
Nella sua riflessione, di straordinaria profondità filosofica e scientifica prima che strettamente letteraria, Zanzotto è stato – fra i grandi poeti del nostro Novecento – quello che più è stato consapevole del paradosso di un’arte che, avendo già sfidato tutti i limiti immaginabili («oltranza oltraggio», dice col Dante del Paradiso nella sua poesia più “oltranzistica”, La Beltà del 1968), pretenda di andare comunque “avanti”. E difendeva, di contro, quella che chiamava una necessaria «convenzionalità» dell’arte, che recuperasse temi e modi della tradizione, delle tradizioni del passato, in quella che definiva una «stravolta “ipernovità”»: un andare «avanti, ma dentro uno specchio» (lo scrive a un altro grande poeta, Elio Pagliarani, in una lettera che abbiamo pubblicato nel numero monografico dedicato a Zanzotto dalla storica rivista «il verri»). Lasciando intendere come la questione non fosse meramente estetica, quando aggiungeva un riferimento alle armi «convenzionali» che dopo Hiroshima si sono dovute usare in luogo delle “reali”, quelle nucleari, che non era possibile impiegare pena l’autodistruzione dell’umanità.
Per questa strada Zanzotto ha potuto recuperare la bucolica virgiliana (in IX Ecloghe, 1962), il sonetto petrarchista (nell’Ipersonetto del Galateo in Bosco, 1978) o il dialetto della sua arcaica Heimat veneta (a partire da Filò, 1976): ma non in un’ottica conservatrice, irenicamente arcadica, classicisticamente continuistica (quelle che bollava come «riesumazioni o imbalsamazioni “da riserva”»), bensì con un estro d’impareggiabile creatività che per esempio, vertiginosamente, moltiplica il «fantasma» del sonetto per sé stesso (è Iper-sonetto, infatti: come la «novità», che malgrado tutto Zanzotto persegue, è un’«ipernovità»). È la condizione scissa che gli storici dell’arte definiscono «manierismo», e che rivela una fondamentale ambivalenza psicologica, prima che ideologica: fra l’omaggio quasi sacrale alla «madre norma» (com’è chiamata nella Beltà) e la sua più violenta dissacrazione (l’«oltraggio», appunto). Si può accostare questo atteggiamento a quello che, dopo di lui, è stato definito «postmodernismo»; ma in Zanzotto, che pure da leggere è sempre “divertente” ed eccitante – «come una droga», disse Montale: beninteso, se si è in possesso dei suoi codici –, non c’è mai il divertimento ludico, irresponsabile e fine a sé stesso, che almeno da noi il più delle volte ha connotato gli artisti postmoderni.
Zanzotto è stato definito «il Signore dei Significanti»: di quanti e quali significati si ammanta il tessuto linguistico e stilistico della poesia zanzottiana? Quali vicende hanno segnato la vita del poeta veneto?
Come altri grandi scrittori della sua generazione, l’esistenza di Zanzotto è stata attraversata dal trauma storico che un suo grande lettore, Giovanni Raboni, ha paragonato – ancora una volta con Dante – al «foco che affina». Un trauma che segna in profondità la psiche, che rischia di annichilire chi lo incontri e sia costretto ad attraversarlo, ma che fa anche maturare con perturbante rapidità un’elaborazione, una “risposta” psichica che, nel caso di Zanzotto, s’è espressa in versi e in prosa. Questo trauma è ovviamente la Seconda guerra mondiale. Raboni si riferiva per la verità a poeti di una decina d’anni più anziani di lui, come Sereni e Caproni, ma Zanzotto era un giovane di straordinaria precocità quando pubblicò nel 1938, a diciassette anni dunque, le sue prime poesie (quelle che si leggono ora nel prezioso volume dei suoi componimenti dispersi, Erratici, curato da Francesco Carbognin per «Lo Specchio» Mondadori, editore storico di Zanzotto). Eppure se si confrontano quei versi con quelli della prima raccolta edita appunto da Mondadori nel ’51, Dietro il paesaggio, si vede subito quanto il «foco» della guerra (i «roghi» – rievocati nell’ultima raccolta, Conglomerati del 2009 – delle SS e delle Brigate Nere che nell’agosto del ’44 incendiano il suo paese, Pieve di Soligo, uccidendo il suo miglior amico e prendendo in ostaggio il fratello minore) abbia «affinato» il suo linguaggio. Di lì in avanti la Storia con la «s» maiuscola, sempre brulicante delle mille «microstorie» dei singoli (è Zanzotto a coniare questo termine, prima che Carlo Ginzburg lo imponga, negli anni Settanta, al dibattito internazionale), diventa uno dei due grandi assi ordinatori della sua poesia: «la poesia», ha detto una volta, «sembra divagare e intorbidare, ma infine dilucida quanto v’è di più aggrumato nella storia».
