
Nell’Introduzione al mio libro, ne do questa definizione: Wonderland è «una terra di racconti meravigliosi, narrati con i più potenti mezzi di comunicazione a un pubblico sempre più numeroso e sempre desideroso di ascoltarli: le parole dei romanzi o delle trasmissioni radio, le figure dei fumetti, le immagini in movimento del cinema o della televisione, i suoni delle hit del momento offrono divertimento, brivido, sollievo, consolazione, proiettando il pubblico nel passato, nel futuro, nel mito o in selezionate declinazioni della contemporaneità». In altri termini: Wonderland è lo spazio collettivo occupato dalla cultura dell’intrattenimento, del divertimento, del tempo libero, così come si forma negli USA sin dagli anni trenta del XX secolo.
Tuttavia è bene tenere in considerazione due cose. La prima: lo spazio della cultura di massa non è monoliticamente omogeneo – come ha pensato a suo tempo Theodor Adorno –, ma è articolato in sezioni, stili e orizzonti etici vari e diversi. La seconda: questo spazio ha una sua storicità, cioè cambia forma nel corso del tempo, per spinte dinamiche interne ed esterne. Le fasi storiche di questo sviluppo sono essenzialmente tre. Una va dagli anni trenta agli anni cinquanta del XX secolo, e vede il formarsi di un sistema metanarrativo dominante, che attraversa i media e i generi più vari: nei film hollywoodiani, nei comic books, nei radiodrammi, nelle soap opera, nelle sitcom, nelle pop song, si raccontano storie articolate intorno ad alcuni snodi essenziali: il bene e il male sono nettamente distinti; le storie devono invariabilmente finire bene; gli eroi «buoni» sono sempre vincenti; la violenza ha una valorizzazione positiva, quando è impiegata per difendere il «bene»; la sessualità e l’erotismo sono completamente rimossi; le disuguaglianze di genere, di classe e di razza sono accolte come «normative». Naturalmente non tutte le componenti si ritrovano nelle stesse storie, né hanno il medesimo peso. In una commedia romantica, o in un cartoon come Cenerentola, l’happy ending riguarderà il superamento degli ostacoli che si frappongono al coronamento di un amore romantico; in una storia d’azione, in cui una qualche minaccia si abbatte su una tranquilla comunità, l’happy ending sarà assicurato dall’intervento di un eroe (talora di un supereroe) che – dopo varie peripezie – alla fine schiaccia il nemico e restituisce ordine e armonia alla comunità minacciata. E così via, con vari intrecci e diverse varianti, che sono tuttavia eticamente coerenti tra loro.
Se questo è l’orizzonte dominante, non è l’unico che esiste: in questo periodo ci sono altre declinazioni della cultura di massa, presenti soprattutto nel campo della popular music (il blues; parte del country; il folk militante; il R&B), che, pur essendo scarsamente collegate tra loro, sono tuttavia accomunate da modelli narrativi ed etici totalmente diversi da quelli mainstream: dalle storie che vi si raccontano, ci viene incontro un intero underworld di marginali, sfruttati, violenti, alcolizzati, drogati – uomini e donne invariabilmente destinate a vivere storie infelici; le loro storie non sono quasi mai raccontate con intenti moralistici; la neutralità affettiva è la cifra principale di questi stili «altri» e la alterità delle loro storie nasce dal puro e semplice gesto di raccontare tragiche esperienze che la moralità mainstream invece condanna senza appello oppure rimuove del tutto.
A questa prima macro-configurazione, ne segue una seconda, attiva tra anni sessanta e settanta, che ha una conformazione diversa. Da un lato la cultura di massa mainstream, cioè quella egemone, conserva essenzialmente le sue caratteristiche principali, così come sono emerse nei decenni precedenti. Ma adesso è affiancata da un sistema culturale complesso e meglio articolato che in precedenza, che nasce da un processo incessante di ibridazione, in cui forme stilistiche e narrative proprie delle comunità afroamericane si fondono con modalità espressive della popular culture bianca: è un processo di ibridazione che sembra non avere fine, e che dà vita al rock ‘n’ roll, alla letteratura beat, al rock, alla Hollywood Renaissance, al teatro off Broadway, alla pop art. Ciascuna di queste esperienze, a suo modo, recupera, rimonta, ri-racconta le storie già narrate dagli stili matrice che danno vita a questo processo generativo (il blues, il country, il R&B), aggiungendo inoltre elementi nuovi, sino a costruire un sistema narrativo del tutto alternativo a quello mainstream.
