“Quando i medici sbagliano. E come discuterne in pubblico” di Giuseppe Remuzzi

Prof. Giuseppe Remuzzi, Lei è autore del libro Quando i medici sbagliano. E come discuterne in pubblico, edito da Laterza. «I medici sbagliano, come tutti gli altri», sentenzia sin dal titolo del Suo libro, però mentre gli «errori degli insegnanti passano inosservati, gli sbagli dei medici si vedono, eccome, e certe volte si muore»: perché possiamo comunque fidarci dei medici e della medicina?
Quando i medici sbagliano. E come discuterne in pubblico, Giuseppe RemuzziLa fiducia nei confronti dei medici e della medicina non deve vacillare: nonostante la scienza sia una dottrina empirica che non è fatta di certezze e di verità assolute, la medicina ha fatto passi da gigante permettendoci di sconfiggere tante malattie. Pensiamo ai vaccini per esempio, è l’intervento medico più efficace che ci sia mai stato, 25 milioni di vite salvate, solo fra il 2010 e il 2020. Volete sapere quante vite salvate per minuto? Cinque! Con un risparmio di circa 20 euro per ognuno che se ne investe. Gli scienziati sono in costante aggiornamento, ed è sbagliato pensare che facciano cattivo uso delle loro scoperte e che dovrebbero essere sottoposti a controlli più severi. La verità è che si stimano gli scienziati, ma si ha paura delle novità. Infatti, di fronte ad una novità è molto più probabile che la gente reagisca in modo negativo, piuttosto che positivo.

La società di oggi non è che non si fidi della scienza, ma non sempre ha gli elementi per giudicare. Purtroppo, come si dice ormai da anni, la cultura scientifica è molto carente. L’ulteriore sforzo degli scienziati, quindi, deve essere volto a capire il pubblico e portarlo man mano ad apprezzare la scienza e le sue regole.

È possibile sbagliare di meno in medicina?
Certo, è possibile. Un modo per sbagliare di meno, ad esempio, è connettere l’attività clinica alla ricerca scientifica, come fanno negli Stati Uniti. Una figura che collega queste parti è il clinical investigators, cioè un medico che si pone i problemi rispetto alle cause delle malattie, che si impegna per capire come fare a combatterle, che confronta tra loro diversi trattamenti e sceglie quello più adatto sulla base di evidenze che emergono dalla letteratura scientifica e dal suo stesso lavoro.

Nessun medico purtroppo però per quanto bravo farà mai abbastanza per i suoi pazienti. Spesso, oggi, se le cose non vanno come devono andare, si ricorre a vie estreme, quelle legali. Ma un conto sono gli errori medici che vanno certamente perseguiti e un altro è il tentativo di ottenere risarcimenti per casi di pazienti curati benissimo ma non guariti. Tutti i professionisti sbagliano, però se a sbagliare è un medico evidentemente l’errore non passa inosservato. Non dobbiamo quindi cambiare il modo di fare medicina “per paura dell’avvocato”.

Quali sono i rischi del dibattito pubblico sui temi scientifici?
Rendere il dibattito sui temi scientifici di dominio pubblico ha moltissimi vantaggi ma può avere anche dei rischi che non devono essere sottovalutati: ad esempio, l’aumento della confusione tra i cittadini e la conseguente perdita di fiducia nella scienza. Il disaccordo tra scienziati, finito sotto i riflettori soprattutto negli ultimi due anni, ha portato il pubblico a mettere in dubbio, ad esempio, la sicurezza e l’efficacia dei vaccini. La fiducia della gente non è per sempre, va riconquistata giorno dopo giorno.

Un altro rischio, poi, è che nel momento in cui il dibattito esce dall’università o dall’istituto di ricerca, le informazioni possono essere usate male, venendo piegate agli interessi della politica o di altri ambiti, finendo di nuovo col confondere la gente. D’altronde se la scienza non ha risposte certe, perché non dirlo apertamente? Ciò aiuterebbe il pubblico a capire come funziona.

Oggi il pubblico può accedere a qualunque informazione in tempo reale, per cui non è più importante dove si dicono le cose ma cosa si dice e come si interpretano i dati. Se vogliamo dunque che la gente cominci a considerare la scienza come un processo meraviglioso, quale è, lasciamo anche che apprezzi le sfumature, le contraddizioni, le smentite e le conferme.

Cosa ci ha insegnato il virus SARS-CoV-2?
La pandemia ha fatto capire che la salute della gente che abita la Terra è strettamente legata a quella degli animali, delle piante e dell’ambiente. L’uomo non è, come forse abbiamo sempre pensato, al centro dell’universo: siamo una specie come tante. Noi viviamo sulla terra, altri vivono nell’acqua, o addirittura nel nostro intestino, dove ci sono miliardi di batteri senza i quali il nostro cervello non saprebbe nemmeno pensare.

Gli uomini sul pianeta Terra sono sempre di più e vivono sempre più a contatto con animali, domestici e selvaggi, che sono parte della nostra vita e hanno un ruolo fondamentale, dall’essere fonti di cibo, allo sport, alla compagnia. Non avere rispetto per l’ambiente, quindi, è come voler deliberatamente creare nuove opportunità affinché certe malattie si sviluppino prima negli animali per poi passare all’uomo. Un recentissimo lavoro pubblicato su Nature dimostra proprio come la crisi climatica aumenti il rischio di spill-over (ovvero il famoso salto di specie) e quindi il rischio di nuove pandemie. Certo, per ora è solo un modello, ma solido dal punto di vista della metodologia.

Il dibattito sulla liberalizzazione dei brevetti dei vaccini anti Covid-19 ha riacceso i riflettori sul tema del rapporto tra sanità e libero mercato: dove passa il confine tra etica e profitto in medicina?
La prima cosa che mi preme spiegare è che una buona organizzazione di salute non dovrebbe avere la necessità di aumentare il proprio fatturato, anzi, dovrebbe fare in modo di ridurlo. Quindi, le economie basate sul libero mercato non sono automaticamente garanzia di una società equa. Il rischio è che si finisca invariabilmente per creare condizioni di salute diseguali. L’industria della salute non è affatto diversa dalle altre, quindi anche lei finirà per rispondere alle esigenze di mercato senza badare ai reali bisogni dell’ammalato. Come ha ribadito in più occasioni Richard Horton, il direttore del Lancet, dobbiamo riconoscere i pericoli di una società che fonda il benessere della popolazione sul libero mercato e dà sempre più credito e più potere a organizzazioni private che sono sempre orientate ad aumentare il fatturato e al profitto e mettono in secondo piano le vere esigenze degli ammalati.

Quindi ciò che si dovrebbe fare sarebbe far tornare il servizio pubblico ad essere protagonista del benessere dei cittadini italiani, integrando le cure primarie con quelle specialistiche degli ospedali. E poi, infine, bisogna investire sui giovani: la loro disponibilità e il loro entusiasmo devono diventare il motore per far ripartire il nostro SSN.

Giuseppe Remuzzi è direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e professore di Nefrologia per ‘chiara fama’ presso l’Università Statale di Milano. Editorialista del “Corriere della Sera”, ha pubblicato libri e articoli su riviste internazionali. Tra i suoi libri più recenti: La salute (non) è in vendita (2018) e Le impronte del signor Neanderthal (2021).

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