
Da allora, nella società italiana e nel suo habitus, molto è cambiato. La stessa legge 164 è stata radicalmente modificata nel 2011 dal decreto legislativo n. 150, che prevede che «il Tribunale autorizzi l’intervento chirurgico di mutamento di sesso solo ove necessario, ammettendo quindi che l’accoglimento della domanda di rettificazione del genere prescinda dalla trasformazione fisica dell’individuo, e si fondi piuttosto sull’accertamento della condizione personale del richiedente, sulla serietà e univocità del percorso di transizione e sulla compiutezza dell’esito». In altre parole chi, in sede di colloquio con il giudice, dimostra di aver raggiunto una condizione di benessere psico-fisico, nonché la piena immedesimazione nel genere percepito e vissuto come irreversibile, non è obbligato a sottoporsi all’intervento chirurgico e può ottenere il cambio del nome e del sesso anagrafico anche se decide di non operarsi. E qualche anno dopo, nella sentenza n. 221 del 2015, la Corte Costituzionale ha affermato che: «Il Giudice può rilevare il completamento della transizione laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari».
Si direbbe che siano passati anni luce e che molti degli obiettivi politici di un testo che intendeva appunto dimostrare che donne e/o uomini non si nasce ma si può o si è variamente costrett* a diventare, siano stati raggiunti e superati. Eppure, a distanza di quasi trent’anni, un altro editore, Mimesis, ha deciso di ripubblicare quel testo, arricchito di un’introduzione mirata a colmare l’abisso che separa la fine del secondo breve da quest’inizio di un secolo che si annuncia brevissimo. Che cosa, dunque, permane tanto da rendere ancora urgente quella riflessione?
Se da un lato il “diritto all’identità di genere” riconosciuto dalla legge sdogana la possibilità di considerarsi uomini oppure donne e a comportarsi come tali a prescindere dal “sesso” assegnatoci alla nascita, dall’altro questa nuova ‘fluidità’, la possibilità di transitare da un sesso/genere all’altro, non ha scalzato il regime binario in cui siamo fatti vivere e le sue figurazioni. Semmai lo ha rassodato. È dunque su quel ‘come tali’ che vale la pena di interrogarsi, perché è proprio in questa acquisita – e presumibilmente preziosa – instabilità che la cultura sembra avere avuto la meglio sulla natura, mescolando le carte solo per riaffermare la dualità M/F.
E se la natura che inchioda gli esseri umani alla loro assegnata (presunta) funzione/capacità riproduttiva non fosse altro che una delle tante fantasmagoriche invenzioni discorsive della cultura?
Come si è giunti alla categoria teorica e critica di “genere”?
L’esplosione di “discorso” sul sesso si muove tra presa d’atto del decadimento di alcuni divieti, ricerca di nuovi piaceri e ostinata riaffermazione di cosiddette oggettività. Da un lato si comincia a intravedere la non consequenzialità tra sesso, forme del desiderio e scelte d’oggetto e si prende a scardinare la fiducia nella naturalità di categorie quali maschile e femminile e di ciò che, socialmente, se ne fa derivare. Dall’altro si assiste a una sorta di contrattacco ideologico o di irrigidimento concettuale attorno al tema di una presunta essenza, maschile o femminile, non intaccabile e non modificabile da fattori educativi e culturali.
Esattamente in questa cesura si situa il dibattito, prodottosi originariamente in ambito angloamericano, sul rapporto tra “sesso” e “genere”. Intendendosi con sesso una presunta “natura” dei corpi, morfologicamente, biologicamente, fisiologicamente segnati all’origine da una specificità che renderebbe il corpo “maschile” irriducibile a quello “femminile” e viceversa. E intendendosi, invece, con “genere” quanto di “culturale” e sovradeterminato va, prima e dopo la nascita di un individuo, incollandosi al suo essere di un sesso piuttosto che dell’altro.
Per parafrasare la formula proposta da Simone de Beauvoir quasi cinquant’anni fa nel Secondo sesso, donne (e uomini) si nasce oppure si diventa? Basta il sesso in cui si viene al mondo, l’essere maschi o femmine (sempre ammettendo che lo si possa stabilire con certezza e una volta per tutte), a determinare il destino di un individuo oppure esso è l’esito di una programmazione sociale, di vere e proprie tecnologie di genere? E cosa si intende per destino? La vicenda sessuata di un individuo, il suo porsi tra le madri o i padri potenziali, oppure la sua intera avventura umana, sociale e intellettuale, il suo posizionamento nel mondo del lavoro, delle relazioni, del pensiero, dell’esperienza?