Questa seconda macro-configurazione ha una durata relativamente breve: dalla fine degli anni settanta ne prende forma una terza nella quale una rinnovata cultura mainstream (fatta dai blockbusters hollywoodiani, dalle scelte strategiche delle megacorporations mediatiche, da nuove produzioni per nuovi canali mediatici – pay-tv, videogiochi, internet, siti on line) si contrappone a frammentate riserve indiane, piuttosto sconnesse le une dalle altre, in cui si coltivano estetiche e narrazioni irriducibili ai modelli mainstream. Del sistema metanarrativo controculturale che si impone negli anni 1967-1975 restano solo schegge scarsamente sconnesse, che si susseguono nelle produzioni musicali alternative (dal punk, al grunge, all’hip hop, all’indie o all’alt-rock), nella produzione cinematografica più sperimentale, nelle pratiche sub-culturali più borderline (club cultures, rave parties, goth tribes, ecc.). La diversità fondamentale rispetto alla controcultura della fine degli anni sessanta consiste nel fatto che queste produzioni alternative non costituiscono una rete, cioè non possiedono solide relazioni intertestuali che le colleghino e diano vita a un universo estetico e metanarrativo coerente; né riescono ad attrarre un pubblico vasto, come accadeva invece per le produzioni controculturali della fase precedente.
Quando e come nasce il soft power americano?
Soft power è un’espressione coniata dal politologo Joseph S. Nye e sta a indicare la capacità che un paese ha di legittimare la sua egemonia politica, economica e militare, attraverso forme di propaganda o produzioni culturali che rendano attraente l’immagine di quel paese e del suo sistema di valori. Nel discutere di soft power, Nye si è riferito esplicitamente agli USA, osservando che fra i mezzi che una grande potenza può impiegare per rendere seducente la sua immagine c’è l’azione diplomatica, come c’è anche l’impatto della sua cultura di massa. Ora, le produzioni culturali di massa non sono necessariamente dipendenti dai desideri o dagli auspici dei governi; e talora non sostengono affatto il sistema di valori che orienta il governo di un paese; in questo caso esercitano un effetto inverso, giacché delegittimano le sue pretese di egemonia. Le produzioni controculturali degli anni sessanta – musica rock, Hollywood Renaissance, fumetti underground, teatro off Broadway – hanno descritto i lati oscuri e devastati della società statunitense, oppure hanno fatto appello a istanze pacifiste, criticando direttamente ed esplicitamente la guerra nel Vietnam: di conseguenza, l’innegabile appeal di queste produzioni si è esercitato su sezioni delle opinioni pubbliche europee o latino-americane che hanno trovato in questi materiali delle ragioni per alimentare un loro più o meno determinato atteggiamento antiamericano. Ciò non toglie, comunque, che la cultura di massa statunitense nelle sue varie declinazioni – mainstream, borderline o contronarrative – abbia esercitato un’influenza enorme sulle variegate opinioni pubbliche occidentali, specie dopo la fine della Seconda guerra mondiale, grazie alle sue qualità tecniche, alla spettacolarità delle sue narrazioni e alle grandi risorse finanziarie delle case di produzione – cinematografiche, discografiche, radio-televisive o editoriali – che le hanno promosse.
Attraverso quali strumenti si diffonde la cultura di massa mainstream?
