
Pochi sanno che la Transiberiana fu costruita anche grazie alla manodopera di maestranze friulane.
È vero, non molti sanno dell’eccezionale apporto delle maestranze friulane alla realizzazione di un tratto della Transiberiana, sicuramente il più difficile e il più tormentato. Si impiegano quasi otto ore di treno per percorrere l’arco litoraneo, a sud del lago Bajkal, tra Irkutsk e Ulan-Udè. Si costeggia il lago in un paesaggio costantemente verde di foreste a destra e azzurro di acque a sinistra. Su di esse la luce s’infrange e schizza come una pioggia di schegge infuocate. Nell’aria senti la completezza di onde di suoni e dei colori del sole, del vento, delle nuvole. Dalla linea intatta dell’orizzonte grumi biancastri di cumuli, fumosi e gonfi come fantasmi espandono riverberi tremolanti sulla superficie del lago colorandola di un tenero arancione. Poi, all’improvviso, si configurano le taglienti linee verticali di giganti dalle larghe spalle: rossi, neri, bruni, grigi. Sono le montagne di basalto che con quei colori dicono tutta la durezza della pietra e l’essenzialità cruda della natura. Quelle rocce, che hanno dormito il sonno delle ere geologiche, nessuno aveva mai osato sfidarle perché, secondo la visione che le genti di quei luoghi hanno del sacro, testimoniano lo spirito ostile della natura. Poi, quelle montagne qualcuno osò affrontarle. Furono dei friulani, umili, silenziosi, tenaci come solo sanno essere i friulani. La storia li ricorda di rado, talvolta però li riscopre negli angoli più sperduti della Terra. Accadde così per gli scalpellini del Friuli che andarono in Siberia. Dopo oltre un secolo da quando giunsero sulle sponde del Bajkal per compiervi la loro opera, solo ora prende a focalizzarsi il loro contributo alla realizzazione del tratto più arduo della Transiberiana. A rimuovere la polvere del tempo dai ricordi ha contribuito in maniera essenziale una scrittrice russa di Irkutsk, Elvira Kamenšikova. Profonda conoscitrice del lavoro dei friulani, questa storica di essi ha parlato in un saggio documentatissimo dal titolo Gli italiani sulle rive del Bajkal. Con uno lavoro amorevole, frutto di una trentennale ricerca, è riuscita a ricostruire l’epopea di quei pionieri, tagliatori di pietra, boscaioli, sterratori, provenienti in massima parte della provincia di Udine, che verso la fine del XIX secolo, qui erano stati chiamati per le loro riconosciute capacità. Dovevano scavare gallerie in una zona montuosa, fatta di un granito feroce, difficile da affrontare per chiunque. Questo fecero quelli di Osoppo, Spilimbergo, Clauzetto, Aviano, Polcenigo, Montenars, Buja e di tanti sperduti villaggi della Carnia, con scalpelli, piccozze, pale, rozze trivelle: i soli mezzi a loro disposizione. Solo strumenti essenziali, dunque, perché le risorse economiche per la costruzione della ferrovia, si sa, erano sempre state esigue. Si risparmiava su tutto e per i tratti di ferrovia già realizzati, si erano impiegate traverse di legno non stagionato, rotaie di scadentissimo ferro e costruito ponti con legno male assemblato. Nessuno si stupì dei continui deragliamenti che caratterizzarono i primi tempi della ferrovia. Impensabile quindi l’impiego di tecnologie moderne e perciò costose. Si trattava di scavare chilometri e chilometri di granito compatto da perforare modellando le volte, installando piloni, costruendo viadotti, affrontando strati spessissimi di ghiaccio… I russi non avevano maestranze con queste capacità, né all’altezza dell’impresa erano i cinesi pure massicciamente impiegati per i lavori della ferrovia. Occorrevano braccia e mani instancabili con cui plasmare la roccia cupa di chilometri di gallerie. Insomma, occorreva un miracolo per portare a termine un lavoro impossibile. Fu proprio quello compiuto