L’altro grande asse è quello della geografia. E questa è forse la più grande originalità di un poeta sempre originalissimo: che sin dal primo libro – come dice il suo titolo emblematico – pensa in termini spaziali e “geografici”: spingendosi sino a includere nel testo del Galateo in Bosco – unica raccolta poetica, mi pare, ad averlo mai fatto – la cartina geografica del Montello, e dell’Isola dei Morti col suo carico spaventoso di memorie della Grande Guerra del 1915-18. Dove si vede pure come lo spatial turn, di cui Zanzotto è stato il primo interprete europeo ben prima che divenisse una moda culturale e accademica, non sia mai da lui inteso come alibi, etimologicamente parlando, per evadere dalle ferite della storia. Tutt’al contrario, come diceva già Kant (al quale in fondo si deve il principio generale per cui ogni evento va letto, anzitutto, nelle sue coordinate spaziali e temporali), la Storia «non è altro che una ininterrotta geografia». È infatti proprio la geografia, cioè lo spazio concreto del territorio e del paesaggio, a serbare materialmente incise le ferite inflitte e subite dalla storia degli umani. Nessun altro libro, a mia conoscenza, mostra con l’evidenza del Galateo in Bosco questo principio di valore universale.
Nel prosieguo del suo percorso, questo nesso profondissimo resta la bussola di Zanzotto: che sempre osservando la sua terra, al microscopio e insieme al telescopio per così dire, si accorge ben prima di altri di una nuova tragedia, assai meno avvertita delle guerre della prima metà del secolo perché in corso su un piano temporale meno inclinato: la devastazione dell’ambiente e quello che Pasolini, dopo di lui, chiamerà «genocidio culturale». Già nel 1970 (in uno degli articoli compresi da Matteo Giancotti nella bella silloge Luoghi e paesaggi, edita da Bompiani nel 2013) parla Zanzotto del «Veneto che se ne va», sfigurato da quella che chiama la «lebbra» del boom economico: nel ’76 e nell’86 le catastrofi ambientali di Seveso e Chernobyl suoneranno come tragiche conferme di questa sua fosca profezia. Nel nuovo secolo non solo il poeta di Sovrimpressioni e Conglomerati ritrarrà quella una volta chiamata «Marca gioiosa» come un «paesaggio» (scritto con barra di brutale cancellazione) divenuto «cancerese» e «cannibalese», ma l’intellettuale Zanzotto non lesinerà mai le sue energie per denunciare l’inquinamento non solo materiale, ma anche culturale e politico, abbattutosi sulla sua terra: quello che chiama «progresso scorsoio» e dà il titolo a un libro intervista, realizzato da Marzio Breda, che è un’esemplare testimonianza del suo impegno civile.
Quale percorso ha caratterizzato la sua creazione poetica? Quale stile caratterizza la poesia zanzottiana?
Il mio libro insiste soprattutto sui «significati» di questa poesia, perché a lungo trascurati dalla critica. Ma non si può non ricordare come Zanzotto, in prosa oltre che in versi, sia stato il più spericolato sperimentatore linguistico e stilistico del secondo Novecento italiano: il solo Gadda, in questo senso, gli può essere accostato nella prima metà del secolo. Non c’è sfida retorica e formale, non c’è oltranza che spaventi Zanzotto, virtuoso acrobata della parola (“sfida” anche in senso letterale: agli sperimentatori a lui invisi della Neoavanguardia, i Novissimi del Gruppo 63, che La Beltà sconfigge sul loro stesso terreno; il che, peraltro, non è detto sia un bene). Quando uscì la sua prova più spettacolare in assoluto, l’Ipersonetto, un appunto trovato fra le sue carte testimonia come gli fosse stato riferito che il suo maestro più importante, Montale, sempre malevolo e in particolare nei suoi ultimi anni, aveva detto che quei sonetti «lasciano il tempo che trovano», e Zanzotto commenta «forse è vero», e contengono «errori nelle rime o nelle sillabe»: e, annota stavolta orgoglioso, «non è vero». Franco Fortini, che fu sempre per lui una spina nel fianco – come di Pasolini il lettore più penetrante di Zanzotto, ma anche il suo critico più cattivo – finì coll’ammettere, a denti stretti, che l’autore della Beltà andava considerato (sempre usando le parole di Dante) «suo maggiore nella “gloria della lingua” e suo eguale fraterno e concittadino per tutto l’altro».
