
Perché fu scelta via Fani per il rapimento?
La scelta di via Fani risponde, con ogni probabilità, ad una semplice motivazione: era il tratto abituale che percorreva il convoglio di Moro una volta lasciata l’abitazione del presidente della Dc in via del Forte Trionfale. In realtà c’erano anche altre opzioni, ma alla fine si passava sempre per via Fani, per motivi di praticità, per evitare il traffico che avrebbero potuto trovare su altri itinerari. Un rischio che in genere non dovrebbe correre un servizio di scorta alle personalità, soprattutto quando come Aldo Moro non disponevano di un’auto blindata. La ricorrenza del percorso era nota a molti e da anni. Ne parla alla fine degli anni 60 perfino Pierfrancesco Pingitore, il fondatore del Bagaglino, nota compagnia di varietà. Non va poi sottovalutato che Moro aveva l’abitudine di andare a messa ogni mattina e la prima chiesa che incontrava lungo il tragitto era la chiesa di San Francesco in piazza Monte Gaudio, a poche decine di metri da via Fani. Sembra proprio che la consuetudine sia stata fatale a Moro e alla sua scorta. Non poco si è discusso in sede giudiziaria sul perché le BR fossero tanto sicure che il convoglio sarebbe passato in via Fani. Al punto da provvedere a squarciare le gomme del furgone del fioraio che ogni mattina si sistemava all’angolo tra via Mario Fani e via Stresa, in una posizione che poteva pregiudicare l’esito dell’operazione.
Le vie di fuga e i nascondigli dei primi istanti del sequestro rappresentano ancora oggi un mistero.
La II Commissione Moro ha cercato di approfondire le conoscenze riguardo a possibili nascondigli che possano aver offerto riparo, anche momentaneo, ai brigatisti nella primissima fase dell’operazione. In particolare si è posta l’attenzione su un palazzo in via Massimi, non distante da via Fani, all’epoca di proprietà dello IOR, e dunque provvisto del requisito dell’extraterritorialità e sempre nello stesso complesso, su un garage in via della Balduina.
Una base, un locale protetto, poteva risultare utile per varie necessità: dal cambio degli abiti, all’eventuale medicazione di un ferito, al trasbordo del prigioniero su un altro mezzo. Via Massimi e via della Balduina rientrano comunque nelle perlustrazioni a tappeto compiute dalle forze dell’ordine dopo l’agguato in via Fani. L’ipotesi di un covo in questa zona è peraltro supportata dal fatto che le auto utilizzate per l’operazione vengono lasciate tutte in una strada della Balduina, in via Licinio Calvo. Quanto alla via di fuga abbiamo le ricostruzioni dello stesso Valerio Morucci, – esponente di spicco delle BR che partecipa all’agguato di via Fani – fissate in un memoriale che diviene pubblico nel 1990. Una ricostruzione che però, riguardo al percorso di fuga risulta poco convincente almeno in un paio di passaggi cruciali: sosta e movimenti del furgone dove viene trasbordato Moro e il luogo dove sarebbe avvenuto il passaggio del prigioniero dalla Fiat 130 al furgone. Tenuto conto delle testimonianze, delle indagini, di riscontri oggettivi e deduzioni logiche quello che appare sulla carta è uno strano scenario: una scacchiera in cui si ha l’impressione che – per pura coincidenza – gli spostamenti di alcuni pedine da una parte siano funzionali al movimento e all’occupazione dello spazio da parte delle pedine contrapposte.
La zona tra il Portico d’Ottavia e largo Argentina assunse un ruolo particolare durante la fase finale del sequestro.
La zona di Largo Argentina e dell’Insula Mattei, che comprende il cosiddetto Ghetto, gioca un ruolo importante anche all’inizio della vicenda. È in Largo Arenula che le Brigate Rosse fanno ritrovare il 18 marzo il loro primo comunicato. A Largo Argentina del resto fa espressamente riferimento Adriana Faranda come un tratto che percorreva abitualmente. Ma soprattutto è nella fase finale del sequestro che questi luoghi diventano cruciali quanto enigmatici. Certamente le BR hanno familiarità con la zona, dove va ricordato avviene tre anni dopo il rilascio di un altro sequestrato: il magistrato Giovanni D’Urso. Tutte circostanze che hanno fatto ritenere che in questa zona vi fosse un’importante base d’appoggio delle BR. Vanamente cercata.
