
Che ruolo svolge, nella politica e nella società italiane, il welfare?
Il welfare costituisce un elemento fondamentale di soddisfazione dei bisogni fondamentali di tutti e di tutte, di garanzia dei diritti sociali sanciti dalla nostra Costituzione, operando attraverso l’intervento dello Stato, l’espansione dei servizi pubblici e i meccanismi di redistribuzione. In tal senso esso, nella sua versione più universalista, svolge un ruolo di coesione sociale, di redistribuzione delle risorse, di modifica delle forze di mercato, quale risposta istituzionale alle crescenti domande di eguaglianza e sicurezza sociale ed economica. Tuttavia negli ultimi decenni è mancato un progetto politico complessivo capace di mettere il welfare al centro del cambiamento sociale.
Quali sfide ha posto al welfare italiano la pandemia?
La pandemia, è stato più volte affermato, poteva e può ancora rappresentare una sfida non solo per la messa in discussione di quelle politiche che negli ultimi decenni hanno adottato un’agenda di tagli alla spesa sociale e pubblica, di privatizzazione e ridimensionamento dei sistemi di welfare, ma anche una sfida, oltre che per il ruolo e la configurazione dello stesso welfare, per il contrasto alla povertà e alle diseguaglianze che la pandemia ha peraltro accentuato.
Quali traiettorie hanno seguito, nel nostro Paese, le politiche a tutela della sicurezza sociale e del reddito?
Nel quadro europeo, l’Italia presenta alcune peculiarità che connotano l’evoluzione storica del suo Welfare State, ma anche le sue attuali politiche sociali. Sul lungo periodo, la spesa sociale italiana ha presentato una netta prevalenza dei trasferimenti monetari rispetto alla fornitura dei servizi, quale caratteristica questa di un assetto improntato alla frammentazione degli interventi, alla scarsa efficacia dei meccanismi redistributivi. I dualismi italiani – tra Nord e Sud del paese, ma anche tra livelli differenziati di protezione, forti per alcune componenti della forza lavoro e deboli per quelle più marginali – hanno accompagnato lo sviluppo del welfare, accanto alla persistente rilevanza della famiglia tradizionale, della divisione sessuale del lavoro in essa vigente, quale risorsa chiave e gratuita delle politiche sociali nazionali. In particolare, ambiti come quello assistenziale e sanitario sono rimasti a lungo segnati da immobilismo, disparità e discrezionalità, al pari di quanto avvenuto per voci di spesa concernenti il sostegno al reddito dei senza lavoro, la tutela di base dei cittadini bisognosi, le politiche dell’abitare e soprattutto la fornitura dei servizi sociali. Di qui la sostanziale debolezza dei tratti universalistici dello Stato sociale italiano, capaci di riconoscere i diritti dei cittadini in quanto tali e di promuovere una “cultura” dei servizi; e viceversa la prevalenza di modelli occupazionali. In questo quadro, vorrei ricordare le principali problematiche con cui il paese è entrato nel nuovo millennio e con cui oggi torna a misurarsi,.
Sul piano sociale, importanti trasformazioni hanno riguardato la riduzione delle nascite e l’invecchiamento della popolazione – con tutte le loro conseguenze sull’assetto previdenziale, assistenziale, sanitario e occupazionale; l’aumento dei flussi migratori, in Italia gestiti con politiche inadeguate e securitarie; la precarizzazione del lavoro; l’aggravamento degli squilibri territoriali. Questi processi hanno introdotto cambiamenti nella domanda di servizi pubblici e prestazioni sociali, con una maggior complessità, articolazione e differenziazione che il sistema di welfare ha faticato ad affrontare.
Sul piano politico, la storica funzione dello Stato sociale come fonte di legittimazione è andata riducendosi per la sua incapacità di dare risposte a nuove forme di povertà, disagio, insicurezza. In alcuni ambiti il welfare ha cessato di essere identificato direttamente con i servizi pubblici e si sono sviluppate attività private e spazi di mercato, specie nei campi delle pensioni integrative e della sanità.
