
di Angela Nuovo
Franco Angeli
«Il commercio librario nei principali centri della penisola non ebbe certo bisogno dell’invenzione della stampa per conoscere il suo atto di nascita. Grandi università, comunità cittadine di diffusa alfabetizzazione, strati sociali in ascesa economica e capaci di grandi iniziative imprenditoriali, folta presenza di uomini di chiesa: ecco alcuni dei principali fattori atti a provocare quella diffusa circolazione libraria talmente tipica dell’Italia da aver indotto più volte sconcerto in quanti dovevano obbligatoriamente constatare come, nonostante l’elevata richiesta e consumo di un ampio catalogo di testi, la stampa abbia finito per essere inventata altrove.
La produzione del manoscritto era, nell’Italia del Quattrocento, al suo massimo splendore: non è qui solo questione dei manoscritti di lusso, superbamente miniati e riccamente legati, ma soprattutto della differenziata tipologia di libri (accoppiata volta a volta con generi differenti di testi), pervenuti sia nel formato che nella veste grafica a un risultato di tale funzionalità e bellezza da costituire un insuperato modello per parecchi decenni dall’introduzione della stampa. E benché il libro manoscritto fosse prodotto da diversi operatori (laici ed ecclesiastici, singoli e collettivi), tuttavia solide e ben strutturate si presentavano nel Quattrocento le botteghe dei cartolai che, città per città, provvedevano alla fabbricazione e vendita dei manoscritti, nonché alla fornitura di carta e di materiale scrittorio: si pensi a città come Bologna, Roma, o all’ancor più affollata Firenze. A Roma, come nelle altre grandi città italiane, la richiesta di libri si faceva più intensa durante il Quattrocento, stimolando nuova produzione e circolazione (ad esempio, del libro usato, lasciato in eredità o in donazione): tuttavia il commercio librario locale non può compararsi a quello della vicina Firenze, pur essendo a essa legatissimo; infatti, molti dei cartolai e librai attivi a Roma nel ’400 erano, in effetti, fiorentini. Non solo: il legame tra le due città è reso operante al punto che (ad esempio) i cartolai Francesco e Giovanni Fini, con bottega a Roma, gestivano in effetti una sorta di «filiale» della bottega di Vespasiano da Bisticci, il quale riforniva abitualmente anche altri cartolai romani, che poi rivendevano i codici con una maggiorazione di prezzo. Ma a Roma (come del resto a Ferrara, o a Milano), le maggiori notizie riguardano le ordinazioni e relativi pagamenti della Corte, mentre poche e disorganiche restano le testimonianze relative all’uso del libro negli ambienti universitari (si tratta del resto di città i cui Studi o non esistono, o hanno limitato rilievo), o nelle case private, di cui ci parlano i testamenti.
La situazione fiorentina è invece talmente nota da non necessitare qui dettagli: contributi particolarmente interessanti si sono avuti riguardo al possesso, davvero capillare, del libro, alla sua presenza «nelle pareti domestiche». Ma quel che più importa, sono rimasti diversi inventari di bottega di cartolai cittadini (e, ciò che li rende più interessanti, visto che non manca la documentazione riguardo a botteghe eccezionali come quella di Vespasiano, questi cartolai sono di livello medio) ove sono elencati i manoscritti già pronti per l’acquirente, parte dei quali di seconda mano.
In queste città si è già passati, infatti, dal modello di una produzione artigianale di pezzi unici, commissionati dal cliente o dal signore, al modello dell’operatore indipendente che dispone di un capitale sufficiente per riuscire a immagazzinare quantità superiori di merce, o a commerciare in prodotti finiti (oppure semi-lavorati), approntati in previsione dei bisogni della clientela. Se prendiamo in considerazione la situazione ferrarese, ove diverse botteghe di cartolai lavoravano su commissione della Corte e delle istituzioni ecclesiastiche (nonché dei ceti colti e agiati), possiamo osservare nella sua interezza il fenomeno delle botteghe dei grandi artigiani del libro che hanno sviluppato i loro affari al punto da essersi trasformati in esponenti di una piccola imprenditoria indipendente. I cartolai di Ferrara sono infatti capaci di organizzare un processo produttivo assai complesso (a prescindere da ogni considerazione, naturalmente obbligata, sulla qualità dei prodotti allestiti). Il giornale di bottega di Taddeo Crivelli (1452-1456) dimostra che egli, miniatore, ha però un intreccio di rapporti con molti altri operatori. Taddeo ha dipendenti salariati e collaboratori occasionali, da lui ricercati in caso di produzioni particolarmente impegnative, come la Bibbia di Borso; ha un garzone; fa eseguire lavori fuori bottega, appaltando ciò che non riesce a completare da solo; annovera diversi soci nella sua impresa, è in grado dunque di attirare piccoli investimenti; ha clienti abituali e occasionali, per ognuno dei quali mantiene naturalmente conto dei lavori fatti, degli acconti ricevuti e dei saldi, spesso in natura; è inoltre prestatore d’opera abituale per diversi cartolai, per i quali minia degli interi manoscritti o anche solo alcune lettere, essendo a sua volta loro cliente per la fornitura di carte e pergamene.
