
La cooperante sinergia dei tre principali fattori della secolarizzazione, del dominio quasi illimitato della filosofia analitica e del neo-positivismo giuridico costituisce non soltanto il principio d’erosione del pensiero forte su cui per millenni si è basata la civiltà giuridica occidentale, ma soprattutto l’ostacolo etico e teoretico quasi insormontabile per l’uomo contemporaneo che intende approcciarsi alla comprensione del contrappasso.
L’intrecciarsi di questi tre predetti elementi ha sempre più causato il distacco da una concezione retributiva e sostanziale della pena, aprendo la strada verso quella miriade di teorie alternative che costellano attualmente lo scenario giuridico intorno alla concezione della sanzione in genere e di quella penale in particolare.
Eppure, la dimensione letteraria appare, a ben guardare, anche soltanto limitandosi ad alcuni dei capisaldi conclamati della letteratura mondiale di ogni tempo, strutturalmente percorsa da una concezione palesemente retributiva.
Già l’antica e nobile mitologia classica è vivificata da una concezione ben chiara della pena come conseguenza del delitto commesso in violazione degli accordi tra uomini e dei. Come non pensare, infatti, in tal senso, alle figure di Tantalo, di Sisifo o di Prometeo?
Senza dubbio, però, l’esigenza di dar ragione del principio di giustizia che invoca la pena dopo il peccato, dopo il reato, dopo il malfatto non si riduce alla fertile, ma eterea dimensione della mitologia classica, avendo la letteratura – con la sua silente e poderosa profondità teoretica – assorbito e rielaborato nel corso del tempo la dottrina della pena meglio di quanto filosofi e giuristi abbiano mai osato di poter sperare.
Già prima che Dante consacrasse il principio retributivo come criterio ordinante della struttura detentiva del suo “Inferno”, infatti, già i tragici greci avevano ampiamente investigato e svelato le potenzialità del suddetto principio.
La tragedia greca nella sua interezza, infatti, può essere intesa come il più articolato e umanamente profondo sistema di riflessione etica e teoretica intorno alla filosofia della pena in genere e al principio retributivo in particolare.
Nulla, nessuna azione o nessun misfatto, sfugge, infatti, al principio di giustizia che si rivela con tutta la propria solennità nel pensiero tragico greco. Il coro dell’Agamennone, a titolo esemplificativo, sancisce in modo inequivocabile che fin quando Zeus esisterà una pena dovrà soffrire chi ha compiuto il male.
Soltanto con la “Divina Commedia” dantesca, però, il termine e il concetto di contrappasso trovano una loro esplicita codificazione letteraria facendo conoscere al volgo e al grande pubblico il principio retributivo in tutta la sua magnificenza ben oltre le lugubri aule giudiziarie.
Da lì in poi il contrappasso ha trovato nuove stagioni di vitalità e applicazione letteraria come nei saettanti versi di “Misura per misura” di William Shakespeare o nelle introspettive pagine di “Delitto e castigo” di Dostoevskij.
La letteratura, insomma, sembra aver valorizzato il principio retributivo in genere e quello del contrappasso in particolare in modo molto più
Quali sono i fondamenti teologici e filosofici del contrappasso?
Se la letteratura ha nel corso dei secoli dipinto il contrappasso come criterio di giustizia sostanzialmente rendendolo quasi un topos letterario a sua volta, sono state la teologia e la filosofia che maggiormente ne hanno problematizzato razionalmente la configurabilità quale criterio compiuto di giustizia.
In questa direzione occorre porsi degli interrogativi inevitabili: come si delinea il contrappasso nella dimensione della giustizia divina? Quali connotati assume il contrappasso alla luce dell’esperienza religiosa? Quali i fondamenti scritturistici e teologici del contrappasso? Quali sfumature, differenze e similitudini esistono tra il contrappasso di matrice ebraica, il contrappasso di matrice cristiana, il contrappasso di matrice islamica e il contrappasso di matrice, perfino, induista? Come si inserisce nella teoria e nella filosofia della pena l’idea di contrappasso? Che rapporto esiste tra contrappasso e misericordia divina?
