di Anton Čechov
«È teatro, ma ha la forza narrativa e l’indagine psicologica di un romanzo, Zio Vanja. Perché i personaggi sono degli esemplari perfetti delle nevrosi prodotte dalle insoddisfazioni e dalle frustrazioni, nell’Ottocento come oggi.
Nella tenuta di campagna troviamo il presuntuoso professor Serebrijakov; la sua figlia di primo letto, Sonja, bruttina; la seconda giovane e bella moglie Elena; il fratello della prima moglie, Vanja, con la madre Marja, il medico Astrov e qualche personaggio minore. Mentre si prepara un temporale, il professore lamenta gli acciacchi della vecchiaia, Sonja è segretamente innamorata del dottor Astrov, che non la ama e che invece ama Elena, come anche Vanja. Marja ha stima del professore, che invece nessun altro può sopportare, compresa la moglie. Elena rifiuta la corte di Vanja, si lascia baciare da Astrov (Vanja vede tutto), ma non lascerà il marito per non perdere sicurezza e serenità. Il professore vorrebbe vendere la tenuta e comprarsi una casa in Finlandia. Vanja, inferocito, gli chiede dove dovrebbero andare a stare tutti gli altri, e lo rimprovera di non avere alcuna gratitudine; lui ha lavorato tutta la vita per permettere al professore di vivere con larghezza e studiare. «Tutti i tuoi lavori non valgono un centesimo! […] Tu hai fatto scempio della mia vita! Io non ho vissuto, non ho vissuto!» In un culmine di risentimento gli spara, ma lo manca. Vorrebbe poi suicidarsi, ma viene fermato. Il professore e la moglie partiranno, dopo essersi riconciliati con Vanja; nulla cambierà. Vanja e Sonja continueranno a lavorare per far quadrare i conti della tenuta. Vanja senza più illusioni, Sonja con la speranza di trovare gratificazioni nella vita ultraterrena.
Nevrosi e frustrazioni. Serebrijakov è un professore universitario in pensione, che soffre della mancanza di un ruolo sociale, dello scarso successo dei suoi studi, della povertà di mezzi e sublima le sue insoddisfazioni in una serie di malattie psicosomatiche. Elena è pigra, indolente, viziata dall’abitudine a contare sulla propria bellezza, è stanca del marito che non ama più, ma non è più così giovane da immaginare di poter cambiare vita; si irrita per la insistente corte di Vanja, si compiace delle avance di Astrov, ma alla fine vuole solo fuggire dal disagio che le provoca la tensione che si è creata nella fattoria. Astrov si sente un medico fallito, per la mancanza di tempo e di mezzi per fare meglio il suo mestiere, e si consola bevendo; sa che Sonja lo ama ma non ne è attratto, vorrebbe strappare Elena al professore, ma non ci riesce. Sonja sa di non essere attraente ma soffre per l’indifferenza di Astrov, si rassegna a un’esistenza incolore al servizio degli altri e si consola con la religione. Vanja, infine, è insieme sottomesso e ribelle, amante ardente e innamorato respinto, con il rimpianto di non essersi dichiarato quando era in tempo per farlo. Vanja vorrebbe cambiare tutto, ma anche conservare la tenuta com’è: è l’uomo dell’impotenza, delle frustrazioni silenziose e dei risentimenti tardivi.
Tutti i personaggi, in qualche modo, hanno buoni motivi per essere insoddisfatti, tutti vorrebbero cambiare ma non possono, tutti aspirano a una felicità che non hanno avuto. Vanja perché non ha che sogni: «Quando manca una vita vera, allora si vive di miraggi. È sempre meglio che niente». Sonja perché sa di non piacere: «Che cosa terribile essere brutta!». Neanche Astrov, che pure è molto impegnato nel suo lavoro di medico di campagna, ha aspettative: «Sono invecchiato, ho lavorato troppo, sono involgarito, i sentimenti si sono spenti». C’è, nell’immobilismo della tenuta, nell’equilibrio delle passioni trattenute, nei conflitti sopiti, nei confronti accesi, la stessa violenza promessa e presto dissolta del temporale estivo. Vanja e Sonja, le vittime dell’egoismo di Serebrijakov, si rassegnano alla loro banalità quotidiana con la consapevolezza di non avere prospettive. Non c’è mai stato un momento nel quale la loro vita avrebbe potuto migliorare; peggiorare sì, ma nemmeno questo è accaduto.
A guardarne solo la superficie Zio Vanja rischia di sembrare un balletto dei sentimenti, in cui nessuno ama la persona giusta. In effetti è il dramma dell’immobilismo borghese, della perdita di slancio vitale, della mancanza della forza d’animo necessaria per operare modificazioni significative in una vita vuota e monotona. La rappresentazione della quotidianità costringe a fare i conti con dialoghi banali, rituali meschini, ruoli sclerotizzati. Non succede quasi nulla, ma il quadro dei fallimenti personali, la morte dei sentimenti di tutti i protagonisti serve a Čechov a fare una spietata autopsia su quello che ne rimane. La dura rappresentazione di una struttura sociale in dissoluzione.»
tratto da I cento libri che rendono più ricca la nostra vita di Piero Dorfles, Garzanti