Tutti i media di massa concorrono egualmente alla diffusione della cultura mainstream: quindi stampa, cinema, radio, televisione, musica, spettacoli teatrali, galassia-internet. Il fatto che i mezzi di comunicazione siano così diversi non deve suscitare dubbi sulla natura integrata e metanarrativa della cultura mainstream, giacché una delle sue caratteristiche fondamentali è l’intermedialità, ovvero la possibilità di spostare la stessa storia, lo stesso format, gli stessi personaggi (e quindi lo stesso orizzonte etico) da un mezzo di comunicazione a un altro. Per fare un solo esempio, degli innumerevoli che si possono offrire: The Lone Ranger è una storia che esordisce come serial radiofonico e va in onda dal 1933 al 1954; nel 1938-1939 la Republic Pictures Corporation ne fa due serial cinematografici; dal 1949 al 1957 ne viene trasmessa una serie televisiva; per quattro volte diventa lungometraggio cinematografico (1958; 1961; 1981; 2013, quest’ultimo con Johnny Depp): quindi ci sono dei momenti in cui la storia è presente contemporaneamente su più mezzi di comunicazione che hanno un appeal socialmente o generazionalmente diverso (i fumetti attraggono un pubblico di teenagers; i film a produzione hollywoodiana richiamano un pubblico generazionalmente più ampio e variegato; ecc.). In questo caso non c’è necessariamente una strategia programmata: capita semplicemente che a un certo punto una storia venga giudicata meritevole di una nuova chance e venga rilanciata su un medium diverso da quello originario. In altri casi, invece, l’intermedialità è strategicamente pianificata: è ciò che capita con le produzioni Disney: per dire, Cenerentola, che esce nelle sale nel 1950 come lungometraggio animato, viene poi riproposta nei cinema statunitensi nel 1957, nel 1965, nel 1973, nel 1981 e nel 1987; viene poi tradotto in Vhs e in Dvd, oltre che in libri, gadget e parchi a tema e ha due sequel animati, il primo dei quali nel 2002, direttamente su Vhs e poi su Dvd (Cenerentola II – Quando i sogni diventano realtà), e il secondo nel 2007, direttamente in Dvd (Cenerentola – Il gioco del destino); dopodiché nel 2015 viene lanciato il sontuoso remake live action, diretto da Kenneth Branagh. In altri casi ancora, infine, è più opportuno parlare di transmedialità (Henry Jenkins), per sottolineare che la riproduzione dello stesso ambiente narrativo su media diversi è pianificato da un singolo soggetto produttivo, ed avviene in simultanea: un esempio di questa strategia è offerto dalla trilogia filmica The Matrix, dei fratelli (adesso sorelle) Wachowski (1999-2003): in parallelo ai film, i due registi hanno lanciato un ampliamento delle storie raccontate al cinema attraverso la loro proliferazione su altre piattaforme mediatiche; e così sono usciti The Animatrix (2003), antologia di corti animati, di novanta minuti, realizzati da autori giapponesi; The Matrix, serie a fumetti, col contributo di diversi importanti autori, prima pubblicata on line, e poi anche in cartaceo; Enter the Matrix, un videogioco uscito nel 2003 (a cui se ne sono aggiunti altri due nel 2005).
È chiaro che l’idea della proliferazione punta a fidelizzare il pubblico e ad ampliare l’audience, obiettivi che possono essere raggiunti non solo per il semplice fatto che le storie vengono replicate, ma – come dicevo prima – anche grazie al diverso appeal che i vari mezzi di comunicazione esercitano su differenti segmenti di pubblico. Ciò detto, è chiaro che tutte queste operazioni hanno come obiettivo fondamentale la collocazione di un prodotto sul mercato con l’intento di ricavarne introiti monetari che – nel caso delle operazioni che hanno successo – sono assolutamente monumentali.
Questo aspetto non deve essere affrontato con moralismo. Il fatto che una produzione sia concepita per il mercato, che passi attraverso mezzi di comunicazione di massa, che punti a «scucire» la massima quantità di soldi al pubblico, può non avere alcun effetto negativo sulla qualità di quella produzione. Non solo: anche le produzioni controculturali hanno le stesse caratteristiche: per quanto innovative, esotiche, trasgressive (almeno per il senso comune di una certa epoca), anche queste produzioni sono concepite e promosse con gli stessi intenti delle produzioni mainstream: d’altro canto, questo è il presupposto necessario perché possano diventare produzioni di successo: l’intera costellazione contronarrativa degli anni sessanta-settanta ha, in effetti, questa caratteristica: nella maggior parte dei casi è prodotta, promossa e sostenuta da majors discografiche, cinematografiche o editoriali, ed è ciò che consente a molte di queste produzioni di collocarsi ai primi posti nelle hit parade di settore.
