
La prevenzione resta un cardine importante per una lunga vita in buona salute: gli studi su ampi campioni di popolazione ci hanno da tempo confermato l’importanza di tenere sotto controllo i fattori di rischio cardiovascolari, quali gli alti livelli di colesterolo, l’ipertensione arteriosa, il fumo di sigaretta e l’obesità, che non risparmiano nessuna fascia sociale. Tutto questo da solo potrebbe non bastare, perché molte ricerche dimostrano che mantenere l’autostima e aspettative positive sul proprio invecchiamento, ha un impatto maggiore oltre che sulla durata, anche sulla qualità della vita rispetto all’età cronologica. Il caso della Signora Agata di 104 anni che durante un’intervista della RAI a casa sua, si è cambiata due volte di abito e di gioielli per sua scelta ben descrive un carattere positivo e combattivo, anche per altri aspetti che descrivo nel libro.
In che modo i progressi della scienza hanno allungato le aspettative di vita?
Probabilmente la drastica riduzione delle malattie infettive nei paesi economicamente avanzati e la conseguente riduzione della velocità d’invecchiamento del sistema immunitario, sono stati tra i fattori più importanti che hanno consentito l’aumentata longevità osservata negli ultimi due secoli e in particolare negli ultimi 50 anni. Inoltre la ricerca in campo cardiovascolare che ha contribuito a ridurre, per esempio con l’utilizzo dei farmaci antipertensivi e anticoagulanti, insieme all’introduzione negli ospedali delle unità coronariche e delle Stroke unit, l’incidenza e la mortalità di queste patologie. La ricerca avanza ora su più fronti, dalla sintesi per esempio di molecole che impediscano l’accorciamento dei telomeri, sorta di cappucci protettivi all’estremità dei cromosomi, o di molecole antiossidanti che contrastino la produzione di radicali liberi.
Lei ha dedicato la Sua vita a studiare l’invecchiamento: perché invecchiamo?
L’invecchiamento è un insieme di modificazioni fisiche e psichiche, non dovute a malattia, che intervengono in tutti gli individui dopo la maturità e che riducono gradualmente la capacità di adattamento allo stress rispetto al soggetto giovane. Si perde la capacità di conservare l’omeostasi, cioè di mantenere costante l’ambiente interno nonostante le variazioni dell’ambiente esterno (concetto di equilibrio dinamico). Un esempio è la temperatura centrale del nostro organismo che viene mantenuta a valori prossimi ai 37°C nonostante le variazioni ambientali. L’invecchiamento produce un aumento della suscettibilità individuale alla malattia. L’invecchiamento è però diverso da uomo a uomo ed è la sommatoria dell’invecchiamento cronologico, biologico, sociale, psichico. Dal momento del concepimento, si procede nella vita verso l’invecchiamento. Le nostre cellule continuano a dividersi e a sostituire quelle che vengono danneggiate. La frequenza con cui avvengono queste sostituzioni cambia da organo a organo ed esse non possono verificarsi all’infinito. Il limite a questo processo è stato determinato nel 1961 da Leonard Hayflick, che ha stabilito con le sue ricerche che le cellule hanno un limite specifico di divisioni che possono compiere: il numero chiamato il “Limite di Hayflick” determina la durata della vita di ogni specie animale e anche dell’uomo, perché dopo ogni divisione cellulare le nostre cellule non sono identiche a quelle da cui hanno avuto origine e possono andare incontro all’apoptosi, cioè alla morte cellulare. La sua teoria della senescenza è stata rafforzata dalla scoperta dei telomeri che sono un meccanismo di protezione dei cromosomi e promuovono la stabilità del DNA. Ogni telomero, al concepimento, è lungo 15000 unità (basi). Ad ogni divisione una parte di questi pezzi non viene copiata, così la lunghezza del telomero a poco a poco diminuisce: i telomeri, quindi, diventano più piccoli, finché la cellula perde la capacità di dividersi e muore. Nel nostro corpo, tuttavia, c’è un enzima che inibisce l’accorciamento dei cromosomi: la telomerasi, studiata da tre ricercatori, che hanno vinto insieme il premio Nobel nel 2009, Elizabeth Helen Blackburn, Jack W. Szostak e Carol Greider. Questo enzima è in grado di inibire l’accorciamento dei cromosomi e di sintetizzare sempre nuove sequenze telomeriche rallentando o inibendo l’invecchiamento cellulare. Proprio per verificare questo, la ricerca è attiva nel trovare sostanze che attivino la telomerasi. Recenti studi hanno dimostrato che fattori di rischio associati con il nostro stile di vita influenzano negativamente l’attività della telomerasi. Cambiamenti positivi nel nostro stile di vita aumentano enormemente l’attività di questo enzima e rafforzano i meccanismi correttivi nelle cellule umane.
