“A che cosa serve il diritto” di Vincenzo Di Cataldo

Prof. Vincenzo Di Cataldo, Lei è autore del libro A che cosa serve il diritto edito dal Mulino: a che cosa serve il diritto?
A che cosa serve il diritto, Vincenzo Di CataldoL’uomo è un animale sociale, ed è il più sociale tra i tanti animali che hanno uno stile di vita sociale. Molte specie animali (pensiamo allo scimpanzé, al gorilla, al leone, al lupo, al cane della prateria, al suricato, al bufalo, al bisonte) hanno elaborato strutture sociali formate da alcune unità, o alcune decine, o anche alcune centinaia di individui, ed hanno affidato ad esse la cura di alcuni obiettivi fondamentali, che sono, essenzialmente, l’allevamento in comune dei piccoli e la ricerca in comune del cibo.
L’uomo ha sviluppato strutture sociali su numeri molto più grandi: le nostre città, i nostri stati, aggregano milioni e milioni di individui. Inoltre, l’uomo ha affidato alle sue società la cura di una serie molto più vasta di interessi. Le nostre società si occupano della cura dei piccoli, dei malati, dei vecchi; della difesa del territorio da nemici esterni e dell’ordine pubblico interno; della istruzione, cioè della comunicazione della conoscenza, attraverso molti canali e in tutti i rami del sapere; dei trasporti di cose e persone, della comunicazione di informazioni; della produzione dei beni e dei servizi che vengono ritenuti essenziali o utili; dello sviluppo delle tecnologie; dello svolgimento di attività culturali, ricreative, puramente ludiche, e tanto altro. Le nostre società si occupano anche della soluzione dei conflitti tra individui e tra gruppi di individui, che sono tanto più numerosi quanto più alto è il numero di individui che vivono nello stesso territorio.

Il perseguimento di questi interessi collettivi e la soluzione dei conflitti tra individui sono possibili solo se esistono delle regole che governano le organizzazioni dedicate a ciascuno di questi compiti, e delle regole che governano le loro attività. Le regole sono i mattoni elementari sulle quali si sono costruite e si reggono le organizzazioni dell’uomo e le loro attività.
L’umanità, fin dai suoi esordi, ha costruito regole, elaborando diversi sistemi aventi il compito di costruire le regole che le avrebbero poi consentito di andare avanti su una strada che l’ha portata fino ad oggi. Un certo numero di regole comportamentali è stato elaborato sui tempi lunghi dell’evoluzione, ed è scritto nel nostro DNA, così come un certo numero di regole comportamentali è scritto nel DNA di ogni specie animale. Altre regole sono state elaborate per via culturale, come risultato dell’attività di vari fattori: delle religioni, e di singole strutture sociali, più o meno grandi ed estese. Il diritto è uno, il più consistente, di questi sistemi di regole elaborate dall’uomo per via culturale; esso nel tempo si è complessificato, ed ha acquistato uno spazio sempre più grande, ma continua a rispondere alla funzione originaria di tutti i sistemi di regole. Esso, infatti, serve a far convivere assieme nel modo migliore possibile numeri sempre più grandi di uomini e donne, ed a curare al meglio una vasta serie di interessi che questi uomini e queste donne hanno deciso di mettere in comune.

Esiste un “diritto naturale”, universalmente noto e condiviso?
Nel corso della storia, da molti secoli, almeno a partire dalla grande civiltà greca, si è parlato di “diritto naturale” per riferirsi, appunto, a regole che sarebbero universalmente note e condivise da tutte le popolazioni umane, di ogni tempo e di ogni luogo. In questa prospettiva, nella storia del pensiero occidentale si possono distinguere molti filoni, a seconda che si creda che questo corredo “naturale” abbia un’origine divina, o sia frutto della elaborazione dall’uomo per via razionale, o derivi da ancora altri fattori di creazione.
Queste dottrine hanno offerto riflessioni di enorme interesse e saggezza, pur differendo molto tra loro anche in ordine all’individuazione delle regole che ad esso apparterrebbero.
Secondo me, il punto di debolezza fondamentale di questo approccio sta nel fatto che esso si è posto sempre su base strettamente logica, senza alcun rapporto con il piano dell’indagine empirica. Occorrerebbe invece verificare empiricamente se esistono, e quali sono, le regole davvero comuni a tutti. Va detto, peraltro, che lo studio empirico di questi fenomeni dovrebbe collocarsi all’interno delle scienze che studiano il comportamento sociale delle varie specie animali, uomo compreso. Ma queste scienze hanno raggiunto un sicuro statuto solo qualche decennio fa, e quindi non si può rimproverare ai giuristi del diritto naturale di non aver saputo tener conto di una prospettiva d’indagine che non esisteva ancora al tempo in cui essi hanno iniziato a studiare questo genere di problemi.