Quali caratteristiche contraddistinguono la cultura mainstream dei film di Hollywood?
In un certo senso le caratteristiche della cinematografia mainstream appaiono con maggior evidenza nei b-movies di successo, che non nei grandi capolavori, che hanno un respiro proprio e sfuggono a categorizzazioni troppo rigide. Viceversa, la relativa prevedibilità è uno dei tratti caratteristici dei film hollywoodiani più evidentemente mainstream, una prevedibilità anticipata già dal sistema dei generi, attraverso il quale il pubblico può distinguere – con relativa sicurezza – un western da una commedia sentimentale, un thriller da un melodrama, un film d’azione da un cartoon; in genere l’identificazione di un genere deriva da alcune semplici caratteristiche principali – l’ambientazione della storia nel tempo e nello spazio, la natura del protagonista e i compiti che gli sono assegnati – che di solito sono scrupolosamente rispettate dalle narrative della cultura di massa. Ed è proprio tale strutturazione che modella le aspettative del pubblico, il quale, in tal modo, può facilmente orientarsi verso il genere che predilige. Dopodiché, all’interno di un film di genere, le situazioni, i personaggi, gli sviluppi e le risoluzioni, sono tutti aspetti piuttosto rigorosamente standardizzati. Il processo di standardizzazione prodotto dalla geografia dei generi intende creare nel pubblico degli orizzonti d’attesa che sono estremamente limitati. Lungi dall’essere percepita come una mancanza, questa prevedibilità delle strutture narrative può essere accolta con piacere da gran parte degli spettatori, che possono lasciarsi andare alla seduzione delle immagini o al ritmo frenetico della storia, senza preoccuparsi di altro, tanto sanno già – a grandi linee – verso quale direzione si muove la macchina narrativa.
Se ci si limita a osservare le narrazioni eroiche o supereroiche, gli elementi ricorrenti sono una struttura etica manichea, con una netta distinzione fra bene e male; una storia che racconta di una comunità messa in pericolo da qualche «agente del male» (che può avere qualunque declinazione spazio-temporale: indiani; ladri di cavalli; scienziati pazzi; criminali; nazioni nemiche); e del suo salvataggio da parte di qualche eroe vincente (anche qui, con ogni possibile declinazione spazio-temporale); mentre la violenza impiegata dai «cattivi» è un’espressione del male assoluto, la reazione violenta degli eroi salvifici è liberatoria e legittima; salvo rare eccezioni, i rapporti di genere o di razza vengono descritti in forma esplicitamente o implicitamente gerarchica; e infine, la storia si orienta verso un inevitabile lieto fine in cui il bene trionfa (sia pure con qualche dolorosa perdita) e il male soccombe.
Ora, mi rendo conto che a uno schema di questo genere si possono senz’altro trovare eccezioni; tuttavia sono convinto che la grande maggioranza dei film d’azione hollywoodiani che riscuotono i favori del pubblico seguono la sequenza che ho appena sintetizzato. Inoltre: mi è anche chiaro che questo schema vale soprattutto per i film mainstream degli anni trenta-sessanta; per film più recenti (che so: Avatar; Inglorious Basterds; Django Unchained) aspetti-chiave come per esempio le gerarchie di genere o di razza vengono – almeno in apparenza – del tutto rovesciate. Nondimeno: anche in grandi successi recenti, come quelli appena evocati, tutti gli altri aspetti chiave possono facilmente essere rintracciati. Inoltre, anche per quanto riguarda le relazioni di razza e di genere, il rovesciamento a volte è più apparente che reale. Sia in Avatar che in Django Unchained la comunità che si difende è «altra» rispetto al classico modello wasp (white-anglo-saxon-protestant): si tratta infatti da un lato dei Na’vi, dall’altro degli afroamericani; e tuttavia in entrambi i casi la comunità «non bianca» ha comunque bisogno di una guida bianca per difendersi dall’aggressione: si tratterebbe del «Messiah Complex», come lo definisce Dave Brooks nella sua recensione ad Avatar pubblicata dal «New Yorker», January 7, 2010; in Avatar il «messia bianco» è Jake Sully, un aggressore che grazie alla sua trasformazione virtuale in membro della popolazione Na’vi, ne apprezza e condivide i valori fino a diventare perfino più bravo dei veri e propri Na’vi nel combattere gli imperialisti bianchi; in Django Unchained, il protagonista afroamericano ha bisogno del dottor Schultz come suo liberatore e mentore. Quanto alle figure femminili, Broomhilda di Django Unchained è la più tipica delle «donzelle in pericolo»; Soshanna Dreyfus (Inglorious Basterds) e Neytiri (Avatar), certamente più attive di Broomhilda, vestono comunque i panni di «principali aiutanti» più che di assolute protagoniste.
