“Voci da Uber. Confessioni a motore” di Maria Anna Mariani

Voci da Uber. Confessioni a motore, Maria Anna MarianiProf.ssa Maria Anna Mariani, Lei è autrice del libro Voci da Uber. Confessioni a motore edito da STEM Mucchi: in che modo Uber ha rivoluzionato le nostre vite?
L’introduzione di Uber ha provocato un cambiamento radicale nel modo di spostarsi, anche se il suo impatto sulle vite va misurato in modo differenziale. Se con “noi” intendiamo gli utenti che abitano in grandi città americane o europee (non italiane: l’Italia è uno dei pochissimi paesi dove Uber non è riuscito a penetrare), allora potremmo dire che Uber ha agevolato moltissimo i trasporti, permettendo collegamenti più comodi e rapidi e tamponando tutte quelle zone poco servite o completamente trascurate dai mezzi pubblici. Ma ha anche contribuito a creare un’“infrastruttura paraschiavistica” (prendo il termine da Enrico Ricolfi) composta da lavoratori sottopagati e privi di tutele, per la maggior parte immigrati. Ha poi inflazionato enormemente il mestiere del tassista, concedendo a chiunque di improvvisarsi tale.

Uber non è solo una multinazionale o un servizio di taxi alternativo, è un caleidoscopio di persone e di storie: quali ha scelto di raccontare nel Suo libro?
È proprio l’aspetto umano di Uber quello che più mi interessava rappresentare. Il libro è composto da micro-narrazioni che ripercorrono molteplici corse in auto nella città dove vivo, Chicago, rielaborando le conversazioni che le hanno animate. Ogni pezzo breve porta come titolo il nome dell’autista che ha percorso con me un determinato tragitto e che durante quel tempo (venti minuti, mezz’ora o giù di lì) mi ha raccontato un frammento della propria biografia. Si tratta spesso di storie di immigrazione: dal Messico, dalla Palestina, dalla Giordania, dalla Turchia. Ci sono molte storie di maternità e paternità. Storie di lavoro. E poi ci sono gli eventi traumatici, che solo la domanda altrui fa affiorare: con fatica, con riluttanza. Cosa ho scelto di raccontare, mi viene chiesto. È una domanda che tuttora mi spiazza, anche se me la sono posta da sola, più volte, mentre mi interrogavo sulla selezione di questo materiale biografico che mi vorticava in testa. Mi ero data una serie di vincoli strutturali: selezionare le storie badando a creare varietà e alternanza, e dunque sopprimere nazionalità doppioni e scartare una vicenda se già ne appariva una simile. Evitare la ripetizione è stata a lungo la mia contrainte fondamentale. Ma poi per due volte di fila mi sono trovata ad ascoltare storie di fratelli ammazzati. E allora mi sono chiesta: un fratello ammazzato è una ripetizione? Quale racconto di fratello ammazzato dovrei silenziare per non ripetermi? Quale evento inaudito dovrei abbandonare al non detto? Ma lo stesso discorso va fatto per le regolarità di un’esistenza, per i suoi momenti quotidiani: quali dovrei scartare? Che cosa è non importante?

Il problema è altrettanto grave, se non di più, quando lo si pone all’incontrario: che cosa accade quando scelgo di raccontare una vita altrui senza chiedere permesso? Si polemizza spesso e a ragione su questa manipolazione del biografico, su questa suprema forma di violenza: è un rovello che martoria la gestazione del mio libro e che rischia di intorbidarne le premesse. Eppure la mia premessa è stata un’altra (forse è un alibi ma intanto eccola): tutti questi autisti sono già inscritti in un archivio, l’archivio della sharing economy, che al loro nome assegna una valutazione numerica, ovvero una sequenza di stelle associata alla prestazione compiuta. Quella della valutazione è una logica che reifica completamente le esistenze. La mia idea era di contrastarla attraverso la narrazione del biografico. Storie di vita contro stelle: si potrebbe condensare così la spinta propulsiva che governa queste pagine.

Come si diventa autisti di Uber?
A livello pratico basta molto poco: scaricare l’app sul cellulare, portare la propria auto dal meccanico per un controllo sommario, sottoporsi a un altrettanto sommario controllo dei precedenti penali. È tutto qui. Questa facilità estrema spiega per quale motivo a guidare per Uber siano spesso persone che sono state appena licenziate, oppure immigrati, oppure studenti che si pagano le tasse universitarie. Ma diventare autisti di Uber non significa lavorare per Uber. Gli autisti di Uber non sono considerati come dipendenti veri e propri, ma come clienti della piattaforma (il termine inglese è: independent contractors). Ciò significa che non hanno accesso a ferie, a periodi di malattia e a nessun’altra delle tutele che un contratto di lavoro di solito garantisce o dovrebbe garantire. Questa situazione è spesso offuscata dallo slogan principale della start-up (be your own boss), che promette agli aspiranti autisti completa autonomia, senza che debbano sottostare ad alcun titolare. Ma in realtà l’Uber-boss, per quanto privo di volto, è dotato di un potere decisionale immenso: controlla a distanza la guida degli autisti, può incentivarli a fare un’altra corsa anche se preferirebbero di no, può disattivarli all’improvviso.