Quali sono i meccanismi biologici che presiedono all’invecchiamento?
Oltre alla funzione dei telomeri, tra i meccanismi più rilevanti nel promuovere l’invecchiamento vi è la produzione di radicali liberi dell’ossigeno. Secondo la teoria dei radicali liberi la velocità dell’invecchiamento è legata alla produzione mitocondriale di queste specie reattive dell’ossigeno. L’ossigeno si combina con l’idrogeno (processo di ossidazione) formando molecole instabili «affamate» di elettroni, i radicali liberi, che per procurarsi l’elettrone mancante attaccano vari costituenti della cellula. La loro produzione è funzione del metabolismo individuale, dell’alimentazione, dello stile di vita e del carico di aggressioni che subiamo (inquinamento, raggi solari UV, alcol, fumo, diete povere in antiossidanti). Sono in grado di danneggiare le cellule, agendo su vari bersagli, quali membrana cellulare, mitocondri, nucleo, DNA, proteine ed enzimi vari, fino a provocare anche la morte cellulare. Il radicale superossido (O2–•) o quello idrossilico (•OH), e il radicale ossido nitrico (NO•), possono reagire con quasi tutte le molecole organiche provocando una propagazione a catena di reazioni fino a che non si forma un composto stabile. Un’altra pietra angolare del processo d’invecchiamento è l’infiammazione ed è stato coniato da uno scienziato italiano, Claudio Franceschi, il neologismo inflamm-aging. L’infiammazione è una complessa reazione di difesa che normalmente s’instaura in conseguenza di fattori di stress fisiologici e non fisiologici. È stata ipotizzata una soglia individuale nella capacità di fare fronte agli stress, e quando l’infiammazione eccede questo livello, avviene la transizione verso l’invecchiamento cellulare, mediata dal danno ossidativo, poiché nel corso di processi infiammatori la sovrapproduzione e/o il rilascio incontrollato dei radicali liberi (ROS) e dell’azoto sono molto elevati.
È possibile fermare o rallentare l’invecchiamento?
Un gruppo di ricercatori del Dana-Farber Cancer Institute è riuscito a invertire parzialmente, in un gruppo di topi, i danni degenerativi correlati all’età. Hanno creato dei topi ingegnerizzati nei quali il gene per la telomerasi (Tert) fosse dotato di un «interruttore», in modo da poterla attivare e disattivare a piacimento. Disattivando l’enzima, sono riusciti a provocare un invecchiamento molto precoce nei topi. Successivamente, riattivando la telomerasi, hanno osservato un nuovo aumento della massa cerebrale e di quella dei testicoli, e il recupero di funzioni cerebrali in precedenza deteriorate durante l’invecchiamento rapido. Un altro recente approccio della ricerca per fermare l’invecchiamento, ha utilizzato la capacità del sangue dei topi giovani di contrastare gli effetti dell’invecchiamento, e addirittura di invertirli quando questo viene infuso nell’organismo di esemplari anziani. La tecnica utilizzata si chiama parabiosi eterocronica: unisce i sistemi circolatori di due animali geneticamente identici, ma di età differente, in modo che condividano la stessa fonte di sangue. Dopo quattro settimane di questo trattamento, gli studi hanno evidenziato come il topo più anziano dimostri sensibili miglioramenti a livello muscolare e cerebrale, e le cellule staminali presenti in queste aree inizino a produrre neuroni e tessuto muscolare.
