“Walk This Way. La subcultura Hip Hop dagli Stati Uniti all’Italia” di Simone Nigrisoli

Dott. Simone Nigrisoli, Lei è autore del libro Walk This Way. La subcultura Hip Hop dagli Stati Uniti all’Italia pubblicato da Europa Edizioni: quando nasce la subcultura Hip Hop negli USA?
Walk This Way. La subcultura Hip Hop dagli Stati Uniti all’Italia, Simone NigrisoliLa subcultura hip hop nasce agli inizi degli anni Settanta nel Bronx a New York, precisamente nel 1973. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta in quel quartiere ci fu una feroce guerra tra gang, e quindi bisognava creare qualcosa che facesse in modo che i giovani che abitavano tra quei palazzi incanalassero le loro energie negativa altrove. L’arte prese quindi il posto delle sparatorie, tanto che l’hip hop divenne il simbolo di pace e amore non solo per New York e gli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo. La subcultura hip hop si divide in 4 discipline: break dance, mcing, djing e writing. La prima a nascere fu la break dance, tanto che il termine con cui vengono chiamati gli appartenenti al movimento hip hop: “b-boy”, significa “breaker boy”, ovvero ragazzo che balla.

Quando e in che modo inizia a diffondersi in Italia?
In Italia la subcultura hip hop arrivò agli inizi degli anni Ottanta come nel resto dell’Europa, grazie soprattutto ai film sulla Break dance. Nel nostro paese non ebbe molto successo all’inizio, e fu rilegata ad un gruppo ristretto di appassionati. Nonostante questo ci furono dei personaggi davvero “mitici” tra i pionieri del movimento italiano, che hanno fatto davvero molto per l’hip hop, sia da noi che negli Stati Uniti. Tra questi posso citare “The NextOne”, “Ice One” ed “Mc Shark”.

Perché l’Hip Hop può esser definito un fenomeno “subculturale”?
Subculturale è semplicemente il termine scientifico e accademico per definire questa cultura. In antropologia e in sociologia una “cultura” per essere definita tale ha bisogno di canoni che l’hip hop non possiede, quali: una nazione, una lingua, un territorio, una religione, una storia. E quindi è per questo che scientificamente in ambito accademico sarebbe sbagliato definire l’hip hop “cultura” al posto che “subcultura”. Molti del movimento si sentono addirittura discriminati quando sentono il termine “subcultura”, ma nonostante il valore culturale dell’hip hop, quando si parla in ambito accademico non lo si può definire diversamente.

Quali elementi caratterizzano la subcultura Hip Hop?
Oltre alle 4 discipline artistiche sopra citate e all’abbigliamento, quel che è molto importante e che caratterizza l’hip hop sono i valori e il messaggio che questa cultura vuole diffondere e trasmettere. Il motto principale dell’hip hip è “be real”, ovvero “essere veri”, sempre e comunque e in ogni situazione. In più il messaggio comprende: la fratellanza, la pace, l’amore e il rispetto per il prossimo, l’antirazzismo, l’essere sempre positivi, l’essere contro la droga e contro la violenza. In più poi c’è la sfida, ovvero essere competitivi con gli altri per migliorarsi continuamente e raggiungere la vetta. La sfida nell’hip hop però non deve avere come fine quello di denigrare gli avversari e ferire la loro dignità, ma è sempre messa in un contesto di convivialità, pace e rispetto.

Nell’ambito della subcultura Hip Hop si è sviluppato uno dei movimenti musicali più interessanti degli ultimi quarant’anni, il rap: quali processi ne hanno decretato il successo?
Il rap quando è nato mischiava varie culture afroamericane, tra cui anche funky, jazz e blues. Negli Stati Uniti poi, era appunto presente una forte cultura afroamericana, che ha accolto questo genere musicale a braccia aperte, facendolo arrivare nei primi posti delle classifiche, e a quel punto non poteva più essere ignorato. Dagli anni 80 in poi ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo, e si è preso pian piano il suo posto anche negli altri paesi fuori America. Credo che la potenza del rap sia la sua forza comunicativa di trasmettere concetti come nessun altro genere musicale riesce a fare. Poi, inoltre, un’altra cosa importante è la sua versatilità nel saper mischiare altri generi ed essere aperto ad ogni forma di innovazione, stando sempre al passo con la tecnologia. Negli Stati Uniti il rap è partito dal basso, da una grande richiesta popolari del popolo “nero” diciamo, mentre nel resto del mondo sono stati i canali mainstream a decretarne il successo e a sponsorizzarlo. Anche in Italia si è sentito per la prima volta parlare di rap con Jovanotti grazie al fatto che fosse in tv e in radio.

Chi sono i principali rappresentanti della scena rap nostrana?
Oddio, i principali rappresentanti della scena rap sono molti. Secondo me in questo momento i migliori rapper italiani sono Salmo e Gué Pequeno (anche se quest’ultimo non mi fa impazzire). Sono oggettivo, e quando si tratta di concerti loro sono quelli che riempiono di più, quindi li metto tra i principali. Poi c’è Fabri Fibra, che resterà sempre il numero uno per quel che ha fatto con l’album “Mister Simpatia”, Marracash, J-Ax, Caparezza, Bassi Maestro, dj Gruff, Inoki, Mondo Marcio, Neffa, Tormento, diciamo che questi sono i rapper che hanno fatto la storia in Italia. Oggi poi sta prendendo piede anche la Trap e per quanto gliene si dica bisogna ammettere che in Italia abbiamo dei personaggi che fanno questo sottogenere del rap molto bene. Sfera Ebbasta e il suo produttore Charlie Charles per esempio vengono apprezzati anche fuori dai confini del nostro paese. Tedua anche è molto bravo ed utilizza una tecnica tutta particolare nel “trappare”. Infine vorrei fare un cenno a quei rapper più “cazzuti” che magari non passano in tv e in radio, ma che sono davvero bravi: Johnny Marsiglia, Colle der Fomento, Egreen e Valerio dj Fastcut. Per chi ama il rap più spinto questi artisti sono poesia pura.

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