Considerazioni di questo tipo, naturalmente, dovrebbero essere ripetute per ciascuno dei generi cinematografici principali, cosa assolutamente impossibile qui, se non evocando almeno la struttura delle commedie sentimentali, che nel corso del tempo può cambiare ritmo, ambientazione, peso attribuito alle figure femminili o alle presenze omosessuali, ma che poggia su un plot tenacemente persistente: una ragazza incontra un ragazzo; il loro amore è ostacolato da impedimenti esterni; oppure, in prima battuta, i due sembrano respingersi; ma poi gli ostacoli sono superati, oppure la repulsione si trasforma in irresistibile attrazione, e l’amore trionfa, in finali invariabilmente zuccherosi, per cui vale la pena di spendere il mantra del «…and they lived happily ever after…».
In che modo si sviluppa, dopo la seconda guerra mondiale, una cultura alternativa?
Fondamentale è l’esistenza di sezioni di pubblico potenzialmente ricettive verso proposte diverse da quelle offerte dalla cultura di massa mainstream, dinamica particolarmente evidente nello spazio delle culture giovanili. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e il secondo dopoguerra, negli USA ancor più che in Europa, appare evidente che la scolarizzazione di massa sta creando un gruppo socio-generazionale specifico e distinto – i teenagers, o più in generale i giovani. Lungi dall’essere un gruppo compatto, anche l’universo giovanile è attraversato da linee di frattura che da un lato sono quelle classiche (la razza; il genere; la classe), da un altro lato sono invece specifiche e distinguono chi è in da chi è out; oppure chi va a scuola da chi è già costretto a lavorare; o ancora chi ha una buona formazione educativa da chi «studia» alla scuola delle gang di strada. In linea generale, sono i gruppi giovanili marginali quelli più inclini a ricercare forme espressive insolite o esotiche in grado di esprimere il loro disagio, la loro inquietudine, le loro speranze frustrate.
Non meno importante è la nascita e la diffusione del movimento per i diritti civili, con il quale le comunità afroamericane del centro-sud-est degli USA rivendicano apertamente e pubblicamente, dopo secoli di sottomissione, il loro diritto a essere cittadini statunitensi a pari titolo di tutti gli altri. È dal movimento guidato da Martin Luther King che prendono spunto gli studenti bianchi di alcune università, che danno vita a organizzazioni politiche studentesche come SDS.
Infine, lo scoppio della guerra in Vietnam, combattuta da un esercito di leva, acuisce l’inquietudine di molti giovani americani e li orienta verso posizioni radicali o pacifiste o antisistema.
Ora, davanti a questi tre processi si pongono due dinamiche autonome ma decisive. In primo luogo, nel secondo dopoguerra, il nuovo protagonismo degli afroamericani incoraggia produttori e musicisti, ma anche poeti e letterati, bianchi a dialogare con le produzioni culturali dei neri d’America, e in particolare col blues, col jazz, col R&B. Ne emergono in rapida sequenza forme culturali ibridate (dal r’n’r alla letteratura beat, dalla musica beat al rock) che recuperano e rimontano, in spazi estetico-espressivi nuovi, le storie popolate dall’underworld di perdenti che era proprio degli stili matrice che stanno all’origine di questo processo (il blues, in primo luogo); oppure che assumono come propri gli atteggiamenti dei musicisti che suonano il be bop o il free jazz, e che fanno dell’autenticità e dell’innovazione una sorta di imperativo etico. Ne deriva una costellazione che ha al suo centro la nuova musica rock che emerge – come tale – dal 1967 in avanti, e che si irradia anche verso altri media (cinema – Hollywood Renaissance; teatro – off Broadway; arti grafiche – pop art) attraverso solidi rapporti intertestuali. Quindi la costellazione controculturale, e in particolare la musica rock, offre a giovani ragazzi e ragazze che a vario titolo rifiutano la cultura mainstream e i suoi valori, un sistema etico se non alternativo, almeno diverso, aperto all’esplorazione, capace di sorprendere e di porre nuovi interrogativi.