dai friulani. Ne giunsero quattrocento, forse più, poverissimi, ma di grandi capacità e disposti alla sfida con la pietra più dura della Terra e col freddo invernale più atroce, anche di cinquanta gradi sotto zero. Vissero in condizioni disperate patendo spesso la fame per via delle difficoltà di approvvigionamento, dormendo in baracche di legno in compagnia di insetti, di topi e di condannati che scambiavano un giorno di lavoro per uno di galera. Dal 1894 al 1906 pagarono un tributo altissimo in termini di vite umane, soffrendo freddi inimmaginabili, morendo di congelamento, di malattie, di privazioni, di sacrifici inenarrabili. Ogni metro di ferrovia in quel tratto fu segnato da dolore, sangue e morte. Io non ho idea di cosa comporti posare binari ghiacciati su un suolo gelato stabilmente per centinaia, talvolta migliaia di metri di profondità. Non riesco a immaginare. Mi vibra la pelle all’idea che a toccare quel ferro le mani fumassero fino a bruciare per il freddo intenso. Mi dà i brividi immaginare gente che spaccava la roccia viva a forza di braccia con mani piagate dal gelo. Il costo economico fu pazzesco quello umano una follia. Solo grazie al lavoro di quella gente venuta da tanto lontano le montagne furono domate, furono costruiti ponti, massicciate e gallerie che resistono al tempo e testimoniano il valore dell’opera di oltre un secolo fa. Si può affermare senza tema di smentite, che senza i friulani del Bajkal, la ferrovia sarebbe stata completata con svariati lustri di ritardo. Sento l’obbligo di rievocare quell’epopea perché parlare della Transiberiana senza ricordare i muti pionieri venuti dal Friuli, sarebbe stata un’omissione imperdonabile. Di loro ha evocato il sacrificio eroico una regista francese di origini friulane, Christiane Rorato, in un film indimenticabile di grande ispirazione: Les oubliés du Transsibérien (I dimenticati della Transiberiana). A un convegno che ha avuto per tema Tracce italiane nella storia della Siberia, tenuto a Irkutsk nel settembre del 2011, per la prima volta sono stati rievocati i friulani e il loro lavoro. Con immaginabile emozione ne hanno parlato nipoti e pronipoti, ora cittadini russi, nati in Siberia, orgogliosi di nonni mai conosciuti. Molti di quegli avi, infatti, scampati ai quotidiani incidenti, alle malattie, ai morsi dolorosi d’insetti, non fecero più ritorno in patria. Erano quelli che appartengono alla razza di coloro che non ritornano. Così li definì qualcuno. Cambiarono nome e crearono le loro famiglie in questa terra silenziosa come il suo freddo. Sopravvissero alle ottuse persecuzioni staliniane del 1937 e all’obbligo di rientrare in Italia, loro, figli dei friulani della prima ora che nulla sapevano dell’Italia. Altri furono arrestati con l’accusa di spionaggio e fucilati. Ahimè, la storia si apre spesso su pagine di stupidità umana come questa. Di esse si deve solo mestamente prendere atto. Molti sopravvissuti, dunque, rimasero in Siberia prigionieri della malia dei luoghi, catturati degli spazi di quelle terre senza orizzonti. C’è un termine russo che di questi spazi esprime appieno il senso, prostory. Si ha bisogno però di parafrasi e di una buona conoscenza del cuore russo per renderlo in italiano. Equivale, in qualche modo, a grandiosità, a libertà in territori di cui è assente il limite. Ma prostory significa pure senso di vuoto, indeterminatezza, immensità che prevale senza opporre resistenza, vastità senza centro e quindi agorafobia, angoscia, nostalgia e malinconia che scaturisce dal rapporto con la dismisura spaziale. Lo spazio russo è quello che Nikolaj Gogol’ ne Le anime morte chiama “energia nascosta”, comprensibile solo a chi ha cuore russo o è vissuto a lungo in terra russa.
Come si snoda il viaggio da Mosca alla Mongolia?
