Riassunto capitolo 13 de “I Promessi Sposi”

I promessi sposi, Capitolo 13: trama riassunto

La folla si dirige verso la casa del vicario di provvisione; quest’ultimo, terrorizzato, spranga porte e finestre e si rintana in soffitta, ma i rivoltosi raggiungono ben presto l’abitazione e cercano con ogni mezzo di abbattere la porta. “Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!”, gridano inferociti.

Renzo si trova, volontariamente, nel bel mezzo dell’assalto alla casa del vicario. Pur convinto che l’uomo sia “la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri”, non approva l’uso della violenza e l’idea che il vicario possa essere addirittura ucciso gli fa orrore. Dunque il suo obiettivo, nell’unirsi alla folla, è quello di essere d’aiuto a coloro che vogliono stemperare gli animi e salvare il funzionario dal linciaggio.

Nel frattempo sul luogo arrivano i soldati: l’ufficiale che li guida tentenna, incerto sul da farsi, e così la folla, che interpreta tali tentennamenti come timore, inizia a sbeffeggiarli, mentre i più continuano a cercare di demolire la porta di ingresso. Tra i rivoltosi emerge un vecchio che, brandendo un martello, una corda e dei chiodi, incita ad appendere il corpo del vicario alla porta, na volta ucciso. Queste parole fanno inorridire Renzo: “Oibò! vergogna!”, esclama, “Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!”. Scambiato per una spia del vicario, Renzo sta per essere aggredito da alcuni dei rivoltosi, quando a un tatto si sente levarsi una voca che chiede alla folla di fare spazio per far passare una scala a pioli.

Alcuni stanno infatti portando una lunga scala che dovrebbe servire per tentare di accedere alla casa del vicario attraverso una finestra. “I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole”. Approfittando della confusione, Renzo cerca di allontanarsi.

Nel mentre si sparge la voce che sta arrivando il gran cancelliere Ferrer in persona, generando l’eccitazione della folla. C’è chi lo invoca, considerandolo dalla parte del popolo perché ha abbassato il prezzo del pane; c’è chi non lo vuole tra i piedi, perché pensa venga a salvare il vicario. Le voci si mischiano e si incrociano: “È qui Ferrer! — Non è vero, non è vero! — Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. — No, no! — E’ qui, è qui in carrozza. — Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! — Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. — No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! — Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!”

Vedendo che Ferrer è senza scorta, molti lo acclamano e si convincono che sia venuto per portare in prigione il vicario. Il grido dominante tra la folla diventa “prigione, giustizia, Ferrer!” e quelli che ancora stavano cercando di abbattere la porta vengono fermati e convinti a lasciar uscire il vicario, affinché venga tradotto in prigione. Anche Renzo, riconosciuto in quel “Ferrer” il nome di colui che firma le gride che gli era capitato di vedere nello studio dell’avvocato Azzeccagarbugli, si convince del fatto che questi sia una galantuomo venuto a fare giustizia. Decide dunque di aiutarlo a passare e “volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza”.

Quando finalmente la carrozza riesce a fendere la calca e a raggiungere la casa del vicario, Ferrer si affaccia dallo sportello, manda baci alla folla, promette pane, abbondanza e giustizia e assicura che porterà il vicario in prigione, aggiungendo, in spagnolo, “si es culpable” (se è colpevole).

Il gran cancelliere scende dunque dalla carrozza, si infila nella casa del vicario e ne esce accompagnato da quest’ultimo, mezzo morto di paura. Saliti in carrozza, Ferrer raccomanda al vicario di nascondersi sul fondo; poi la carrozza riparte mentre il cancelliere da un lato blandisce la folla continuando a promettere pane, abbondanza e castigo per il funzionario (“Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. […] No, no: non iscapperà. […] La passerà male, la passerà male….. si es culpable”), e dall’altro, in spagnolo, rassicura quest’ultimo del fatto che lo sta traendo in salvo (“Animo; estamos ya quasi fuera”). In tal modo la carrozza riesce a superare la folla e si dirige verso il Castello Sforzesco.

Cessato il pericolo, il vicario esce dal suo nascondiglio e ricopre Ferrer di ringraziamenti. Quest’ultimo è però preoccupato dalle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna. Il vicario, dal canto suo, vorrebbe dimettersi e ritirarsi in una grotta, “lontano da costoro”.

Silvia Maina

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