Con tutto ciò, si sbaglierebbe radicalmente nel credere che esista un unico mondo giovanile d’opposizione, giacché i giovani marginali si raggruppano in comunità subculturali distinte e talora anche assai diverse tra loro: rockers, bikers, beats, teds, hippies, mods, politicos, per non parlare dei molti che si sentono lontani dalla cultura mainstream, pur non appartenendo davvero a nessuno di questi segmenti. Ciò che consente a tutti questi ragazzi e ragazze di trovare uno spazio e una cultura comune è una pratica collettiva inventata nel contesto della comunità hippy di San Francisco, ovvero il festival rock. La speciale importanza del concerto rock deriva più da fattori extramusicali che da aspetti specificamente estetici e consiste nel tipo di relazione che si instaura tra musicisti e pubblico, che è sempre di carattere rituale. Con il termine «rito» qui si intende ogni atto, o insieme di atti, che venga eseguito secondo un’iterazione codificata, sebbene non necessariamente formalizzata. L’iterazione serve a fare in modo che il rito conferisca un significato speciale, in certi casi quasi trascendente, all’identità dei soggetti coinvolti. E i concerti rock hanno strutture morfologiche tali da farli considerare effettivamente dei riti di separazione, e di ri-aggregazione liminale. Sono riti di separazione perché attraverso l’esperienza del concerto ci si libera simbolicamente dell’appartenenza al «sistema», qualunque cosa indichi questo termine: la famiglia, i genitori, la scuola, la routine del lavoro, l’angoscia del non-lavoro, la minaccia della guerra, le pratiche del potere politico o religioso dominante. Sono riti di ricollocazione del sé in uno spazio liminale, che non è quello abituale, perché per il concerto si adottano un abbigliamento, un’acconciatura, una pratica corporea, una gestualità che sono specifici di gruppi (o che sono ammessi in momenti e luoghi) pensati come estranei, marginali, liminali rispetto al «sistema», e proprio per questo sentiti come ricchi di valori, di significati, di emozioni formative. Sono, infine, dei riti di aggregazione, perché attraverso il concerto si entra a far parte di un corpo sociale nuovo e particolare, di una nuova communitas, che comporta il nascere a nuova vita spirituale e sociale: si fanno amicizie; si vivono esperienze sessuali; si condivide la droga; oppure si condivide semplicemente il piacere di ascoltare della musica nuova e insolita. La natura rituale del concerto rock, enfatizzata dall’uso di LSD o di marijuana, provoca una sorta di sospensione dell’appartenenza, introducendo le ragazze e i ragazzi all’interno di un contesto sentito come integralmente «altro» rispetto alla cultura mainstream circostante. Da un lato, dunque, chi partecipa a un concerto rock e appartiene già a un circuito relazionale subculturale (hippie, biker, mod, rocker, Sds) trasferisce nel concerto la sua liminalità originaria; dall’altro lato, si trova immerso all’interno di specifiche modalità di comunicazione culturale che rinnovano l’esperienza di separazione rispetto alla società circostante. In tal modo i confini dell’appartenenza a un particolare gruppo subculturale vengono superati: chi partecipa a questi «rituali» si ritrova all’interno di un nuovo e più ampio spazio comunitario, oltre che al centro di una fittissima rete di relazioni culturali e simboliche, che rimandano non solo alle matrici contronarrative della musica blues o country, ma a anche molti altri esperimenti artistici della contemporaneità che non appartengono allo spazio della cultura di massa. Ecco che da qui si irradia la rete dei nessi intertestuali che conduce verso i film della Hollywood Renaissance, o verso musical teatrali come Hair o Oh! Calcutta!, o verso le musiche di Terry Riley e LaMonteYoung, o verso le opere letterarie di Salinger, o Philip Roth, o Henry Miller, e più lontano ancora.