È un viaggio che dura tempi indefinibili perché, come ho avuto modo di scrivere in Transiberiana, con il passaggio del sessantesimo meridiano, quello dei Monti Urali, pare abbia luogo una sorta di metamorfosi del tempo. Una specie di ridefinizione agostiniana di quello passato che non è più e di quello futuro che non è ancora, passando per quello presente che già non è più e non è ancora. Sembra un gioco acrobatico di parole. In realtà mi sono sentito quasi sospeso, come fra due dimensioni astratte. Sicché, proprio come Agostino, ho finito per credere di sapere cosa sia il tempo in genere, ma di non sapere come spiegare ad altri il tempo che in quel luogo riguardava me. In quel luogo il tempo mi sembrò che avesse rallentato il proprio ritmo o addirittura si fosse fermato. L’istante non diventava eternità ma si allungava fino ad appiattirsi. Ebbi la sensazione di vivere una sorta di atopia socratica, di immobilità fisica; mi sentii come smarrito in un luogo che non c’era perché il tempo l’aveva annullato. Lo smarrimento spazio-temporale appartiene quasi sempre alla diversità dei luoghi che visito e normalmente stimola queste riflessioni. Poi l’attenzione alle cose intorno a me, ai volti, alle risposte che mi davo sui segreti celati negli sguardi degli adulti e nelle certezze gioiose nascoste in quelli dei bambini, mi riportarono alla realtà cosciente. Giorni e notti di viaggio misurando il tempo per numero di stazioni e non più numero di ore. Questo è il viaggio transiberiano che scorre in un caleidoscopio d’inarrivabili mutevolezze. Tutto si liquefa lungo questa sterminata montagna orizzontale che è la Transiberiana: le ruote di acciaio la scalano mordendo binari stridenti. Le stazioni si succedono pigre fra sfolgorii di colori accesi dalla luce delle gocciole d’acqua che rigano i vetri delle carrozze: Ekaterinburg, Tyumen, Omsk, Tatarsk, Novosibirsk, Mariinsk, Krasnoyarsk, Tayshet, Irkutsk, Slyudjanka, Vidrino, Babushkin, Ulan-Udè… Una corona interminabile di nomi, più di mille, tanti quante sono le stazioni della Transiberiana da Mosca a Vladivostok. Molti nomi sono fissi nella memoria per i ricordi che evocano di eventi, di curiosità, di particolarità, di volti. Di volti, soprattutto, di genti sconosciute, tutte singolari per le distanze culturali, storiche e antropologiche separatrici fra noi e delle quali ho parlato nel libro distinguendone profili, voci, sguardi, tutti confusi nella rete fittissima delle simpatie che legano persone curiose di conoscenza.
Il passaggio tra la Siberia e la Mongolia, più in particolare, è un viaggio che dura non meno di quindici ore, forse più per via di quell’interpretazione del tempo di cui ho detto prima che si misura con una clessidra priva di sabbia. Seguimmo con un autobus ansante e dal passo rigido, un percorso stretto e senza fine. Lo dominavamo dalla lieve sommità di un’altura da cui sembrava quasi fluire il filo biondo della strada come un filo d’olio dalla bocca di una bottiglia. Un filo diritto, che si perdeva verso meridione, alla ricerca di un punto nel cuore buio delle nuvole sull’orizzonte. Era proprio un nastro lucente e fulvo di sole. Correva come un taglio fra mediocri colline, arbusti spinosi e steppe pianeggianti che coprivano vallate dalle morbide curve rese dolci da un’erosione millenaria di venti e di acque ghiacciate. Man mano che scendevamo di latitudine, la steppa, che si sperdeva nella lontananza, sembrava inghiottire il nastro sottile della strada. Era una prateria avvolgente come un manto nel suo verde uguale, pluridimensionale. Per essere così uniforme nella sua immensità, sembrava quasi una minaccia. Prostory… Eravamo stretti nei sedili di cuoio duro del nostro sgangherato veicolo: minuscola cosa rispetto al territorio che ci circondava e insignificante come una virgola in una pagina di stampa. Eravamo castigati nel suo guscio rosso reso rovente dall’abbraccio infuocato del sole estivo mongolo. Insomma, ci sentivamo avviluppati e sovrapposti come le foglie di un carciofo. Varcammo la frontiera dopo controlli estenuanti di bagagli, passaporti, documenti di viaggio e visti. Ma anche di vivisezioni con sguardi, taglienti come ossidiana, dei nostri volti da parte di controllori, esploratori sottili delle nostre titubanze e delle nostre ansie. Erano sguardi senza cortesia, d’una bruttezza aggressiva. Avevano bagliori gialli come quelli dei gufi di notte e sembravano volerci ardere vivi. Erano tesi su facce di pelle vecchia con rughe fitte come i vimini di un canestro. Facce senza nessuna traccia di pensiero, fatte specialmente di occhi, occhi sgranati sulle foto dei nostri passaporti stranieri. Una novità per loro. Si saranno chiesti che ci venissimo a fare da quelle parti, io e il mio compagno, con i nostri volti stralunati e sfatti. La corrispondenza tra il viso sulle foto e quello reale, tormentato dalla tirata delle ore di viaggio, non era sicuramente perfetta…
Quanto dura il viaggio in Transiberiana?