I grandi studi di popolazione recenti ci ricordano però che la migliore medicina per invecchiare bene consiste nel curare il nostro stile di vita. Uno in particolare, pubblicato proprio in questi giorni sulla prestigiosa rivista Lancet, condotto dall’Università canadese McMaster in 17 nazioni su 130.000 persone (di età compresa fra i 35 e i 70 anni) seguite per sette anni, ha dimostrato che l’attività fisica, non solo eseguita in palestra, ma anche legata al semplice camminare o fare le pulizie domestiche (30 minuti al giorno per cinque giorni) riduce del 20% il rischio di malattie cardiache e del 28% quello di mortalità (percentuale che migliora se si aumenta l’attività fisica), in maniera omogenea in tutte le fasce di reddito. Un altro suggerimento ci viene dallo studio Berlin Aging Study, che ha seguito per 10 anni circa 500 anziani, dimostrando differenze significative nella durata della vita e nell’integrità del nostro sistema cognitivo in chi ha esercitato l’attitudine a occuparsi degli altri (Helping behavior). Bisogna vivere una vita “mobile” non solo dal punto di vista motorio, ma anche mentale. Non richiudersi in se stessi, aprire la propria vita agli amici, vecchi ma anche nuovi, non rinunciare ai propri ideali per opportunismo e trovare sempre una pausa nella nostra vita vorticosa, per capire dove stiamo dirigendo le nostre forze vitali. Accudire ai nipoti o a qualcuno che ne ha bisogno, oltre a renderci persone migliori ci ritorna come beneficio personale. Anche studiare la musica o suonare uno strumento, meglio se per molti anni, offre benefici nel preservare il sistema cognitivo anche iniziando in tarda età. La ricerca scientifica ha da tempo confermato il ruolo fondamentale che giocano l’istruzione, l’immaginazione e la ricchezza espressiva nella conservazione di una giovinezza interiore che si riflette inevitabilmente sul processo di invecchiamento. Tutti e tre i poli – benessere fisico, salute mentale, integrazione in una coesa organizzazione sociale – sono fondamentali a ogni stadio della vita, e vieppiù nella vecchiaia.
In futuro, fin quando potremo arrivare a vivere?
Teniamo presente che viviamo già nel futuro. Le persone che vivono oggi sono biologicamente più giovani di quelle che cento anni fa avevano la stessa età, perché abbiamo cure sanitarie e condizioni igieniche buone fin dalla nascita, possibilità di istruirci, di scegliere una giusta alimentazione, di praticare attività fisica, tutti fattori che ci aiutano a vivere più a lungo e a rimanere biologicamente più giovani della nostra età anagrafica.
Il modello matematico realizzato dal gruppo coordinato da Jan Vijg, sulla base delle informazioni contenute in banche dati come lo Human Mortality Database, ha dimostrato che l’età media di sopravvivenza è aumentata progressivamente, soprattutto nei paesi sviluppati, come Francia, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, che consentono migliori condizioni di vita, fino a stabilizzarsi intorno al 1980. Tuttavia l’analisi ha anche evidenziato che la speranza di vita diminuisce dopo i 100 anni. Questa constatazione insieme al fatto che il picco raggiunto negli anni ’90 dall’essere umano più longevo di tutti i tempi, è quello della francese Jeanne Calment (morta nel 1997 a 122 anni), ha suggerito ai ricercatori che la durata della vita di un individuo è soggetta a un limite naturale, legato anche al suo patrimonio genetico. Altri ricercatori con diverso algoritmo matematico sostengono che nel 2070 si potrebbe arrivare a vivere 125 anni, per esempio in Giappone, dove l’incremento delle donne ultracentenarie è in continuo aumento. Credo che non bisogna focalizzarsi solo sulla durata della vita, ma sulla sua qualità. Tutti gli sforzi della ricerca dovrebbero non perdere di vista questo che è l’obiettivo più importante per tutti noi. Grazie alle nuove scoperte e ai miglioramenti della medicina, della genetica, dei trapianti, delle nanotecnologie e della robotica possiamo sperare in una vecchiaia più serena.