
La stessa cautela si impone quando si affrontano fonti di provenienza diversa; per esempio, le visioni di Roma presenti nella letteratura ebraica, oggetto di importanti lavori di analisi, sono sempre mediate dalle necessità culturali delle comunità ebraiche in contatto con il mondo romano. Lo stesso vale per le fonti cristiane. Testi come gli “atti degli Alessandrini”, infine, sono testimonianze straordinarie, giunte fino a noi grazie alle eccezionali condizioni ambientali dei siti archeologici egiziani, dell’esistenza, all’interno del mondo romano, di una robusta corrente di pensiero della marginalità (l’equivalente delle variegate teorie complottiste del mondo contemporaneo, in poche parole). Questi documenti hanno un enorme interesse sociologico, ma dal punto di vista strettamente storico il loro valore è nullo – sarebbe come ricostruire la storia dell’incipiente XXI secolo usando la letteratura di QAnon.
Se vogliamo farci un’immagine del mondo romano, dobbiamo ricorrere a un’analisi più complessa, che tenga conto di tutte le informazioni a nostra disposizione.
Quali erano valori e disvalori del mondo romano?
Un sociologo potrebbe rispondere che, nelle linee generali, i valori di tutte le società sono sostanzialmente simili. Ogni comunità umana deve necessariamente dotarsi di regole che promuovano la conservazione del proprio ordine – anche perché sistemi di regole che vadano contro la conservazione dell’ordine, ammesso che vengano realmente applicati, potrebbero solo portare alla dissoluzione e alla scomparsa di quella comunità. Tenendo presente questo principio di base, ogni singola civiltà può elaborare sistemi molto disparati, che, tuttavia, tendono tutti al medesimo fine. Per questo, se andiamo alla base, potremmo dire che i valori del mondo romano erano fondamentalmente identici a quelli di qualunque altra civiltà del mondo, antico e moderno.
Molto di ciò che osserviamo deriva da fattori puramente circostanziali. Per esempio, l’enfasi sui valori militari, che è considerata una caratteristica tipica della civiltà romana dagli stessi scrittori romani (e che quindi è stata accettata passivamente come tale anche da molti storici dei millenni successivi), in realtà non è un fatto così eccezionale; le varie società con cui i Romani entrarono in contatto (e, spesso, in conflitto) durante la loro storia non erano molto diverse, da questo punto di vista. L’acquisizione di risorse a danno di altri era considerato un obiettivo legittimo, e anzi auspicabile, in ogni sistema sociale; l’equazione fra il cittadino, e in particolar modo l’aristocratico, e il guerriero, è una realtà ricorrente in tutto il mondo antico (e anche moderno, in linea generale). La lunga serie di successi militari che accompagna la storia romana ha portato inevitabilmente a dare particolare enfasi a questo aspetto: ma quello del Romano “guerriero” è uno stereotipo derivato da fattori puramente incidentali (come quello dei Fenici “commercianti”), che non ha nulla a che vedere con una (presunta ma inesistente) particolarità della civiltà romana.
La graduale formazione del sistema politico-amministrativo romano, che arrivò a ricomprendere quasi completamente un enorme spazio euro-mediterraneo, già avviato da tempo sulla strada di una profonda omogeneizzazione culturale, condusse alla nascita di un’entità di scala enorme, senza precedenti. Per questo motivo, la principale caratteristica che distingue l’esperienza storica del periodo che chiamiamo “romano” da altri momenti, precedenti e seguenti, è proprio il fattore di scala, che portò con sé alcuni inevitabili mutamenti sociali e culturali, quali la caduta dei fattori personali e qualitativi come criteri primari di definizione della posizione dell’individuo nella società. Questi criteri possono essere applicati efficacemente solo in entità di scala ridotta, dove le interazioni sociali avvengono prevalentemente all’interno di una sfera di conoscenti. Nel periodo romano, al contrario, come in tutte le società di grande scala, furono i fattori quantitativi che si trovarono ad assumere un’ importanza preponderante per la determinazione del ruolo sociale dell’individuo. I fattori quantitativi (la “ricchezza”), per loro natura, sono astratti e obiettivi; quando il raggio di azione dell’individuo supera abitualmente, e ampiamente, i limiti della porzione di società della quale si ha conoscenza diretta, e sulla quale si potrebbe applicare una valutazione qualitativa (del “rango”o “valore”), l’aspetto quantitativo diventa l’unica misura possibile.
Allo stesso modo, la società romana è caratterizzata da un altissimo grado di spersonalizzazione; il ruolo dell’individuo, oltre che su quello che ha, si basa su quello che sa fare, indipendentemente da ogni considerazione sul suo ambiente di provenienza. La spersonalizzazione, non a caso, è caratteristica di tutte le società più sviluppate; viceversa, le società personalizzate, per quanto più tranquillizzanti, pongono degli ostacoli insormontabili allo sviluppo delle potenzialità degli individui, ancorandoli indissolubilmente al contesto geografico, sociale e professionale nel quale sono nati.