In genere si dice che le domande sono difficili. Mai come in questo caso è difficile invece dare una risposta. Nulla come per un viaggio in Transiberiana è difficile da determinare come il tempo. Ideale sarebbe andare senza orologi fissando idealmente il tempo senza esserne vittime. So bene quanto sia impraticabile, anche se io ho tentato di liquefare i misuratori dei giorni e delle ore nel crogiuolo dell’indifferenza lasciandomi trasportare, fino dove ho potuto, dall’interesse per la storia delle genti, delle loro culture, delle loro tradizioni religiose, dei tratti salienti della loro quotidianità. Ho indugiato fermandomi in città minori per frugare nelle radici del loro passato. Cittadine come Babushkin, dove vissero in larga parte i friulani del Bajkal quando ancora si chiamava Missaavaja prima che assumesse il nome del rivoluzionario russo Ivan Babushkin, o ancora Ruzino, dove verso la fine dell’Ottocento giunsero dalla lontana Ucraina un gruppo di coloni qui venuti per popolare e coltivare le terre vergini intorno. Vi fondarono un villaggio cui diedero quel nome in ricordo del borgo ucraino natale, quasi per non tagliare il cordone ombelicale dell’appartenenza. Vi giunsero dopo mesi di incerto peregrinare fra vampate di sole e folate di nevischio, portandosi addosso le cose essenziali per la sopravvivenza e nel cuore il proprio passato, la propria identità riassunta forse nei canti recitati in coro cento e cento volte come echi di ricordi… Ecco, un viaggio come questo è una catena dove ogni anello è il riassunto di eventi che richiamano un passato denso di vicende umane, drammatiche talvolta, buffe talaltra, ma sempre vicende umane che sollecitano desiderio di sapere ed emozioni. Un viaggio così si proietta in tempi di lunghezza soggettivi. Il mio è durato poco più di un mese. Ma può durare molto meno, anche dieci giorni. Dipende da quale obiettivi animano il viaggiatore. Non bisogna però dimenticare che la Transiberiana per diventare nome evocatore deve essere vissuta interamente. Innanzitutto, evitando confronti, mettendo da parte etnocentrismi culturali e aprendosi senza riserva alla conoscenza di un mondo che sa essere incuriosente solo se si è motivati dallo stimolo della conoscenza.
Quali momenti del Suo straordinario viaggio l’hanno colpita e segnato di più?
