
A dispetto di chi le considera lingue morte, perché possiamo affermare che latino e greco antico mantengono intatta la loro vitalità?
Nel libro Il tradimento dei chierici, del 1927, il filosofo Julien Benda spiegava che nessuna società può sopravvivere a lungo qualora non esista al suo interno una classe di uomini posti al di fuori delle passioni e degli interessi materiali e secolari. Quando questi uomini – che lui chiama chierici – si mescolano alla folla vociante, quando prendono partito, quando si fanno tentare dall’ebrezza del foro e del mercato, quando dunque non resta nessuno a professare l’inutile e l’astratto, allora è segno che qualcosa di grave sta per accadere. E infatti dodici anni dopo scoppiò la guerra. Ora che sono scomparse sia la generazione che ha visto quella guerra sia la generazione che l’ha sentita raccontare, i chierici hanno ricominciato a tradire. E infatti nuove immense catastrofi si stanno incubando: quella economica, quella ecologica. Il latino e il greco – per parafrasare il professor Franzò – non sono il latino e il greco: sono l’inutile. E noi non possiamo fare a meno dell’inutile. Lingue morte le chiamano. E sono morte infatti. Ma non più morte della musica di Bach. Solo che Bach non si discute, Cicerone sì. Nessun musicista addetto ai lavori si sognerebbe di liquidare Bach. Invece non mancano i classicisti – i più ‘istituzionali’, in genere – che vorrebbero liquidare Cicerone. Non sarà che la differenza fra Cicerone e Bach risiede semplicemente nel fatto che l’uno ti può rimandare a settembre e l’altro no?
Quali ragioni rendono ancora attuale lo studio di latino e greco antico?
La ragione fondamentale è illustrata nel libro di Federico Condello La scuola giusta, del 2018, un’opera che meriterebbe il premio Pulitzer, senza esagerazioni. Condello dimostra dati alla mano che il ‘creatore’ del liceo classico, Giovanni Gentile, non lavorò per fare di noi un popolo di Poliziani, ma al contrario per trasformare gli studi umanistici in un percorso elitario, cioè per impedire che ‘la scuola del latino e del greco’ realizzasse la sua vocazione di ascensore sociale. Una vocazione che tuttavia le è connaturata, e che infatti nonostante tutto è rimasta. Cosicché quelli che ora vogliono ‘normalizzare’ il classico facendone un contenitore di fuffa antropologica e rendendo sempre più marginale lo studio dei testi in lingua e della connessa grammatica, lavorano consapevolmente o inconsapevolmente a quel disegno.
Il latino e il greco sono strumenti, sono metodi. Insieme all’italiano e alla matematica costituiscono ciò che in termini aristotelici si definirebbe un organon, un outfit di conoscenze preliminari a ogni altra forma di studio. Naturalmente ciò è vero a condizione che con latino e greco si intenda il connesso civiltà-lingua. Un programma di latino e greco che abolisse le lingue o le riducesse a una presenza simbolica sarebbe come un programma di matematica in cui al posto dell’algebra si studiasse la storia dell’algebra, e al posto dei teoremi la storia dei teoremi.
È possibile adottare approcci ludici nell’insegnamento delle lingue classiche? Se sì, di che tipo?
Si cercano approcci ludici quando l’oggetto è poco interessante. Ma non è il caso delle lingue antiche, che sono noiose solo se è noioso il professore. I metodi alternativi, la didattica delle competenze e il resto, sono tutte chiacchiere. È il professore che conta. Se i giovani trovano una guida che stimano, che ammirano, la seguiranno anche nel ginepraio delle desinenze e dei verbi irregolari, con la stessa devozione con cui seguono l’amato allenatore di calcio che li tedia per ore con le corsette e le flessioni. Gli studenti di oggi sono sprovveduti, viziati dalle famiglie, avviati dai media a un nevrotico stop-and-go di aggressività e catatonia, ma in certe cose sono uguali agli studenti di ieri e di sempre: esigono, giudicano, hanno un fiuto infallibile (e più ancora gli ultimi della classe che i primi) nell’individuare il professore mediocre e insicuro, la persona da poco, il pupazzo. Il problema è dunque uno solo: riempire la scuola di uomini e mandare i pupazzi a coltivare ortaggi, insieme a tanti miei colleghi pedagogisti che di adolescenti e di scuola nulla sanno, e che nonostante questo, o forse proprio per questo, sono tanto ascoltati in ambienti ministeriali.
Quali sono, a Suo avviso, i limiti e gli errori nell’insegnamento delle lingue classiche nella scuola e nell’università italiane?