Perché, a Suo avviso, il corpo dell’Onorevole Moro fu fatto ritrovare in via Caetani?
Il valore simbolico, la presunta equidistanza tra le sedi della DC e del PCI sembrerebbe la spiegazione più plausibile della scelta delle BR. Ma non sono granché convinto che sia questa la motivazione principale. Più probabile che via Caetani rientrasse in un perimetro logistico che assicurava alle Brigate Rosse di poter agire dentro un relativo margine di sicurezza. Le stesse BR hanno sempre affermato, almeno riguardo agli snodi essenziali del sequestro, che per operare c’era bisogno di un certo controllo del territorio, almeno per un limitato periodo di tempo. Al di là delle simbologie, opinabili ma possibili, penso che alla fine sia il fattore pratico a prevalere.
Cosa si può dire riguardo i luoghi di ritrovamento delle lettere di Moro?
La distribuzione dei comunicati e delle lettere di Moro è uno degli aspetti più complessi della vicenda. Per quanto riguarda i 9 comunicati delle BR i luoghi del loro ritrovamento sono ovviamente individuabili e interpretabili. Perfino troppo. Il che pone qualche riserva sulla conduzione delle indagini che sembrano non tenere conto di una dinamica alquanto ripetitiva. O almeno non abbiamo notizia di operazioni investigative in questo senso. Di certo c’è che non hanno prodotto alcun esito. Le lettere di Moro, provenienti dalla cosiddetta prigione del popolo sono invece tutt’altra faccenda. Intanto perché coinvolgono soggetti terzi, gli intermediari, collaboratori di Moro, familiari ecc. con il compito di fare da tramite nello smistamento delle missive. Luoghi e modalità di incontro tra BR e intermediari restano in gran parte nebulosi. Come il numero effettivo delle lettere consegnate. Cosi come resta imprecisata la questione del cosiddetto canale di ritorno che avrebbe consentito a Moro non solo inoltrare ma anche ricevere comunicazioni dall’esterno. Certo è che lo smistamento delle lettere propone altri luoghi essenziali nella mappa della vicenda Moro: dalle portinerie negli stabili dove abitano alcuni collaboratori del Presidente, alla parrocchia dove risiede un vice parroco amico di Aldo Moro.
Ad oggi, cosa sappiamo dei covi sparsi in varie zone della Capitale?
I covi sono stati quasi tutti scoperti. La loro dislocazione, che va dalla zona del Tiburtino a Monteverde a Boccea disegna una presenza decisamente diffusa sul territorio. Le lacune riguardano eventuali basi utilizzate all’inizio e alla fine dell’operazione: rispettivamente nella zona Monte Mario/Balduina e nell’area intorno a Largo Argentina. Le indagini riguardo a queste basi, da considerarsi essenziali, abbondano di ipotesi. Ma quanto a riscontri siamo a zero. In particolare due covi mantengono ancora oggi un alone di ambiguità: il covo di via Gradoli, nella zona della Cassia, scoperto o deliberatamente abbandonato la mattina del 18 aprile 1978, e il covo di via Montalcini, al Portuense, dove secondo la ricostruzione brigatista, Moro sarebbe stato tenuto prigioniero per tutta la durata del sequestro. Proprio nel garage di via Montalcini sarebbe poi avvenuta, la mattina del 9 maggio, l’esecuzione del Presidente della DC. Una base dunque di importanza fondamentale ma che registra ancora oggi opinioni contrastanti. Era effettivamente in via Montalcini la prigione del popolo? È stata sempre lì o solo per una fase del sequestro? Oppure il covo-prigione, come alcuni indizi lascerebbero supporre, va situato da qualche altra parte: dalla zona del Ghetto al litorale laziale, al retrobottega di un negozio nella zona di Monteverde? Non è chiaro. Come tanti altri aspetti di una vicenda che dopo quarant’anni resta irrisolta.