
Di quest’ultimo, in particolare, Andreose rivela particolari intimi, come la sua «formidabile capacità di lavoro»: «Ore e ore al computer durante il giorno, interrotto solo da momenti rituali di socialità, come i pasti e una nuotata in piscina d’estate. Dopo cena magari anche un film di videoteca, quando tutti già assopiti si ritiravano nelle loro stanze, Umberto si rimetteva al lavoro, nell’impellenza di finire un capitolo, di preparare una conferenza o un pezzo per il giornale.»
E così, accanto a un «Ritratto di Umberto da giovane», che ripercorre gli esordi della sua carriera, scopriamo come, nella vita dello scrittore, libri e amore fatalmente si fondano: è il 1961 quando «pubblica il suo primo libro alla Bompiani assieme a G.B. Zorzoli: Storia figurata delle invenzioni, una grande opera illustrata in due volumi la cui iconografia è affidata a Renate Ramge, una bellezza teutonica, che l’anno dopo diventa sua moglie e, nel giro di due anni, la mamma di Stefano e Carlotta. Per unire l’utile al dilettevole, i due si sposano a Francoforte, in occasione della Buchmesse, e la trasferta vale anche come viaggio di nozze, che lo sposo ribattezza “viaggio di bozze”.»
Veramente suggestivo e denso di retroscena inediti risulta poi il racconto delle vicende legate alla pubblicazione del suo primo romanzo, Il nome della rosa, del quale «lo stesso autore […] nel risvolto di copertina, non firmato, della prima edizione evocava le tre categorie di lettori a cui poteva essere indirizzato il libro: chi si aspetta semplicemente di scoprire l’assassino; chi nelle vicende storiche individua nessi con la contemporaneità (esempio: i seguaci di Fra Dolcino antesignani delle Brigate Rosse?); chi è più sagace e colto e se la gode di più (esempio: “Quando Guglielmo, nello scontro finale con Jorge, utilizza l’argomentazione aristotelica nel trattato della Commedia, egli – vale a dire Eco – sta essenzialmente citando Michail Bachtin,” David Lodge dixit).»
Prosegue Andreose: «L’ubriacatura per la Rosa durò a lungo, propiziata anche dal successo del film che ne trasse Jean-Jacques Annaud, tant’è che gli ci vollero otto anni per sfornare un altro romanzo, Il pendolo di Foucault, quello da lui più amato e forse il suo capolavoro.»
Il romanzo ha avuto, come è noto, uno straordinario successo tanto che delle copie vendute «non è facile fare un computo preciso perché all’epoca alcuni paesi del blocco sovietico e Cuba non avevano ancora aderito alla convenzione di Ginevra sul diritto d’autore, per non dire delle edizioni pirata, come quella di una tipografia clandestina napoletana e una in lingua araba uscita con il titolo, non del tutto impertinente, Sesso in convento. Comunque le edizioni straniere registrate a oggi sono cinquanta, e oltre cinquanta milioni si possono valutare le copie vendute, di cui sette in Italia. Ma nonostante la partenza a razzo dell’edizione italiana, propiziata anche dal premio Strega 1981, non fu immediata né generosa l’accoglienza dei primi editori stranieri». Il «varo dell’edizione in lingua inglese» si rivelò «fondamentale per la diffusione in altri paesi. The Name of the Rose esce in America tre anni dopo l’edizione italiana».
La nuova edizione del Nome della rosa, pubblicata nel quarantesimo anniversario della prima, arricchita da disegni e annotazioni manoscritte dell’Autore, rivela come, nella sua mente, la fisionomia dei personaggi fosse diversa da quella alla quale ci ha abituati la trasposizione filmica dell’opera: «i tratti di Guglielmo si attagliano meglio al volto affilato di Turturro piuttosto che a quello del seduttivo agente segreto Sean Connery.»
Il libro rappresenta un racconto appassionato e coinvolgente di un mondo che non esiste ormai più, soggetto com’è a «una mutazione genetica in atto» e «avviato a un punto di non ritorno», quello della rivoluzione digitale che cambierà tutto, ma non forse il libro che «per fortuna rimane, come diceva Umberto Eco, uno strumento indispensabile, al pari della ruota e del cucchiaio.»