
Quali correnti si confrontavano nel movimento nazionalista polacco e quali posizioni ideologiche esprimevano?
Essenzialmente due, una che possiamo definire “nazionalismo etnico” e un’altra “nazionalismo civico” o “patriottismo” rappresentate rispettivamente da Józef Piłsudski e Roman Dmowski. Piłsudski era a favore di uno Stato polacco multietnico e in grado di divenire in breve tempo una potenza regionale nell’Europa centro-orientale. Dmowski, al contrario, pensava a uno Stato-nazione etnicamente coeso e in cui le minoranze, soprattutto quella ebraica, fossero sul piano politico in una posizione subordinata rispetto “ai veri polacchi”. I due nazionalismi, nonostante le vistose differenze, si ponevano tuttavia gli stessi obiettivi: rafforzare la repubblica, modernizzare la nazione attraverso programmi e prese di posizione che risultano nondimeno incompatibili con lo Stato liberale e le forme democratiche di esercizio del potere.
Che ruolo svolse, durante la Seconda Repubblica, Józef Piłsudski?
L’icona della Seconda Repubblica è certamente il polacco-lituano, Maresciallo di Polonia, Józef Piłsudski. Quando, il 10 novembre del 1918, giunge a Varsavia dopo la lunga detenzione a Magdeburgo, all’interno e all’esterno del nascente Stato polacco sono pochi a nutrire dubbi circa il fatto che l’unica figura in grado di rendere stabile il quadro politico, attraversato da tensioni derivanti dalla tentazione di “fare come in Russia”, da una parte, e dall’etnonazionalismo, dall’altra, sia proprio il “compagno Viktor” -come era chiamato ai tempi della sua militanza socialista. Piłsudski non fu mai marxista e la sua adesione al socialismo era dettata unicamente dalla volontà di conquistare le masse lavoratrici alla causa dell’indipendenza nazionale e contro la Russia, la cui mentalità per molti versi detestava. Prima di assumere l’incarico di organizzare la vita politica della nazione dopo la Grande Guerra, disse ai suoi compagni del Partito Socialista Polacco: “Ho preso il tram socialismo fino alla fermata “indipendenza” e lì sono sceso. Tocca a voi continuare, se ci riuscite”. Al contrario del suo rivale -non solo in politica, ma anche in questioni di cuore- Roman Dmowski, il modello a cui guardava l’ex compagno Viktor era la Rzeczpospolita obojga narodów, la Repubblica delle due nazioni tramontata circa un secolo prima, multietnica e in grado di esercitare su un vasto territorio una consolidata egemonia. Tale modello si traduce, agli inizi degli anni Venti, nel tentativo da parte di Piłsudski di allargare i confini dello Stato polacco verso Est e di ricercare alleati, ad esempio nell’Ucraina di Symon Petljura, con cui stabilire rapporti di reciproca collaborazione e alleanza politica. L’obiettivo di Piłsudski era arginare le mire della Russia che, a suo parere, “bianca oppure rossa” non poteva cambiare la sua politica di potenza nei confronti degli Stati vicini. Solo dunque un’alleanza stabile con alcune realtà limitrofe -che nel frattempo stavano combattendo una battaglia simile a quella polacca, ma con esiti diversi, come nel caso dell’Ucraina- avrebbe favorito il realizzarsi di una stabilità regionale in cui la Polonia avrebbe svolto il ruolo principale, per le sue dimensioni e il suo peso politico. La pace di Riga dopo la guerra con la Russia del 1920 segna la sconfitta della strategia di Piłsudski. Tale sconfitta condizionò la sua politica negli anni successivi, approfondendo il suo scetticismo nei confronti del governo e del parlamentarismo in generale.
Come si giunse allo sbocco sciovinista della seconda metà degli anni 20?
Il 21 marzo del 1921 viene approvata la Costituzione che rappresenta un compromesso sia sul piano della politica interna sia sul piano della politica estera. Sul piano della politica interna giacché costituisce il punto di equilibrio tra forze politiche diametralmente contrapposte dal punto di vista dei principi ideologici, come i nazionaldemocratici e i socialisti, sul piano internazionale in quanto lega l’assetto costituzionale del nuovo Stato polacco alle linee programmatiche caldeggiate dai Paesi vincitori, in particolare da Wilson, corrispondenti alla liberaldemocrazia e alla tutela delle minoranze nazionali. Su quest’ultima questione si consuma il fatto più drammatico ed eclatante nei primi anni del rinato Stato polacco: l’assassinio del neoeletto Presidente della Repubblica, Gabriel Narutowicz, nel 1922, per mano di un fanatico nazionalista. L’unica colpa di Narutowicz era di essere stato eletto a Capo dello Stato in base ai voti decisivi delle minoranze nazionali.