Una difficoltà per chi voglia spiegare la gloria smisurata di questa lingua consiste in quella che è, in effetti, la sua vera e maggiore gloria: il fatto che, come i più grandi artisti della parola, Zanzotto non si sia mai voluto adagiare nei propri stessi raggiungimenti. Un poeta che a poco più di trent’anni raggiunga il livello di allucinato e allucinante nitore di una raccolta come Vocativo (1957) poteva accomodarsi su quelle posizioni tutta la vita (e infatti, senza avvicinare quei livelli, tanti coetanei questo hanno fatto); Zanzotto invece già nel libro successivo, IX Ecloghe, è da tutt’altra parte. E così sarà sempre, sino alle prove incredibili degli ultimi anni. Per dirla una volta di più dantescamente (cito in questo caso una definizione che di Dante aveva dato Dino Campana), quella di questo stanziale per antonomasia non ha mai smesso di essere una «poesia di movimento». A ottant’anni suonati, e sino alla soglia dei novanta con Conglomerati e le ultimissime poesie del Vero tema (a loro volta raccolte ora nel volume Erratici), Zanzotto ha incredibilmente la forza per rovesciare per l’ennesima volta sé stesso. Il suo «stile tardo», per dirla con Hermann Broch, «si trova ormai al di là dell’arte» e «non s’interessa più né alla “bellezza” dell’opera, né all’effetto che essa produce sul pubblico». È una poesia a sua volta devastata, insomma, come il paesaggio cui per l’ultima volta si rivolge; ma che – su un piano ulteriore – compie l’autentico miracolo di rileggere à rebours il proprio stesso percorso precedente, a ogni domanda rimasta aperta dando una risposta sorprendente (che magari consiste in una nuova domanda).
Quale ricezione ha avuto l’opera di Zanzotto?
Un altro collega piuttosto malevolo, Giovanni Giudici, sgomento dello strapotere formale del Galateo in Bosco, allineò una serie di intelligenti malignità definendolo «un poeta difficile sul quale si può scrivere facilmente e anche troppo talvolta […]. C’è persino il rischio, paradossale per uno scrittore di tanta passione e purezza, che possa diventare un poeta à la mode». E lo metteva in guardia, o piuttosto lo minacciava, di un «rischio antitetico». Se in quegli anni Settanta il suo «nome» (aggiungendo malizioso «se non, altrettanto, la sua opera») «si diffonde con insistenza oltre la cerchia degli iniziati», era per la consonanza delle sue scelte espressive con un clima culturale segnato da «correnti critiche particolarmente sensibili ai fenomeni del cosiddetto “significante”». Passato quel clima culturale (come, di lì a poco, sarebbe cominciato a passare) il rischio era che a farne le spese fosse un’opera – quella di Zanzotto, appunto – che a quel clima preesisteva e che da esso prescindeva.
Il che si è puntualmente verificato. Come dicevo all’inizio tanti giovanotti che poco hanno letto, ma già troppo hanno scritto, hanno fatto a gara a “ridimensionarlo”, Zanzotto (come Tintoretto in una celebre gag di Woody Allen), liquidandolo come “tipico” poeta del Novecento e ostentando sufficienza per «oltranze» che non sono mai stati capaci neppure di tentare, e «oltraggi» che si sono ben guardati dall’arrischiare. Senz’altro è passata la mode di Zanzotto, di uno “zanzottese” che in diversi hanno provato a emulare con grande ingenuità, e scarsi mezzi, negli anni Settanta e Ottanta; ma questo non è certo un male. Ora, che cominciamo a misurare nelle giuste proporzioni gli ormai due decenni che ci dividono dalla fine del Novecento, sta passando pure la mode dell’Antinovecento: e magari saremo finalmente pronti a riconoscere che è stato proprio Zanzotto il maggior poeta non solo della seconda metà del secolo Ventesimo, come a me pare abbastanza evidente, ma anche di quello spicchio di Ventunesimo che finora abbiamo fatto in tempo a vedere. Un suo maestro, Leopardi, aveva ironizzato sul suo «secolo superbo e sciocco», preferendo rivolgersi a «un giovane del ventesimo secolo». Zanzotto, colla sua impareggiabile poesia tanto futuribile che archeologica, ha fatto precisamente questo col “suo” Novecento. Sicché tocca a noi leggerlo, ora, finalmente.
Per farlo ci vogliono doti forse fuori moda come il coraggio, la spregiudicatezza e anche l’umiltà: è una poesia che, non bisogna nascondercelo, va studiata prima di poterla apprezzare davvero. Ha tutta la complessità del mondo che meglio di ogni altra interpreta: niente di più ma, anche, niente di meno. Ha spiegato in modo memorabile lui stesso, una volta: «la comprensibilità si verifica a vari livelli. C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così, perché qui si trasmette per una serie di impulsi sotterranei, fonici, ritmici, ecc. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo». Questo «principio resistenza» di Zanzotto è una sfida che sarebbe da pusillanimi non raccogliere: un combattimento con l’angelo della lingua e della storia. Al fin della licenza, se saremo sopravvissuti all’agone, ci splenderà davanti una luce accecante. Attenzione: quella cosa si chiama poesia.
Andrea Cortellessa insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la Cattedra De Sanctis al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi e antologie, curato testi di autori italiani del Novecento e contemporanei, realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. Tra le sue ultime pubblicazioni: Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale (Bompiani, nuova edizione 2018); Volevamo la Luna (Mattioli 1885, 2019); Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli (Luca Sossella, 2020); Vedere, Pasolini (con Silvia De Laude, Engramma, 2021). È tra i fondatori di “Antinomie. Scritture e immagini” e collabora ad “Alias” del “manifesto”, alla “Domenica” del “Sole 24 Ore” e a “Tuttolibri” della “Stampa”.