Oggi il problema del diritto naturale può essere impostato, io credo, in modo molto diverso. Oggi è generalmente accettato che esista un insieme di regole comportamentali primordiali, iscritte nel nostro DNA, così come un corredo di regole comportamentali esiste nel DNA di tutti gli animali sociali, o di molti di essi. Oggi però non è esattamente noto quante e quali regole appartengano davvero a questo corredo. Personalmente io credo che questo corredo di regole comportamentali innate sia piuttosto ristretto e molto variegato. Sia formato, cioè, da relativamente poche regole, e che comprenda regole caratterizzate da livelli diversi di cogenza.
Ma, su questo punto, oggi abbiamo, credo, poche certezze. La ricognizione del nostro corredo di regole comportamentali innate rappresenta una delle linee di ricerca più interessanti del nostro futuro prossimo. Questo però è un compito che può essere condotto al meglio, io credo, solo mettendo assieme competenze di etologia e competenze di diritto. Non è qualcosa che possa essere studiato solo dalla prospettiva e con gli strumenti dello studioso di diritto.
Una cosa diversa è dire che (o provare a vedere se) il diritto di paesi diversi presenta regole comuni. Questa è una operazione che viene fatta correntemente dalla c.d. “comparazione” di sistemi diversi, ma a prescindere da una identificazione della “fonte” di queste regole nella “natura umana”, ed anzi tende a riconoscere espressamente che le regole giuridiche sono creazione dell’uomo. La comparazione è molto utile per varie ragioni. Essa evidenzia identità, analogie, livelli diversi di attenzione e risposte diverse, in paesi diversi, per gli stessi problemi. Costituisce uno strumento importante in quel grande percorso per tentativi ed errori (tentativi ed errori sono alla base della nostra evoluzione culturale) che è l’evoluzione di un sistema giuridico.

Come si formano le norme del diritto?
La risposta è relativamente semplice se ci riferiamo alle regole del diritto, e se ci riferiamo ai sistemi occidentali moderni. Prescindiamo quindi dal problema della identificazione della “fonte” delle regole non giuridiche: molto più difficile è dire quali siano le modalità di formazione delle regole diverse dal diritto, cioè delle regole comportamentali innate, delle regole religiose, delle regole sociali. Prescindiamo, inoltre, da ogni considerazione del modo di formazione delle regole giuridiche in epoche passate, nelle quali il panorama delle fonti del diritto è stato spesso più complesso e intricato; ad esempio, comprendeva la consuetudine, che è qualcosa di assai difficile da definire esattamente.
Oggi, nei sistemi occidentali moderni, la produzione di regole giuridiche è affidata essenzialmente a due soli fatti: la legge e la giurisprudenza. Nei paesi dell’Europa continentale è più centrale il ruolo della legge, nei paesi detti di common law (Gran Bretagna, U.S.A. e paesi anglosassoni) è più centrale il ruolo della giurisprudenza. Ma in entrambe queste grandi famiglie di sistemi la produzione di nuove regole è affidata ai due fatti che ho indicato. Essi sono i veri motori dell’evoluzione del diritto.
La legge è il risultato dell’attività del Parlamento. Questo, che è un organismo eletto dal popolo a suffragio universale (cioè, con il voto di tutti i cittadini maggiorenni), discute le proposte di legge presentate da ciascuno dei suoi componenti o dal Governo, e si esprime su ciascuna di esse a maggioranza, approvandoli o non approvandoli. Questo procedimento fa sì che l’esistenza (o la non esistenza) di una legge sia sempre sicura. Ma il contenuto della singola regola può essere non certo, perché il testo che è riferito dalla legge, e che racchiude la regola, può essere suscettibile di interpretazioni diverse.
La giurisprudenza è opera dei giudici. Il giudice, chiamato ad applicare la legge, deve anzitutto interpretare il testo della legge. Se (e questo è frequente) il testo di una legge si presta a interpretazioni diverse, il giudice è chiamato a sceglierne una, in base ad un complesso di tecniche interpretative elaborato dalla cultura giuridica nel corso di secoli. Quando lo stesso problema si presenta ad un altro giudice, questi non è vincolato dalla decisione del giudice precedente, non è obbligato a seguire l’interpretazione della legge proposta dal giudice precedente. Quando però più giudici diversi decidono nello stesso senso lo stesso problema, si viene a formare un orientamento giurisprudenziale. Questo (secondo l’opinione che ritengo oggi più accreditata) si impone ai giudici successivi, i quali, ove debbano decidere dello stesso problema, non potranno discostarsi dall’interpretazione che si è ormai affermata nelle decisioni precedenti di altri giudici, a meno che non dimostrino che quell’interpretazione è assurda o è diventata insostenibile. In questo senso la giurisprudenza crea norme giuridiche, perché, tra le diverse possibili interpretazioni di un testo di legge, ne sceglie una e scarta tutte le altre.

