipendenti dalle culture alte. Il più estremo esempio di «mondo alla rovescia». Infatti, credo che uno dei meriti del libro sia quello di riaprire in modo non scontato il discorso sulla cultura popolare. Negli ultimi anni si è perfino giunti a negare che esista una cultura popolare autonoma, come avevamo imparato a pensare grazie agli studi di grandissimi studiosi come Carlo Ginzburg e di tanti altri. In realtà, il cannibalismo (talmente al di là della cultura colta laica e religiosa da violare il supremo tabù) dimostra che una cultura popolare esisteva eccome.
Certo, il discorso del cannibalismo a noi fa assoluto orrore. Ma è necessario avere presente che la gente viveva quotidianamente immersa in un mondo di ultraviolenza. Erano in primo luogo gli Stati che mettevano in scena una sconvolgente violenza nelle condanne a morte, come ci ha insegnato Michel Foucault. Le popolazioni non erano educate alla ripulsa della violenza ma al suo trionfo. Quando le autorità non erano all’altezza, il popolo prendeva il bastone del comando e, dopo aver riprodotto gli stilemi di violenza del potere dall’alto, massacrando e facendo a pezzi i corpi morti, dava la propria sanzione suprema dal basso, giungendo al cannibalismo.
Si tratta, insomma, della scoperta di un relitto dimenticato nei bassifondi della storia, di un colossale rimosso della coscienza occidentale con cui credo dovremo fare i conti, prima di additare ancora oggi nell’altro – nel diverso – un mostro, non vedendo il mostro che alligna anche in noi.
Luca Addante è professore di Storia moderna all’Università di Torino