Del resto, una fase importante si era già aperta precedentemente, allorché il commercio del libro manoscritto aveva iniziato a coinvolgere i libri di seconda mano: anche Vespasiano da Bisticci, per esempio, vendeva manoscritti di seconda mano insieme ai nuovi. Questo incoraggiò i cartolai a organizzare l’immagazzinamento di una certa quantità di libri, che comportavano un investimento non indifferente: si trattava in fondo di un’evoluzione naturale per operatori comunque abituati a stoccare rilevanti quantità di carta. Ma, a un altro livello, si finì in tal modo per coinvolgere nello smercio anche personaggi che non erano in grado di allestire il manoscritto, ma che lo vendevano come prodotto confezionato, probabilmente affiancato ad altre merci: spia del fenomeno è l’affiorare di termini quali ‘venditores librorum’, designanti questi nuovi operatori, non più veri artigiani, ma persone dedite al commercio dei prodotti artigianali (non pochi tra di loro sono maestri di scuola e insegnanti). Alcuni di questi ‘venditores’, come è noto, iniziano a diventare veri e propri imprenditori, e accettano ordinazioni da facoltosi clienti cui si impegnano a consegnare libri finiti in tutti i loro aspetti, curando e organizzando i diversi stadi di produzione e allestimento. È nel commercio del libro manoscritto già confezionato che va ricercato l’antecedente della vendita del libro a stampa, come vendita attuata da puri rivenditori al dettaglio di prodotti (se non in tutto, in gran parte e poi sempre maggiormente) finiti. Si è da più parti sottolineato come l’evoluzione da artigiano che lavora su commissione ad artigiano indipendente che dispone di un capitale sufficiente per trafficare in beni confezionati accomuni il commercio dei manoscritti a quello delle stoffe, e come il fenomeno dati almeno dal XIII secolo: soprattutto rilevante è la somiglianza dell’organizzazione della produzione, di tipo verticale, con il controllo da parte dell’imprenditore delle più importanti fasi di produzione e distribuzione del bene prodotto. È tuttavia da obiettare che la rodata organizzazione relativa alla produzione dei tessuti poté essere messa a punto con maggiori difficoltà per il libro, la cui vendita subisce la variabilità di una domanda assai più imprevedibile od occasionale.
Mentre, dunque, la rottura con la tradizione è, nelle officine tipografiche, un fatto vistoso e immediato, nella distribuzione e vendita del libro tale rottura fu invece mediata; e nella mediazione giocarono un ruolo fondamentale i cartolai, garanti di un’armonica continuità tra libro manoscritto e stampato, da loro contemporaneamente proposti ai clienti con la stessa gamma di opzioni decorative atte a fare di ogni libro un oggetto molto personale. Vi è dunque una sfasatura cronologica nella ben nota rivoluzione causata dalla stampa, se la si considera dal punto di vista delle procedure tecniche (la tipografia), ovvero dal punto di vista delle procedure operative (il commercio).
I cartolai costituirono l’ossatura commerciale permanente realmente disponibile per i primi stampatori, e vennero coinvolti subito, senza difficoltà, nel nuovo mondo della stampa: innanzi tutto iniziando a vendere insieme manoscritti e stampati, mentre continuavano a occuparsi della finitura e abbellimento delle stampe (nonché, come poi molto a lungo, della legatura); e poi anche diventando tipografi a loro volta, ma soprattutto editori. Con la loro conoscenza dei gusti del pubblico, e la loro capacità di far riferimento a una clientela ben consolidata, il loro apporto alla stampa fu prezioso anche se, di regola, non supportato da grandi investimenti. Ma se i cartolai si resero protagonisti di imprese tipografiche per lo più a breve respiro, talvolta incentrate su una sola o pochissime edizioni, essi seppero pure, in altre occasioni, diventare intermediari tra il tipografo e un investitore con un maggiore raggio di azione, al fine di realizzare imprese più vaste.»