In che modo la cultura di massa mainstream finisce con l’imporre la sua egemonia?
A volte un sistema (culturale, politico, religioso) si impone per le fragilità degli antagonisti, oltre che per forza propria; e questo è – almeno in parte – ciò che accade nel corso degli anni settanta, quando è la metanarrazione controculturale a implodere sotto il peso di almeno due dinamiche avverse. In primo luogo, c’è una distonia discorsiva tra le narrazioni controculturali e le forme ideologiche a cui si appellano – negli USA come in Europa – i giovani che militano nelle organizzazioni politiche della sinistra radicale. Il processo che porta alla formazione della controcultura conferisce un peso generativo particolare a stili-matrice (il blues, il jazz, lo hard country, la letteratura beat) che coltivano orizzonti etici e formazioni concettuali molto distanti da quelle che connotano le ideologie di derivazione marxista alle quali si appellano i movimenti politici radicali. Nel campo del rock, in definitiva, sono veramente pochi i gruppi che assumono posizioni di aperto endorsement per il movimento nel suo complesso o per qualche specifico partito politico. Lo stesso vale – in forme anche più nette – per la produzione cinematografica della Hollywood Renaissance. Il che crea le premesse per una incomunicabilità che, col passare del tempo, e col radicalizzarsi dei movimenti, si fa sempre più evidente. Nel loro orizzonte di attesa i giovani militanti si aspettano che gli artisti controculturali diventino dei portabandiera, o almeno degli speaker che parlino col loro stesso lessico. La ripetuta constatazione della distanza che li separa da artisti come i Doors, Frank Zappa, Santana o i Genesis viene vissuta come un tradimento; e la sensazione è acuita dall’estremo moralismo rivoluzionario che anima molti militanti; il fatto che i potenziali leader culturali non parlino il loro stesso linguaggio è già considerato grave; che poi costoro stiano sul mercato di massa, e si arricchiscano con le loro produzioni, è una constatazione che a molti risulta insopportabile. Il che, alla fine, spiega perché, in particolari contesti politici (per esempio, in Germania o in Italia) questa divergenza negli orizzonti etici conduca a dure contestazioni che talora sfociano persino in aggressioni verbali o fisiche.
Sul versante opposto, invece, anche il pubblico meno radicalizzato stenta a seguire le produzioni controculturali. Su questa area hanno un impatto molto forte gli effetti della devastante crisi economica che si abbatte sull’Occidente con la decisione presa dai paesi dell’Opec di alzare bruscamente i prezzi del petrolio (1973). La stagflazione che ne deriva mette in ginocchio le economie dell’Occidente, mettendo a repentaglio risparmi, progetti di vita, possibilità di lavoro di molti milioni di persone nell’area occidentale transatlantica. Il trauma è particolarmente forte per i baby boomers: giovani (o ex giovani) vissuti in un mondo dell’abbondanza si ritrovano quasi dall’oggi al domani a dover fare i conti con un contesto economico diventato improvvisamente minaccioso e sfavorevole. In un ambiente così mutato, molti iniziano a non aver più un così gran desiderio di immergersi in narrazioni tragiche, in storie di antieroi, in vicende sistematicamente prive di happy ending, riorientandosi così verso le produzioni mainstream.
Costoro vanno a riaggregarsi ai molti spettatori, ascoltatori, lettori che anche nel momento della massima espansione della controcultura non hanno smesso di preferire produzioni mainstrean (da Mary Poppins a Tutti insieme appassionatamente, da Berretti verdi a The Ballad of the Green Berets). Verso questo ampio segmento di pubblico si riorientano con decisione le majors hollywoodiane che dalla metà degli anni settanta in avanti riscoprono la potenza spettacolare (e commerciale) delle megaproduzioni che caricano di effetti speciali strutture narrative già strutturalmente proprie dell’universo mainstream. Da allora sono i blockbusters che spopolano al botteghino e che dominano l’immaginario, con un progressivo ritorno in forze di eroi fantasy, supereroi, superspie, audaci archeologi, eroi solitari, e così via. La strada alle costosissime super-produzioni è resa più facile dal mutamento nelle strutture produttive; l’adozione nel Regno Unito, negli USA, e poi in molti altri paesi del mondo, di politiche neoliberiste che hanno attenuato le normative antitrust, ha reso possibile la formazione di megacorporations mediatiche che inglobano in sé major cinematografiche, case discografiche, case editrici (libri, ma anche fumetti), network radio-televisivi, produzioni di Vhs, poi di Dvd, case produttrici di videogiochi, catene di giornali e periodici; questo processo, particolarmente evidente negli ultimi trent’anni, consente alle megacorps di disporre di budget colossali, necessari per sviluppare tecnologie produttive sempre più raffinate e spettacolari; inoltre consente una forte internalizzazione delle reti intertestuali e intermediali, cosicché la medesima storia può viaggiare sulle pagine di un libro o di un fumetto, nei fotogrammi di un film, nei pixel di un videogioco, nelle recensioni di un giornale, nelle note di una colonna sonora, e nell’infinita serie di gadget correlati, tutte cose prodotte da aziende che – in una forma o nell’altra, direttamente o indirettamente – fanno capo alla megacorp di turno.