Sono davvero troppe le norme?
Questa è una domanda alla quale mi sembra molto difficile rispondere, perché non è facile contare le norme, e perché non è facile dire quale potrebbe o dovrebbe essere il numero adeguato di norme. Mi permetterei anche di dire che questa domanda, così posta, non è molto importante. Mi sembra importante, piuttosto, aver chiaro che in un sistema moderno è inevitabile che le norme siano molte, anzi siano moltissime.
Il numero delle norme di un sistema giuridico (ad esempio, di uno Stato) dipende direttamente, anche se sulla base di un rapporto non facilmente definibile, dal numero e dalle caratteristiche degli interessi che quel sistema ritiene importante perseguire a vantaggio degli uomini e delle donne che ne fanno parte, e dal numero di questi uomini e donne.
In altri termini, se uno Stato decide di occuparsi solo della difesa del territorio da nemici esterni, e non si interessa né della salute né dell’istruzione dei cittadini, né delle comunicazioni e dei trasporti da un posto all’altro del territorio, né dell’ordine pubblico interno, né di altro, basterà un numero di regole relativamente esiguo, che organizzi un esercito. Se invece lo Stato ritiene proprio compito occuparsi anche di tutte quelle altre cose, occorre un numero di norme molto più ampio, perché occorre strutturare e far funzionare scuole, ospedali, farmacie, tribunali, carceri, poste e telegrafi, ferrovie, e tante altre strutture organizzative. In altri termini, per coloro che stanno all’interno di un certo sistema giuridico è positivo che il sistema si proponga di soddisfare un’ampia serie di interessi. Ma questa dilatazione dei compiti che il sistema si propone di svolgere ha un costo, che è dato dalla complessificazione del sistema di regole necessario per gestire quegli interessi.
Ancora, se i cittadini dello Stato sono poche decine o qualche centinaio occorre un numero di norme molto più ridotto di quello che occorre per far convivere molti milioni di cittadini, perché con il crescere del numero dei cittadini cresce il numero dei contatti sociali ed il numero dei conflitti tra cittadini, che occorre regolare.
Gli Stati moderni ritengono importante coltivare direttamente un numero molto alto di interessi dei propri cittadini, ed hanno numeri molto alti di cittadini. Di conseguenza, è inevitabile che in un sistema moderno il numero delle norme sia molto alto.

Quali sono le ragioni della crisi della giustizia?
Le ragioni della crisi sono tante, alcune facili da individuare, e da tempo identificate, altre più nascoste. Alcune in qualche misura contingenti, altre più strutturali. Io credo che, al fondo, si debbano cogliere anzitutto due grandi cause di crisi, rispetto alle quali tutte le altre, pur meritando attenzione, restano in secondo piano.
La prima causa di crisi è nella grande complessità che il diritto ha acquistato nei sistemi moderni, per la continua espansione degli interessi che gli Stati moderni hanno deciso di coltivare. A fronte della crescente complessificazione del diritto occorrerebbe una corrispondente crescita della formazione giuridica di ogni cittadino, perché ogni cittadino è continuamente coinvolto nell’applicazione di norme giuridiche. Invece, in Italia, e in tutti i paesi occidentali (in altri paesi è anche peggio), il diritto è sostanzialmente estraneo alle conoscenze che fanno parte del patrimonio comune, e nessuna scuola, dalle elementari all’Università (con la sola ovvia eccezione dei corsi di laurea in Giurisprudenza), si preoccupa di spiegare ai suoi allievi cosa è il diritto, a cosa serve, perché è importante, come lo si applica, ecc. In questa prospettiva, mi sembra facile dire che se il nostro mondo non farà un investimento serio in cultura giuridica, a favore di tutta la collettività, la crisi della giustizia non potrà che aumentare.