Sono quelli della riflessione durante le tratte di lunghissime ore, quando scopri di viaggiare non col treno ma nel treno. Quando ti avventuri fra le persone, tra i viaggiatori che del treno si servono per raggiungere luoghi di lavoro incommensurabilmente lontani o per visitare parenti in città sperdute dello sterminato continente Siberia. Ho una fila interminabile di memorie che affiorano come bolle dal profondo della mente, difficili da ricacciare nell’archivio dei ricordi. Mi viene in mente l’incontro con le genti del treno. Mi sembrò di essere sceso nel girone di un popolo che sembrava condannato dal peccato della povertà all’atrocità del caldo infernale di un vagone sigillato quasi ermeticamente. Distinguevo con qualche incertezza buriati e dolgani del distretto di Krasnojarsk, evenchi e ostiachi della regione di Jugra ma anche i più identificabili tatari. Tutti avevano volti dai colori dolorosi, opachi, con zigomi alti e sporgenti come cicatrici ipertrofiche, bulbi oculari lontani e piccoli, affondati nelle orbite come cavità buie, pliche inclinate di caratteri mongolidi di tante sfumature. C’erano però anche tanti volti slavi di ragazzi e ragazze dai capelli chiari e gli occhi verdi, lucenti come mari tropicali. Guardavano me e il mio compagno di viaggio come fossimo atterrati qui da un altro pianeta. Ci osservavano con la curiosità stupita e ingenua di chi vede un occidentale a ogni morte di papa. Eravamo conquistati dai comportamenti ingenui e lineari di quelle persone. E noi reagivamo con goffaggine, incapaci di comportarci con la loro spontaneità, come se fosse stata obbligatoria la stupidità che, sicuramente, in quel frangente si disegnava sui nostri volti. Tuttavia, conquistati, conquistavamo con la nostra curiosità e catturavamo la loro attenzione. Poi i segni diventavano suoni. Era facile creare un contatto. Perché le distanze fra gli umani sono talvolta maggiori fra i luoghi di origine che non nel comune sentire. Un sorriso diventa uno straordinario anello di congiunzione, un ponte levatoio abbassato, un messaggio di concordia e non di conquista. Quelle persone intorno a noi diventavano tutte un pezzetto del mio cervello, della mia natura. Qualcuno mi allungava una bottiglietta di vodka, un altro mi porgeva un bicchiere di carta. Ne versavo un po’ e inghiottivo, come facevano loro sollevando i loro bicchierini di vetro opachi d’uso. Sentivo le labbra impiastrate, tossivo incapace di mascherare la mia scarsa abitudine all’alcol. Ero seduto su un mucchietto di lenzuola spiegazzate, sul bordo di una cuccetta, accanto a una ragazza, forse un’evenca per via degli zigomi puntuti. Era grassa e rubizza con le linee arcuate del corpo che richiamavano quelle stilizzate di una matrioska. Si parlava, ognuno la propria lingua, si dicevano cose non capite, si annuiva, si sorrideva. Si sentiva la consonanza dello stare insieme, perché è la relazione che costruisce l’identità degli uomini; da soli non esistiamo. Proprio in quella circostanza, riflettevo sulla verità assoluta dell’affermazione di Aristotele secondo il quale chi crede di vivere da solo o è bestia o è Dio. Principalmente, intuivo che conoscere gli altri è riconoscere sé stessi. Perché stare insieme è anche un modo di liberarsi, di uscire dalla razionalità. Mi invadeva una sorta di euforia, quella felice agitazione interiore che ti fa amare il mondo per bisogno di completezza, con sentimenti veri, senza ragione, perché non si ama con la ragione, così come con la ragione non si crea. Solo quando sciogli i canapi dell’ebbrezza un po’ folle che ci abita e che noi addomestichiamo con la ragione, apri canali di pensiero autentico e capisci di poter sentire e di vivere in armonia col mondo. Aleggiava intorno quell’equilibrio che si forma quando si è in pace con sé stessi. Non era felicità, la felicità non c’entra. Forse era eudaimonia, come dicevano i Greci, cioè desiderio di felicità, ciò che è realisticamente desiderabile. Fra quella gente mi sentii pieno di una forza estranea, di un impeto inconsueto, di un entusiasmo, nel senso letterale della parola, cioè pieno dell’eccitazione psichica di coloro che, così infervorati, credevano di essere ispirati da una divinità.
La Mongolia è uno dei paesi meno noti ed esplorati del mondo: perché merita di esser visitata?