Dopo l’approvazione della Costituzione nel 1921 e lo svolgimento delle libere elezioni nel 1922, con un risultato sfavorevole alle posizioni e ai raggruppamenti che facevano riferimento a Piłsudski, il Maresciallo di Polonia si era quasi defilato dalla scena politica. Dopo aver giurato lealtà al Presidente della Repubblica, che era suo amico, egli si era trasferito a Sulejówek, a pochi km da Varsavia: un buen retiro da cui seguiva le vicende politiche nazionali, contornato dall’affetto della sua famiglia e dalle continue visite di uomini politici a lui fedeli. Dopo l’assassinio del Presidente della Repubblica, la situazione andò tuttavia degenerando, provocando in Piłsudski uno stato di profonda inquietudine. Intorno alla questione se l’autoemarginazione di Piłsudski costituisse nient’altro che una ritirata strategica in attesa di tempi più propizi oppure fosse stata una scelta dettata dalla volontà di agevolare il libero dibattito tra le forze politiche senza il peso ingrommante della sua presenza carismatica, si sono confrontate diverse posizioni storiografiche che attengono altresì a un altro aspetto fondamentale di questa vicenda, ossia se il progetto di colpo di Stato di Piłsudski fosse maturato concretamente prima dell’avvitarsi della vita parlamentare e politica in Polonia nel ‘26 oppure rappresentasse l’inevitabile conseguenza di un quadro politico sfrangiato che metteva in pericolo non solo le istituzioni, ma anche la sovranità polacca nei confronti degli Stati vicini. Uno stato di cose che avrebbe convinto Piłsudski a sciogliere gli indugi e appellarsi agli uomini politici e ai reparti dell’esercito rimasti a lui fedeli per risanare, come si disse da lì a poco, la situazione politica nazionale.
La scena politica internazionale, in cui ben presto si sarebbe assistito alla trasformazione di molti regimi democratici dell’Europa centro-orientale in sistemi apertamente autoritari, la debolezza intrinseca dello Stato polacco, il caos in molti ranghi dell’esercito e dell’amministrazione statale esercitarono una pressione insostenibile sulla compattezza politica della giovane democrazia polacca. Tale circostanza era tutto sommata prevedibile, visti i trascorsi degli esponenti politici maggiormente rilevanti poco adusi alla vita parlamentare. Piłsudski, allo stesso modo di altri autorevoli leaders politici della Seconda Repubblica, aveva compiuto prevalentemente il suo apprendistato politico in azioni terroristiche e banditesche finalizzate a finanziare l’insurrezione e la lotta per la riconquista dell’indipendenza statale. Dall’altra parte, i nazionalisti democratici non facevano mistero del loro antisemitismo e della loro scarsa considerazione nei confronti della democrazia parlamentare. A parte gli uomini politici che avevano fatto parte del parlamento austriaco, pochi altri avevano alle spalle esperienze di tipo parlamentare e rappresentativo. Il destino della Seconda Repubblica era in gran parte segnato fin dai suoi esordi. I drammatici fatti di maggio del 1926 costituiscono il canto del cigno del regime parlamentare in Polonia, di una Costituzione che sarà presto emendata e poi cassata nel giro di pochi anni e che rappresentava un avanzamento sul piano di diritti -tra cui il diritto di voto alle donne, le norme che riguardavano le condizioni di lavoro e il lavoro minorile, l’eguaglianza tra persone di diversa provenienza religiosa oppure etnico-culturale. Nel maggio del 1926 la storia della Polonia prende un’altra piega, probabilmente più aderente alla sua identità politica. Lo Stato, che non aveva mai conosciuto una democrazia di tipo moderno e che si trovava tra potenze minacciose ai suoi confini, contrassegnato da tensioni inconciliabili fra le forze politiche, per molti versi non poteva che sfociare in un modello di tipo autoritario, così come in altre realtà dell’Europa centro-orientale. Dopo il 1926, il quadro ideologico complessivo della Polonia andrà trasformandosi in un senso palesemente sciovinista e sostenuto delle forze più reazionarie della nazione: la grande proprietà terriera, alcuni segmenti della gerarchia ecclesiastica, la destra filofascista. Il fuoco nazionalista in Polonia non si era mai spento e riprese un robusto vigore con il vento bellicista che da lì a poco prese a soffiare in molte parti d’Europa.
Daniele Stasi è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Foggia. Ha svolto attività di ricerca e di docenza in alcune università e istituti di ricerca europei (Istituto Max Planck di Francoforte sul Meno, Dublino, Aberdeen, Paisley-Glasgow, Presov, Lublino, Rzeszów). Tra le sue pubblicazioni: Thomas Hobbes. Teoria politica e modernità (2007), Le origini del nazionalismo in Polonia (2018), Liberalismo e idea di nazione in Pasquale Stanislao Mancini (2019).