I promessi sposi, Capitolo 5: trama riassunto
Fra’ Cristoforo arriva alla casa di Agnese e Lucia: non appena lo vede, quest’ultima scoppia in pianto, mentre la madre riassume all’uomo tutta la triste vicenda dei soprusi di Don Rodrigo e del matrimonio rimandato. Il frate, che durante il racconto non nasconde la sua rabbia (“diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi”), assicura alle donne il proprio aiuto.
Dopo aver soppesato tutte le possibilità – spaventare o far vergognare Don Abbondio per la sua viltà, chiedere aiuto al cardinale arcivescovo – Fra’ Cristoforo giunge alla conclusione che il modo migliore per cercare di risolvere la situazione sia affrontare direttamente Don Rodrigo per “tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile”.
Nel mentre anche Renzo è giunto a casa delle due donne; rassicurato sul fatto che Fra’ Cristoforo è intenzionato ad aiutarli, lo ringrazia per non essere, come tanti altri, “di quelli che dan sempre torto a’ poveri”, ma si lascia sfuggire di aver cercato di risolvere la faccenda con l’aiuto della violenza, cercando il supporto di certi amici che pareva fossero disponibili sempre a dargli manforte contro qualsiasi nemico. “Bastava che mi lasciassi intendere”, racconta, e costoro gli avevano promesso che qualsiasi nemico “avrebbe finito presto di mangiar pane”, salvo poi tirarsi indietro quando l’occasione di aiutarlo si era davvero presentata.
Indispettito da quelle parole, il religioso lo redarguisce di aver cercato di metter fine a un atto di violenza con un altro atto di violenza, invece di aver riposto la propria fiducia in Dio: “Renzo! vuoi tu confidare in me?… che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?”
Ricevuta da Renzo la promessa di lasciar perdere ogni atto sconsiderato e di farsi guidare da lui, Fra’ Cristoforo garantisce al ragazzo e alla promessa sposa che sarebbe andato di persona a parlare con Don Rodrigo.
E in effetti già la mattina seguente si reca “verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare”, ossia presso il palazzotto che fa da dimora a Don Rodrigo. Si tratta di un palazzo che sorge isolato su un’altura, a qualche chilometro sia dal paese dove vivono Renzo e Lucia sia dal convento. Ai piedi del palazzo c’è il villaggio con le umili abitazioni dei contadini che sono al soldo di Don Rodrigo, come lui abituati a una vita di violenza e brutalità, “omacci tarchiati e arcigni”, “vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute” e persino i bambini con “un non so che di petulante e di provocativo”.
Davanti alla porta d’ingresso del palazzo, sui cui battenti sono inchiodati due avvoltoi – “con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto” – ci sono due bravi di guardia, uno dei quali fa subito entrare fra’ Cristoforo.
Don Rodrigo è seduto a tavola con il cugino, Don Attilio, e svariati altri signori, tra cui l’avvocato Azzeccagarbugli e il podestà; al frate viene detto di accomodarsi e gli viene servita una coppa di vino.
In attesa di poter parlare a tu per tu con Don Rodrigo, Fra’ Cristoforo si trova ad assistere al banchetto e ai discorsi che vi si svolgono. In particolare, i commensali stanno dibattendo un “punto di cavalleria”, ossia se sia giusto o meno prendersela con colui che porta la notizia di una sfida: “Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore”. Essendoci disaccordo tra i partecipanti al pranzo, viene chiesto al frate di esprimere il suo parere, e Fra’ Cristoforo risponde che “il mio debole parere sarebbe che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate.” Naturalmente tale risposta non soddisfa i partecipanti, che continuano a dissertare sulla questione, fino a che non si introducono nuovi argomenti, sempre conditi da brindisi e mescite di vino: la successione al ducato di Mantova, prima, e a seguire la carestia che sta imperversando proprio in quel periodo. A tal proposito, l’opinione prevalente tra i partecipanti è che non esista alcuna carestia, che siano piuttosto i fornai che nascondono i grano e che la questione vada risolta seguendo la “giustizia sommaria” di “pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.”
“Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi”. E in mezzo a tutti questi discorsi sconclusionati, Fra’ Cristoforo rimane immobile “senza dar segno d’impazienza nè di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato”.
Don Rodrigo, dunque, comprende che non può liberarsi del frate e che, benché controvoglia, è obbligato a dargli retta: si alza quindi da tavola e fa cenno all’uomo di seguirlo in un’altra stanza.
Silvia Maina