Una seconda grande causa della crisi della giustizia, dipendente dalla prima, e cioè dipendente dall’ignoranza del diritto che pervade le nostre collettività, compresi molti operatori del diritto, è nel fatto che oggi si tende a credere che ogni conflitto che insorge all’interno di una struttura sociale tra due o più individui o gruppi di individui debba essere portato davanti al giudice. Si dovrebbe fare esattamente il contrario. In un sistema maturo, tra individui che abbiano un minimo di maturità, tanto più se assistiti da professionisti dotati di un minimo di maturità, la maggior parte dei conflitti dovrebbe trovare una sua soluzione concordata. La ragione fondamentale sta nel fatto che la decisione del giudice è molto spesso subottimale, quindi per le parti, di solito, trovare un accordo conviene più che lasciare al giudice la decisione della vertenza. L’accesso al giudice dovrebbe essere riservato ad un flusso molto più ridotto di vertenze, per le quali (in ragione di specifiche particolarità del singolo caso) sia veramente impossibile trovare un’intesa. Perché si raggiunga questo risultato, occorre che tutti (le parti e gli avvocati) sappiano che, appunto, quando si presenta un conflitto tra due o più parti, è di regola preferibile cercare un’intesa piuttosto che andare dal giudice.
Anche in questa prospettiva, occorre un serio investimento in cultura giuridica, ed un riorientamento dell’avvocatura e dei corsi di laurea in giurisprudenza, in modo che passino dall’idea che ogni lite debba finire davanti al giudice all’idea opposta, che è sempre meglio puntare alla composizione della lite tra le parti.

Come si può giungere a un diritto con meno giudizi?
Questo obiettivo può essere raggiunto solo se si realizza, come ho già detto, un serio investimento in cultura giuridica, e si riesce a creare, nella nostra collettività, un significativo incremento di consapevolezza dell’importanza del diritto. In questa consapevolezza deve trovare posto anche l’idea del diritto come meccanismo capace di una applicazione che sappia prescindere dall’intervento del giudice, valorizzando percorsi che valgano a comporre le liti, invece di farle decidere da un giudice. Tutti dovrebbero sapere che molto spesso chi è coinvolto in una qualunque vertenza potrebbe arrivare, attraverso la composizione della lite, ad un assetto più conveniente di quello che sarebbe realizzato da una sentenza del giudice.
Di questo devono rendersi conto anche i giuristi, e soprattutto gli avvocati. A tal fine, si dovrebbe, fin dai corsi universitari, comunicare questo messaggio agli studenti: per il tuo cliente, la composizione della lite consente un assetto migliore di quello che sarebbe creato da una sentenza. I tribunali devono essere riservati alle liti che per qualche ragione seria (ad esempio: per il fatto che le norme da applicare sono molto recenti, e quindi sulla loro interpretazione non si sono ancora formati orientamenti sufficientemente stabili) le parti ed i loro avvocati non riescono a comporre da soli.
Inoltre, l’Università deve mettersi in condizioni di offrire agli studenti le competenze e le abilità necessarie ad un fruttuoso espletamento di un percorso compositivo, che sono diverse da quelle necessarie per la gestione di un giudizio in tribunale. L’avvocatura deve comprendere che puntare a che ogni lite entri in un’aula di tribunale è una scelta perdente. I professionisti del diritto devono attrezzarsi acquisendo le competenze e le abilità necessarie ad un fruttuoso espletamento di un percorso compositivo.
Questa operazione, ovviamente, è molto complessa, e richiede tempi non brevi. Ma credo che solo questo consentirebbe di ridurre a numeri accettabili i flussi di affari che entrano nei tribunali, e quindi di dare ad ogni giudizio l’attenzione che merita in un tempo davvero breve.

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