L’interrogazione intorno al contrappasso come problema teologico conduce, oltre alla scoperta della risposta ai predetti quesiti e alla nascita di ulteriori nuove domande, al disvelamento di una dimensione profondamente comune del senso di giustizia retributiva che pervade le differenti teologie, perfino oltre la profonda differenza tra monoteismi abramitici e politeismi orientali, quasi come fosse un tratto umano così radicalmente costituivo da essere imprescindibile e riconoscibile ad ogni latitudine culturale e storica.
Il piano filosofico, del resto, oltre quello teologico ha a lungo riflettuto sul tema del contrappasso come su quello più generale della pena che risulta irrimediabilmente e geneticamente connesso con problemi più classici come quello del male o quello della libertà.
Non a caso nel testo ho cercato di affrontare in modo quanto più sistematico possibile la filosofia della pena, insistendo sulla chiarificazione categoriale della sua causa, della sua natura e del suo scopo.
In questa prospettiva non si può fare a meno di distinguere, senza dubbio nell’ottica di una visione cognitivista e razionalista, la profonda differenza che esiste a livello teoretico e giuridico, specialmente nella determinazione storica che il diritto occidentale ha assunto negli ultimi due millenni almeno, le differenti stratificazioni del principio retributivo tenendo ben presente la diversità strutturale esistente tra vendetta, taglione e contrappasso.
In che modo il contrappasso può ancora fungere da modello di giustizia?
Nel mondo contemporaneo in cui il diritto è in crisi poiché ridotto da un lato al mero comando volitivo del legislatore o del giudice e dall’altro lato alla mera formalizzazione normativistica con cui viene espresso, in cui la crisi antropologica ha pesantemente coinvolto anche e soprattutto il diritto penale sia nella sua dimensione sostanziale (per esempio con la messa in discussione di categorie imprescindibili come la presunzione d’innocenza o il principio di legalità) quanto processuale (per esempio con la diffusione dei cosiddetti riti alternativi o di quelli cosiddetti deflattivi), in cui l’uomo occidentale non si interroga più sulla dimensione ontologica e assiologica dell’esistenza in genere e del diritto in particolare, appare quanto mai difficile se non impossibile pensare al contrappasso come cogente criterio attuale di giustizia.
Tuttavia, guardando soprattutto alle cosiddette “sanzioni creative” che sempre più spesso vengono irrogate oltreoceano dal sistema penale statunitense, che spesso si risolvono in pene orientate dal principio del contrappasso (per esempio prestando ore di servizio sociale a favore della comunità che il reo ha danneggiato con il suo comportamento criminoso) un nuovo orizzonte sembra dischiudersi per il principio retributivo commisurato dal criterio del contrappasso come modello di giustizia sostanziale.
In Europa e in Italia in particolare, cioè in un contesto giuridico fortemente connotato dalla concezione positivistica e codicistica della pena, ancora un tale approccio creativo delle corti non ha attecchito e bisognerebbe del resto chiedersi se fosse possibile davvero la sua diffusione, ma in ogni caso l’esempio anglosassone costituisce una evidente riproposizione del modello del contrappasso che dovrebbe quanto meno indurre ad una nuova più sistematica riflessione nel vecchio continente su un modello di giustizia che in quanto sempre più formalizzato appare sempre più sclerotizzato e inadeguato a rispondere alle concrete esigenze di giustizia, con sentenze, pene e decisioni che sempre più spesso, non a caso, vengono appunto percepite dall’opinione pubblica, dalle vittime e dal reo come palesemente ingiuste.
Riproporre una riflessione sul contrappasso oggi, dunque, può costituire un punto di inizio per tornare a problematizzare la pena in quanto tale e l’esigenza di giustizia ben oltre il predicato nominale della norma da cui essa viene disciplinata.
In questo senso ritrovano nuovo vigore gli insegnamenti di un maestro come Giuseppe Capograssi secondo il quale «il giurista non è il tecnico che fa uno sforzo di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo, nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde ed immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza».
Aldo Rocco Vitale, docente a contratto, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto europeo presso l’Università Tor Vergata di Roma. Consegue l’abilitazione forense e diviene Cultore della materia in Biogiuridica, Teoria generale del diritto e Filosofia del diritto; ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra le quali L’eutanasia come problema biogiuridico (FrancoAngeli 2017).