Sul piano istituzionale, sono andati affermandosi modelli di un “welfare mix” pubblico-privato, principi di sussidiarietà, sistemi di governance che hanno coinvolto molteplici attori, indebolendo il ruolo delle tradizionali politiche pubbliche nazionali. Al contempo, si sono accentuate le differenziazioni nella quantità e qualità dei servizi di welfare, in specie tra aree di eccellenza del paese e aree periferiche, dovute all’inadeguatezza di standard uniformi, alla debolezza organizzativa di molte realtà, al prevalere di degenerazioni burocratiche.
Sul piano culturale, l’indebolimento dei servizi, il peso crescente dei trasferimenti monetari (pari a quasi tre quarti della spesa sociale nel 2015) compensativi dell’assenza di interventi nell’ambito della cura e sulle condizioni di maggiore disagio, l’affievolirsi di spinte universalistiche hanno aggravato il carico di lavoro di cura delle donne e accentuato le diseguaglianze sociali.
Nella lunga recessione seguita alla crisi finanziaria del 2008 l’Italia ha registrato maggiori difficoltà a finanziare il welfare e, soprattutto, nel caso della spesa sanitaria essa si è allontanata dal livello dei maggiori paesi europei. La riduzione delle risorse pubbliche destinate allo Stato sociale ha condizionato quantità e qualità dell’intervento pubblico, rafforzando le iniziative private e le spinte a introdurre forme organizzative ispirate alla logica del mercato. In questo contesto particolare rilievo ha assunto il welfare occupazionale/aziendale, sostenuto da scelte orientate a privilegiare profili di welfare alternativi a quelle pubblici, largamente sostitutivi di essi. D’altronde, le politiche di contenimento dei bilanci pubblici hanno indotto processi di outsourcing dei servizi pubblici, facilitando l’estensione del perimetro delle privatizzazioni, concorrendo a processi di sostituzione delle prestazioni egualitarie del welfare pubblico con quelle del welfare occupazionale, fortemente diseguale.
Quali prospettive di cambiamento per il welfare in Italia?
Si torna a ragionare da più parti attorno a una riformulazione, re-immaginazione del welfare a partire da alcuni elementi essenziali che vanno dalla rottura con i tratti burocratici, familisti, aziendalisti e particolaristici del passato; alla centralità della riproduzione sociale e della cura; a politiche sociali ed economiche capaci di veicolare welfare pubblico e universale; a politiche fiscali progressive, in grado di incidere sugli alti livelli di evasione ed elusione. E ancora caratteristiche quali il miglioramento e un nuovo sviluppo delle istituzioni e dei servizi collettivi del welfare; la tutela universale della salute, individuale e collettiva; il potenziamento su basi universalistiche dei sistemi sanitari pubblici. In questo ambito credo sia più che mai necessario puntare a un rinnovamento generale del welfare socio-sanitario, fondato sulla prevenzione collettiva nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, sul potenziamento dell’assistenza territoriale e della rete dei servizi di base.
Affrontare i problemi evidenziati dalla pandemia significa intervenire sugli assetti macroeconomici, sulle istituzioni nazionali e sovranazionali (soprattutto con riferimento al ruolo dell’Unione Europea), sui processi redistributivi, in termini strutturali e non puramente emergenziali, con misure di sostegno del reddito universalistiche, con un rilancio dei sistemi sanitari pubblici, con la revisione dei sistemi fiscali, che in questi anni hanno assunto una configurazione in cui le componenti redistributive sono state fortemente limitate. Tutto ciò in un contesto di recupero delle responsabilità delle amministrazioni pubbliche nella fornitura dei servizi sociali e in direzione di una riscrittura universalistica e democratica del sistema di welfare.
Chiara Giorgi è professoressa associata di Storia contemporanea alla Sapienza Università di Roma e codirettrice della rivista “Parole-chiave”. Tra i suoi libri: La previdenza del regime. Storia dell’INPS durante il fascismo (Il Mulino, 2004) e Storia dello Stato sociale in Italia (con I. Pavan; Il Mulino, 2021).