Con tutto ciò, le scelte delle megacorps non hanno puntato a un’ottusa e piatta restaurazione dei sistemi narrativi mainstream, ma a un loro intelligente restyling, che ha fatto spazio a supereroi tormentati, a presenze femminili, a figure omosessuali, a protagonisti afroamericani o di altre appartenenze non wasp, pur senza mettere in discussione il sistema narrativo e formale di fondo, nato sin dai decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. Al tempo stesso, per coprire integralmente il mercato assorbendo anche le sezioni di pubblico restie ad apprezzare le produzioni mainstream, molte megacorps mediatiche si sono dotate di unità specializzate nella produzione di film più raffinati e problematici, più vicini alla tradizione della Hollywood Renaissance che non ai chiassosi blockbusters. In qualche caso, peraltro, si sono viste persino produzioni particolarmente innovative, prodotte da unità produttive di megacorps, suscitare l’attenzione crescente di segmenti di pubblico piuttosto significativi: è il caso di alcune serie tv, come The Sopranos (I Soprano, 1999-2007) o Game of Thrones (Il Trono di Spade, dal 2011), prodotte da Home Box Office (Hbo), il canale via cavo di proprietà della Time Warner; o come The 100 (dal 2014), prodotta in cooperazione da CBS e Warner Bros.
Quali conseguenze produrrà sulla cultura di massa la diffusione dei nuovi media e della Rete?
Come storico sono più a mio agio a lavorare sul passato che sul futuro, ovviamente, e quindi la mia risposta è: non lo so. Ciò detto, mi limito ad aggiungere che la proposta interpretativa più audace, avanzata fin ora per dare una risposta a questo interrogativo, è quella formulata da Henry Jenkins che in diversi suoi studi, e in particolare in un suo libro del 2006 (Cultura convergente), ha descritto la nascita di forme di convergenza culturale dal basso favorita dalle pratiche partecipative che la rete consente agli utenti attraverso le liste di discussione, i fansite, i blog, Facebook, ecc. La convergenza è per lui un processo che va dall’alto in basso, con la formazione delle megacorps e la diffusione delle loro produzioni, ma anche un processo cha va dal basso in alto, con tutte le attività «grassroots» che si sviluppano grazie alle iniziative dei gruppi di utenti sulla rete. Ciò detto, francamente, a distanza di undici anni dalla pubblicazione del libro di Jenkins, non mi pare si possa dire che le iniziative «dal basso» abbiano significativamente rotto l’egemonia delle produzioni mainstream.
Certo, non è detto che ciò non possa accadere. In fondo, negli anni cinquanta, nessuno che avesse osservato il panorama politico, sociale e culturale statunitense avrebbe potuto prevedere che, da lì a poco, da stili culturali di nicchia (il blues, il jazz, la letteratura beat) sarebbe gemmata una produzione come quella degli anni sessanta; e, allo stesso modo, nessuno che avesse osservato i ragazzi e le ragazze delle high schools o delle università, gli uni in giacca e cravatta, e le altre in kilt, ballerine e calzini, avrebbe potuto immaginare che da lì a poco sarebbe emersa una variopinta e riottosa galassia giovanile come quella che si forma nel decennio seguente.
Quindi, mai dire mai …