La Mongolia è uno degli angoli più gioiosi della Terra. Dispiace dover riconoscere che è pure tra i Paesi meno conosciuti e visitati. Dispiace soprattutto constatare che nell’immaginario collettivo essa s’identifichi con la patria di quei conquistatori che la storia rese protagonisti di grandi eventi, erede solo delle memorie cruente di Attila, di Gengis Khan e niente altro. È vero, i mongoli di oggi sono il retaggio di quei condottieri e ne sono giustamente fieri. Eppure, quella mongola è una terra di ben altri ricchezze e patrimoni. È il Paese delle verdissime steppe estive dove a occidente s’ode il nitrito di freddo dei cavalli, a settentrione si allargano sterminate le foreste boreali, a levante urla il vento su distese mute e a mezzogiorno regna il vuoto metafisico del malinconico Gobi, il deserto che non assomiglia a nessun altro deserto della Terra. La Mongolia è un continente che accoglie oggi un popolo di poco meno di tre milioni di anime, silenzioso, mite, educato dallo sciamanesimo alla sacralità della natura. Perciò capace di dialogare con le foglie, con le pietre, con i ruscelli, con le aquile che si librano senza peso nello spazio e con tutti i profili della natura nei quali sa leggere i misteri della vita. Penso che i mongoli abbiano più dialogo col passato della spiritualità naturalistica che col futuro della tecnologia invadente. Non è questo sufficientemente intrigante per andare e camminare a piedi nudi sulle erbe delle steppe sterminate? Non attira il fascino della voce del silenzio e il canto della vita fatto del rullio del vento fra le pelli delle gher, le tende, che sono le dimore mobili dei mongoli?
Il paesaggio in Mongolia è immediatamente diverso da ogni altro, quasi che la natura stessa abbia deciso dove deve terminare fisicamente una nazione e dove deve cominciarne un’altra. È una terra con un diverso profilo, con un’altra colorazione, con un altro profumo del suolo. L’aria è piena di suoni gentili, di richiami di rondini e dei voli di qualche nera aquila anatraia con ali immote. Non manca mai un bambino che piagnucola fra le braccia della madre. Gli occhietti come due punti neri al centro del taglio obliquo delle palpebre. Ti osservano incuriositi quegli occhietti e il piagnucolio cessa di colpo, il naso minuto, insellato fra le guance gonfie è umido di muco a ricordare che a quell’età i nasi, come diceva Collodi, sono fratelli in tutte le razze. Le madri, solenni nei panni colorati, hanno volti rotondi con gote dai pomi anneriti. È difficile dare un’idea della Mongolia senza aver almeno immaginato i colori della sua natura. Bisognerebbe averne respirato l’atmosfera che ne riassume la plenitudine dei profili e rende unico e indimenticabile il paesaggio. Normalmente però questo volto è nascosto dietro il velo patinato e suadente delle pubblicità che attirano i turisti. Provo a dire come ho percepito io la Mongolia, senza prescindere dal presupposto che la mia valutazione possa essere influenzata da letture di eventi lontani che qui ebbero luogo e che hanno riguardato profondamente anche l’Occidente. Quando entri nella scena del mare pianeggiante che si apre davanti a te, verde di erbe uniformi, senza schegge verticali di alberi e monti, comprendi lo stupore e l’emozione che può aver impressionato anche i viaggiatori del più lontano passato. Nello sconfinato scenario delle steppe e chiusa in orizzonti sfumati, è iscritta l’impressione di una sacralità che giustifica tutte le visioni del magico in virtù delle quali ha qualità la natura. Questa è pure l’interpretazione che mi sento di dare alla visione soprannaturalistica dello sciamanesimo. Proprio le vastità di questi spazi e i loro silenzi comunicatori della vastità del tempo, possono aver ispirato lo sfondo del panteismo sciamanico. In nessun altro luogo della Terra il tempo e il silenzio sono vita come qui. Se vedi qualcuno nella posa di una sfinge, accovacciato sui calcagni, imperturbabile, con lo sguardo smarrito nelle lontananze tutte uguali di avvallamenti e pianure, non devi pensare che stia lì in ozio. Devi pensare invece che stia vivendo un tempo non misurabile, che stia vedendo cose fuori dalle categorie abituali della riflessione, che stia seguendo il fiume lento dei suoi pensieri. L’unicità, dopotutto, consiste