Quale funzione svolge la conversazione durante il viaggio?
È una domanda che mi sono posta senza sosta. Anzi, è la domanda centrale del mio libro, che mira proprio a riflettere sulla possibilità di interazione durante i tragitti con Uber. Che cosa accade alla parola quando due sconosciuti che non si rivedranno mai più si trovano rinserrati dentro una capsula in movimento, senza via d’uscita? Com’è possibile che il discorso possa oscillare tra i suoi due poli antitetici: la chiacchiera, il si dice impersonale e stantio, e la confessione più intima e sventata? Non a caso il sottotitolo del libro è Confessioni a motore. A essere confessate, come scrivevo sopra, sono storie di vita, pezzi di biografie. Ma non si tratta di biografie pure, perché questi racconti altrui innescano spesso nel passeggero che li ascolta il bisogno di un racconto autobiografico parallelo. Biografie e autobiografia si compongono così di pari passo, si fanno eco, si amalgamano. Il risultato è un assemblaggio: un’auto/biografia plurale, in cui talvolta si perdono i confini tra sé e altro. Sul piano formale, questo si traduce in un deciso rifiuto del discorso diretto, che marca con chiarezza l’attribuzione della parola, a favore di un più poroso e comunitario discorso indiretto libero.

Quali dinamiche si instaurano tra autista e passeggero?
Massimiliano Borelli, il curatore della collana Diorami che fa da contenitore al libro, ne ha individuate tre: l’interazione dialogica pienamente riuscita e controllata, la deriva aberrante e il fallimento. Per spiegare queste oscillazioni, occorre premettere che il libro è il frutto di un esperimento a cui ho sottoposto me stessa e i passeggeri, manipolando il dialogo nel suo svolgimento per dargli immediata dignità di racconto. Non sempre le mie domande sfociavano nell’esito che mi ero prefissa, ovvero nella confessione reciproca che doveva avvenire rigorosamente entro i confini spazio-temporali di Uber: e dunque senza strascichi nel dopo, senza che il contatto si prolungasse. A volte accadeva che la situazione mi sfuggisse di mano, che le condizioni dell’esperimento venissero sabotate da un eccesso di coinvolgimento emotivo per una o per entrambe le parti. Accadeva insomma che i precisi confini spazio-temporali di Uber rischiassero di saltare. A volte invece succedeva l’opposto: ovvero che l’autista evitasse l’interazione, che contrapponesse il silenzio o la barriera sonora della radio alle mie domande trillanti. Ma mi sono imposta di registrare anche queste interazioni fallite, cercando di capire il perché del mancato contatto. E quando il contatto verbale è mancato, a soccorrermi c’è stato spesso un tipo diverso di comunicazione: quella silenziosa degli oggetti. Una delle caratteristiche più affascinanti dei viaggi con Uber è che ci si trova all’interno delle macchine personali degli autisti, che offrono uno squarcio della vita privata di chi le guida, ne portano le tracce, a volte ne rappresentano una protesi. Giocattoli sparpagliati sul sedile o appoggiati sul cruscotto, ciondoli e immagini sacre che penzolano dallo specchietto, adesivi applicati sulla carrozzeria: tutto si fa segno e aiuta a ricostruire quelle schegge biografiche che sfuggono alla parola e che solo la materia riesce a emanare.

Il Suo esperimento si conclude dentro un taxi e con una critica di Uber: quali sono i rischi della uberization?
Uno dei rischi principali è la crisi che ora piaga un’intera categoria di professionisti, i tassisti, che vedono neutralizzato l’investimento di una vita: la licenza per guidare il taxi (in sostanza l’equivalente di un mutuo), che ha perso di colpo tutto il suo valore a causa della concorrenza forsennata e sregolata di Uber e di servizi analoghi, come Lyft. Si pensi che a New York alcuni tassisti sono arrivati al suicidio. Ed è proprio da New York che è partita una misura di contenimento dell’espansione di Uber, che pare si estenderà presto anche ad altre città.

Nel libro Lei cita una frase di Travis Kalanick, il fondatore di Uber, che auspicava l’avvento delle auto a guida autonoma: quale futuro, a Suo avviso, per Uber?
Se il contenimento di Uber non sarà radicale, allora il futuro potrebbe essere proprio quello auspicato da Kalanick: l’automazione totale, la scomparsa dell’“other dude in the car”. Tenendo presente questo scenario molto realizzabile, penso che le storie raccontate nel mio libro modulino un’anticipata nostalgia dell’umano. Ma c’è un altro scenario futuribile che si staglia all’orizzonte di Uber ed è quello delle macchine volanti. Il progetto è stato già divulgato e sul sito della start-up è archiviato un video promozionale che mostra la sequenza semplicissima di gesti che a partire dal 2023 permetteranno praticamente a chiunque di spostarsi dentro un piccolo abitacolo volante, una specie di elicotterino semi-privato. Accadrà questo: usciti da lavoro armeggeremo due secondi col cellulare e poi via, dentro un ascensore che ci porterà sul tetto di un grattacielo dove ad attenderci ci sarà il suddetto elicotterino. Questo si metterà subito in volo e ci porterà là dove vorremo andare e farà prestissimo, mentre sotto di noi le arterie stradali ribolliranno di traffico e chissà se ci verrà ancora la curiosità di guardarle. It’s closer than you think, promette lo slogan.

Maria Anna Mariani insegna letteratura italiana alla University of Chicago. È autrice del reportage narrativo Dalla Corea del sud (Exòrma 2017) e dei saggi Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi (Carocci 2012) e Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura (Carocci 2018).

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