Nei primi anni ’70, con i Decreti Delegati, la cosiddetta società civile entrò nella scuola e acquisì immediatamente un grande potere, che crebbe a dismisura sotto il ministero Berlinguer del 1996-2000 per poi diventare un potere assoluto e unico. Le famiglie vedono i figli come creature da tenere sotto la campana di vetro e da proteggere da ogni dispiacere e sconfitta, ed esigono che la scuola adotti lo stesso punto di vista. Imparare? Massì, imparino pure, però senza fatica o delusioni. Il professore deve proteggere, facilitare, rimuovere gli ostacoli, non sia mai che lo studente ne incontri uno. In questo clima di protezionismo e facilismo ben si spiega che le iscrizioni al liceo classico non vadano oltre il 5-7 per cento della popolazione studentesca (che comunque non è poco). Ciò che non si spiega è invece l’attacco al latino e al greco, portato avanti da decenni con incredibile protervia sia dai governi di centro-destra che dai governi di centro-sinistra. Il latino e il greco non si devono mica studiare per forza, il liceo classico non è mica obbligatorio. Allora perché questo accanimento verso le lingue classiche? Il gramsciano direbbe che la demolizione della scuola di eccellenza risponde a un progetto: impedire ai migliori di emergere, tenerci tutti nella mediocrità in modo che la nostra collocazione nella vita torni a dipendere dai mezzi e dalle aderenze di papà; insomma abolire l’ascensore sociale. Ma c’è anche una spiegazione dostoevskiana. I più accaniti nemici del latino e del greco sono docenti universitari come me, antichisti come me. Grazie al latino e al greco hanno ottenuto cattedre e potere, ma, nonostante la pubblica notorietà, come studiosi valgono poco, e dentro di sé lo sanno, e reagiscono come gli amanti delusi. Volpe e uva, invidia del pene, cane alla mangiatoia: c’è tutto un repertorio paremiografico che spiega il fenomeno tanto bene quanto l’analisi gramsciana.
La causa prima di tutto questo è un’idea primitiva, grossolana di democrazia. La scuola non può essere democratica, come non possono esserlo la sanità, la giustizia, l’esercito, lo sport. I genitori che contrattano le promozioni col preside, gli scrutini in cui anche i professori di ginnastica mettono bocca sui voti di matematica, ricordano le situazioni dell’Armata Rossa dei primi anni della rivoluzione, quando i soldati facevano riunioni per decidere se obbedire o no agli ordini, o in cui i commissari politici e non i generali decidevano i piani di battaglia. Sono parodie della democrazia. Parodie pericolose. Una democrazia forte, compiuta, può permettersi di far funzionare la polizia e i servizi segreti con le regole che sono loro proprie. È la democrazia debole che deve democratizzare tutto. La debole democrazia degli anni ’70 capiva che la scuola del professore-dio e dello studente-spazzatura, la scuola in cui ti domandavano il mestiere dei genitori, la scuola dei favoritismi, delle ingiustizie palesi senza diritto di replica, andava riformata, ma non seppe stimolare una riforma dall’interno. E scattò il riflesso consociativo: tutti dentro e se la vedano fra loro. Infermieri, paziente, genitori del paziente, fidanzata del paziente, impiegati della ASL, tutti in sala operatoria a dire al chirurgo come deve usare il bisturi.
Sia chiaro che ad altri è andata peggio. Usa, Canada, Germania, Inghilterra e Francia hanno abolito da tempo gli studi classici, e, sia o no coincidenza, da allora anche la loro scuola è crollata. I nostri laureati vanno all’estero e sbaragliano senza fatica la concorrenza autoctona. Gli italiani sono dovunque; si piazzano, fanno carriera.
È come se i paesi occidentali avessero sganciato la bomba al neutrone su ciò che avevano di meglio, di più funzionante. Dico quella bomba che ammazza la gente e lascia in piedi gli edifici. Noi l’abbiamo sganciata sulla produzione e sulla manifattura. Abbiamo campi, abbiamo aziende, abbiamo ditte edili, ma nessuno di noi conosce più i mestieri. Allora viene gente da fuori, dai Balcani, dall’Africa. È normale: è il principio dei vasi comunicanti. Gli Inglesi, gli Americani, i Francesi, hanno buttato la bomba sulle loro scuole e università e le hanno desertificate. Fortunatamente le strutture, le biblioteche, le istituzioni venute su da una tradizione di secoli, sono ancora in piedi. Lì vanno e si inseriscono i nostri laureati e i nostri ricercatori, i bravissimi ma anche i non bravissimi. E non tornano più, oppure tornano per ragioni sentimentali, cioè perché all’estero sono costretti a insegnare le loro discipline in modo troppo elementare.
All’Italia è rimasta solo la scuola: è l’unica nostra eccellenza. Dovremmo proteggerla e rilanciarla, invertire la rotta. E invece, per provincialismo, per psittacismo, per stupidità, corriamo a gettarci sulla pira su cui gli altri si sono suicidati.