È stato merito sia di piccoli gruppi di medici, psichiatri, psicoanalisti variamente impegnati nel campo della ricerca sui cosiddetti disturbi dell’identità e le disforie di genere, sia della riflessione femminista e delle pratiche decostruzioniste legate al pensiero post-strutturalista se, a partire dai tardi anni Sessanta, si è preso a distinguere tra sesso e genere, natura e cultura, determinismo biologico e determinismo sociale. L’introduzione della categoria teorica e critica di “genere” ha permesso di portare alla luce quanto di fabbricato, costruito, non naturale vi fosse in ciò che sino ad allora era stato chiamato semplicemente sesso e dato per scontato, astorico e immodificabile. È grazie alla “scoperta” dei generi, di un maschile e di un femminile, che la distinzione originaria – maschio/femmina – viene interpellata e ripensata. Perché, si chiede la prima ondata del femminismo contemporaneo, si deve credere che nascere femmine oppure maschi comporti una serie di “effetti derivati” il cui rapporto con il dato di partenza non è né evidente né dimostrabile? Perché viene considerato naturale che le donne si consumino nel sogno d’amore per poi passare i loro giorni chiuse in casa a badare a figli e mariti, mentre gli uomini studiano o imparano un mestiere, “portati” (o “programmati”?) a guadagnare da vivere per tutti e, all’occorrenza, a lasciare ogni dovere familiare per andare in guerra? E siamo poi sicure che sia, sempre e ovunque, andata così? Siamo sicure che stia, oggi e in ogni parte del mondo, andando così? Perché si suppone che le femmine siano naturalmente inclini al sacrificio e al lavoro di cura, docili, abnegate, accomodanti, passive, portate alla sedentarietà e alla stabilità, paurose, fragili, bisognose di protezione, incapaci di pensiero astratto, emotive, inaffidabili, e i maschi naturalmente attivi, aggressivi, coraggiosi, forti, capaci d’iniziativa e portati al movimento e all’esplorazione, protettivi, ardimentosi, adatti ai mestieri rudi e all’aria aperta, razionali? Perché non si tiene conto della banale evidenza che lo schema binario maschile/femminile è inadeguato a rappresentare l’infinita varietà tipologica che si situa tra questi due estremi? Perché, si chiedono i ricercatori della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora, può succedere che un individuo sano e normale si senta in esilio nel proprio sesso biologico e a casa in quello opposto?
Lavorare sul terreno del genere, storicizzando e mettendo in prospettiva sociale ciò che nel tempo ha marcato la vita di uomini e donne, ha permesso in questi anni di vedere quanto vi fosse di arbitrario nella definizione delle figure del maschile e del femminile, quanto di forzato, tendenzioso, ingiusto. Ma anche di capire quanto questa millenaria “pratica della programmazione di genere” abbia strutturato e incrostato la percezione che gli stessi individui hanno di sé. E, spesso, ha portato a riconoscere quale strategia della discriminazione si annidi dietro a presunti fatti di natura o al verbo di una legge maschile contrabbandata per universale. Spregiudicata e volubile come tutte le pratiche di potere, tale strategia – a ben vedere – si è di frequente smentita da sé, contraddicendo nei fatti i propri assunti teorici.
Perché si può affermare che sesso e genere sono la stessa identica cosa?
Mentre oggi cinema, letteratura, moda, pubblicità, televisione, teoria politica, cultura e società mettono ossessivamente al centro delle proprie indagini e rappresentazioni il tema del sesso e della sua imprendibilità, ambiguità o irrilevanza, insistere sul terreno del genere rischia di tenerci un passo indietro rispetto al nuovo stato delle cose. Forse si potrebbe finalmente ammettere che sesso e genere sono la stessa identica cosa, che non c’è tra loro alcun rapporto di priorità, gerarchia, causalità. Che l’utilità tattica di separare i due termini rischia a questo punto di convertirsi in equivoco, accecamento, movimento falso. Il sesso, già maschile o femminile in partenza, esiste forse mai fuori dal genere e dalle sue determinazioni? Se è invece proprio il confine tra maschile e femminile a sfumare, ed esattamente là dove sembra originarsi, nella notte della biologia o del desiderio d’oggetto e della pulsione erotica, che utilità può avere riportarlo entro la gabbia del sesso/genere?
Verrebbe quasi da pensare che, almeno in Italia, l’accendersi improvviso di un interesse all’apparenza diffuso per la soggettività femminile e, ancor più ambiguamente, per i cosiddetti “studi di genere” (sulla falsariga dell’esperienza e della terminologia anglo-americana, i Gender Studies sarebbero la “naturale” evoluzione degli originari Feminist Studies e dei successivi Women’s Studies) mascheri oggi proprio questa inquietudine. Come se, allorché la distinzione sessuale si fa opaca, incerta, grottesca o inessenziale, fosse prudente riparare dietro gli argini rassicuranti del genere. Meglio un maschio biologico che si assume indiscussi compiti femminili o una femmina biologica che si incarica di “fare l’uomo” che mettere in discussione i modelli di virilità e femminilità che ci hanno portati sino qui. E, soprattutto, la loro fissità e irreversibilità. Meglio tenersi stretto il genere e il rivendicazionismo che a esso si accompagna che mettere radicalmente in crisi un utilitaristico quanto bugiardo sistema binario che ci fa vedere il mondo in rosa e azzurro o in gonna e pantaloni, vale a dire in sotto e sopra, dominanti e sottomessi. Stabilendo per tutti un criterio vincolante e inalterabile di norma e normalità, oppure – ma non è forse la stessa cosa? – di trasgressione.
Maria Nadotti, giornalista e saggista, ha vissuto tra l’Italia, gli Stati Uniti, la Palestina, la Germania e il Portogallo. È autrice di vari libri tra cui Silenzio = morte. Gli Usa nel tempo dell’Aids (1994) e Necrologhi. Pamphlet sull’arte di consumare (2015). È curatrice e traduttrice italiana dell’opera di John Berger