
Di quali diritti dotò le donne la Rivoluzione francese?
Nella lunga scansione della storia, la Rivoluzione francese segna tradizionalmente un punto di svolta nella trasformazione politica del suddito in cittadino, ma ebbe lo stesso valore per le donne? La solenne proclamazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 riconobbe alle Francesi gli stessi diritti dei padri, mariti, fratelli? Nel 1791 Olympe de Gouges con la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina denunciò la mancata universalizzazione dei diritti. In effetti, le donne furono del tutto escluse dal godimento dei diritti politici che trasformarono i sudditi di Luigi XVI nei cittadini della repubblica francese. Alle cittadine francesi furono però riconosciuti i diritti politici di presentare una petizione, riunirsi in società e manifestare. Certamente, il diritto di presentare una petizione, evoluzione del tradizionale appello al re, divenne lo strumento di importanti rivendicazioni politiche: nell’aprile 1792 Etta Palm d’Aelders presentò una petizione all’Assemblea legislativa per sollecitare i deputati a introdurre il divorzio e a riconoscere che «la libertà politica e l’uguaglianza dei diritti siano comuni ai due sessi». Analogamente, ebbero una forte valenza politica il diritto di riunirsi in club e manifestare. Si deve, tuttavia, ricordare che il diritto di riunirsi in società fu fortemente limitato nell’ottobre 1793 quando il decreto Amar, all’indomani dello scontro fra le esponenti del Club della Cittadine Repubblicane Rivoluzionarie e le donne del mercato de Les Halles, sanzionò la chiusura di ogni club ad esclusiva partecipazione femminile, mentre il diritto di manifestare fu per le donne di fatto annullato nel maggio 1795, quando a seguito delle insurrezioni della primavera dello stesso anno venne vietato alle Francesi di raggrupparsi, in numero maggiore di tre, per le vie di Parigi.
Per quali ragioni possiamo considerare Pareri legislativi per le donne il primo trattato femminista?
Considerare i Pareri legislativi per le donne il primo trattato femminista è una questione oltremodo problematica che merita di essere approfondita. Certamente il trattato di Marie-Madeleine Jodin non può essere considerato femminista nel senso moderno del termine; sarebbe un imperdonabile anacronismo cercare nella proposta di Jodin i temi o le questioni che hanno animato le lotte per i diritti delle donne del ventesimo secolo. Eppure, la proposta di Jodin merita un posto di rilievo nella genealogia del pensiero femminista occidentale: un anno prima che Olympe de Gouges pubblicasse la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, Marie-Madeleine Jodin si rivolse ai deputati dell’Assemblea nazionale costituente chiedendo provocatoriamente se in un’epoca di rigenerazione e di lotta contro i pregiudizi le donne avrebbero preteso invano i «loro diritti imprescrittibili» e se avrebbero continuato a essere l’unica parte della società esclusa dall’elaborazione del Codice legislativo promulgato in nome della Società intera. Non a caso l’opera di Jodin che delineava i caratteri di un nuovo piano di legislazione che restituisse alle donne «questi diritti che ci assicurano la natura e il patto sociale» si apriva con una dedica «al mio sesso», seguita dall’eloquente dichiarazione «anche noi siamo cittadine».
Come si articola la proposta di riforma della società della Jodin?
Uno degli obiettivi principali che Jodin si pose nell’elaborazione dei suoi Pareri legislativi per le donne fu quello di condividere con le sue concittadine un piano per riformare la società francese. Attribuendo alle donne un ruolo fondamentale nella moralizzazione dello spazio pubblico, Jodin chiedeva ai legislatori di lasciare alle Francesi l’onere di elaborare un nuovo codice legislativo ad esse riservato, dal momento che la condizione di donne le rivestiva di doveri specifici che andavano ben oltre quelli legati al titolo di cittadine. A questo nuovo codice legislativo spettava il compito, secondo Jodin, di riformare quegli abusi secolari che avevano finito per macchiare la gloria e la virtù delle donne. La pensatrice rimarcava come lo stato di avvilimento in cui si trovava il suo sesso non derivasse da un’imperfezione della natura femminile, bensì dalla negligenza delle leggi che avevano lasciato che si introducesse una scandalosa licenza nei costumi. Il primo punto della riforma di Jodin consisteva nell’abolizione della prostituzione. Oltre la corrente dei riformisti e dei punitivi, la pensatrice, che aveva conosciuto molto da vicino la realtà delle femmes publiques rinchiuse alla Salpêtrière, osservava che «l’obbrobrio al quale la vostra polizia sembra consacrare una parte del nostro sesso all’incontinenza del vostro oltraggia le Leggi e distrugge il rispetto legato ai titoli sacri di cittadine, di spose e madri». Pur rivendicando la parità fra uomini e donne sottolineando, come aveva già fatto François Poulain de la Barre un secolo prima, che «lo spirito non ha sesso, non più delle virtù», Jodin sosteneva nell’ottica della complementarità fra i sessi la necessità di «una giurisdizione di donne» che contribuisse alla restaurazione del bene pubblico a partire da una riforma dei costumi. Per questa ragione il piano prevedeva, oltre all’abolizione della prostituzione, la chiusura delle case da gioco e la censura delle stampe oscene. Per la realizzazione della sua proposta, Jodin prevedeva quindi la creazione di un tribunale «per sole donne e presieduto da donne», composto di una camera di conciliazione e una camera civile. Alla camera di conciliazione sarebbero state esaminate le cause di separazione, le contese familiari in materia di eredità e ogni altra discussione che avrebbe riguardato entrambi i sessi; la camera civile avrebbe invece dovuto occuparsi solo delle questioni di pubblico scandalo.
In che modo il pamphlet della Jodin consente di indagare l’elaborazione e la circolazione del linguaggio dei diritti nel XVIII secolo?
È stato ormai ampiamente accertato dalla storiografia come, a partire a notizia della convocazione dell’Assemblea degli Stati Generali, si sia verificata in Francia un’autentica appropriazione dello spazio pubblico da parte di coloro che prima ne erano esclusi attraverso l’uso della parola scritta e stampata. Jodin fu una tra le tante Francesi a prendere parte a questo movimento fatto di pamphlets e brochures per denunciare la vergognosa e miope esclusione delle donne dalla possibilità di offrire il proprio contributo per la rigenerazione dello Stato. Ma la proposta di Jodin si distingue dal novero dei testi indirizzati all’Assemblea francese per il nuovo linguaggio dei diritti che adotta nell’esposizione della sua tesi. Da attenta lettrice dell’Encyclopédie e discepola di Diderot, Jodin dimostrò la necessità che le Francesi fossero chiamate, a fianco dei padri, mariti e fratelli, a votare i propri rappresentanti e a svolgere un ruolo pubblico in quanto titolari del diritto di essere cittadine al pari dei compagni. Il pamphlet di Jodin, per quanto trascurato dagli studi sul diciottesimo secolo, permette quindi di indagare come il linguaggio dei diritti elaborato dall’Illuminismo abbia iniziato a diffondersi e a circolare alla fine del secolo al di là dei testi e degli autori canonici dei Lumi.
Valentina Altopiedi ha conseguito il dottorato di ricerca in storia moderna presso l’Università di Torino in cotutela con l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. I suoi interessi di ricerca vertono sulla storiografia dell’Illuminismo e la storia della Rivoluzione francese con particolare attenzione alla partecipazione femminile, su cui ha pubblicato diversi saggi. Collaboratrice del corso di storia moderna (Dipartimento di Studi Storici) dell’Università di Torino, attualmente sta lavorando a una monografia su Olympe de Gouges.