proprio nel vedere cose che nessun altro vede. La terra in Mongolia è sacra e per sacro intendo quella dimensione che sa di diverso, di sfuggente, di lontano dalla comprensione umana. Il sacro è il totalmente altro dal profano. È la dimensione dove gli opposti si confondono, è il mysterium tremendum et fascinans, come lo ha definito Rudolf Otto, uno dei più grandi interpreti della dimensione del sacro. Credo che i mongoli avvertano per empatia questa sacrale potenza dell’ambiente e quasi la personificano. Per questo ne hanno un rispetto che diventa venerazione di tutti i suoi aspetti: venerazione della piuma di un uccello, di una scheggia di roccia, di un ago di larice e perfino di una goccia d’acqua, perché sono parte del tutto. I mongoli hanno addirittura un canto, l’hoomy, per imitare tutti i suoni della natura. Per essi ogni forma, ogni cosa ha in sé una potenza invisibile, una forza dormiente e vitale, generalmente nota col termine melanesiano di mana, che lo sciamano sa evocare con le sue pratiche magiche e crede di convogliare nello sfondo dell’incantesimo. Si capisce pure perché un luogo, apparentemente privo di vita, sia immaginato in grado di aprirsi di colpo per far emergere dalle profondità del nulla terrificanti giganti capaci di scuotere monti e acque e di mettere il mondo a soqquadro. Quando si entra nella dimensione del rispetto innato che in Mongolia viene riservato alla natura, non si può che restare a bocca aperta e si capisce subito che l’ambiente non è il mezzo, ma il fine. Il fine da rispettare. Come fanno i mongoli.
Non basta tutto questo a giustificare una visita del Paese?
Quali consigli dà a chi desiderasse replicare la Sua esperienza?
Vorrei essere capace con il mio Transiberiana di sollecitare nei lettori quelle curiosità minime che giustificano un viaggio come questo. Mi sento di poter affermare che la vastità degli interessi che un viaggio del genere può suscitare è praticamente sconfinata. Non mi sento però di dare consigli speciali. Credo sia essenziale però identificare in anticipo gli obiettivi da perseguire, le città di visitare lungo il percorso e i motivi dell’interesse che ne determinano la scelta, i tempi delle permanenze nei vari luoghi in funzione delle proprie risorse e delle curiosità culturali o di altra natura che giustificano il viaggio. A decidere un’esperienza così concorrono i fattori più diversi: la curiosità, l’avventura, il bisogno di essere stupiti. Chissà. Soprattutto, per molti, il bisogno di essere sorpresi dall’ignoto, perché per istinto l’uomo sa che il giorno in cui di nulla si stupirà sarà pure quello in cui avrà rinunciato a vivere. Un grande filosofo greco, Platone, ci ricorda che una vita senza curiosità non è degna di essere vissuta. Chi non riesce a stupirsi infatti vive come un albero che muore dove è nato. Erodoto è il testimone più autorevole e lontano nel tempo di questa necessità di viaggiare. Ecco allora perché andare, perché scegliere un percorso come questo capace di destare emozioni sorprendenti. Suggerisco, infine, di entrare nell’universo siberiano in punta di piedi, senza arroganze etnocentriche come spesso accade a noi occidentali. Le ricchezze nascoste dei popoli siberiani si svelano se sai osservarle con umiltà, non dimenticando mai che il viaggiatore vero non conosce diversità proprio perché delle diversità del mondo nutre la propria voglia di conoscenza. Il sipario del viaggiatore si apre non sulla scena che è il luogo della rappresentazione, della ripetizione e del déjà vu, ma sulla platea, sulle dissomiglianze cromatiche del pubblico, sulle emozioni dei volti, sull’impeto dei suoni, sulla vaghezza degli odori, perché il diverso esclude le idee regolative. Un’avventura come quella transiberiana può diventare insomma una scoperta di se stessi perché, in fondo, che cosa è un viaggio se non un’officina di conoscenza? Un gènoi hòios éi un trovare ciò che si è secondo l’insegnamento di Pindaro. Il percorso del sole in cielo e quello del viaggiatore in terra si dovrebbero sempre assomigliare: dovrebbero avere entrambi lo scopo di scacciare il buio, quello della notte il primo, quello dell’ignoranza l’altro.
E allora buona Transiberiana a chi si cimenta con essa per cimentarsi con un ignoto se stesso.