Valutazione quantitativa del valore delle persone e delle famiglie, e radicale spersonalizzazione, sono caratteristiche della società romana che affiorano in modo prepotente nella documentazione storica e letteraria, soprattutto perché rappresentarono un’anomalia nella storia antica del mondo euro-mediterraneo. Molto spesso, quando gli scrittori antichi cercavano di caratterizzare ciò che era “romano” (in contrasto con ciò che non lo era), insistevano proprio su questi due fattori insoliti. La loro presenza, però, come si è già detto, non derivava da un qualche tipo di precondizione culturale insita nella storia di Roma, ma dalla semplice dimensione acquisita dallo spazio politico-amministrativo del territorio romano.
In linea generale, potremmo dire che la caratteristica forse più evidente della civiltà romana è stata quella di elaborare, gradualmente, e non senza traumi, un costrutto sociale, economico e politico che condusse al massimo sviluppo le potenzialità di un mondo ancora pre-industriale, permettendo a fasce straordinariamente ampie della popolazione di migliorare le proprie condizioni materiali di vita.
Quale diffusione e rilevanza economica aveva la prostituzione nel mondo romano?
Parlare di rilevanza economica di un’attività specifica nell’antichità classica rischia di essere un esercizio speculativo privo di senso pratico, perché non possediamo dati quantitativi sistematici. Non c’è dubbio che la prostituzione, femminile e maschile, fosse un fenomeno largamente diffuso nel mondo romano, così come in tutte le società complesse, soprattutto quelle caratterizzate da un grado molto elevato di spersonalizzazione. Nel valutare l’impatto economico e sociale delle attività collegate all’esercizio della prostituzione, non bisogna dimenticare che il mondo romano, così come tutto il mondo classico, utilizzava ampiamente l’istituto della schiavitù. La presenza degli schiavi causava un’alterazione della piramide sociale rispetto al modo in cui siamo abituati a pensarla nel mondo moderno, perché esisteva una categoria di persone attive nei più disparati settori dell’economia che, a livello giuridico, non erano neppure considerate esseri umani. Non è un caso che le attività fisicamente più gravose fossero in larghissima parte affidate a schiavi, e la prostituzione non faceva eccezione. Ogni anno, migliaia di schiavi e schiave, sull’immenso territorio dell’impero, erano sistematicamente avviati ai lupanari; le dinamiche che regolavano la loro vita, la loro capacità di costruirsi un futuro, i loro rapporti con i padroni, non dovevano essere significativamente diverse da quelle che condizionavano le prospettive di vita degli schiavi in qualunque altro settore economico ad alto sfruttamento.
Se la prostituta, o il prostituto, nella visione romana era considerato, per definizione, di condizione schiavile (e ogni schiavo era considerato potenzialmente avviabile a questa attività), esistevano certamente anche prostitute e prostituti di condizione libera, anche se le informazioni in proposito sono molto poche, e si limitano per lo più alle prescrizioni in materia contenute nel diritto. La documentazione storico-letteraria, al contrario, tende a concentrarsi soprattutto sulle cortigiane di alto livello, che, allora come oggi, dovevano essere una componente numericamente poco significativa, ma socialmente molto più visibile, dando la stura a innumerevoli leggende e pettegolezzi.
Il forte legame fra prostituzione e schiavitù appare evidente anche quando, negli ultimi secoli dell’impero, il graduale deterioramento delle condizioni economiche generali portò a una forte riduzione nel numero degli schiavi, perché non esisteva più quell’espansività continua che aveva innescato il fiorente mercato schiavile dei secoli precedenti, e perché il tenore di vita dei più poveri fra i liberi cittadini si era talmente abbassato che ricorrere al lavoro di miserabili (teoricamente) di condizione libera era diventato più conveniente rispetto all’acquisto di schiavi. Questo mutamento si vede bene, tra l’altro, dal fatto che gli scrittori cristiani che affrontarono il tema della prostituzione presupponevano che le donne coinvolte fossero prevalentemente di condizione libera (la prostituzione maschile, al contrario, sparisce completamente dal discorso, in quanto messa fuori legge dagli imperatori cristiani). Nella prospettiva di questi scrittori si incontrano due posizioni opposte: se per alcuni le prostitute sono l’incarnazione di una lussuria sfrenata, da combattere e reprimere, per altri, invece, si tratta solo di donne miserabili, costrette a una professione particolarmente turpe da condizioni di estrema povertà, che, per questo, devono essere piuttosto compatite e soccorse.
Si può definire la repubblica romana un ordinamento democratico?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe prima chiarire che cosa sia esattamente un “ordinamento democratico”, e, soprattutto, distinguere fra condizioni di diritto e condizioni di fatto, che non sempre si sovrappongono. Una democrazia moderna dove le condizioni sociali di fatto rendano irrilevante l’esercizio dei propri diritti, forse, può essere meno “democratica” rispetto, per esempio, a una monarchia del Rinascimento dove esistessero rapporti di fatto, all’interno delle strutture sociali su cui poggiava la nobiltà al potere, in grado di garantire un peso importante alle istanze della base.
Il modo in cui era esercitato il diritto di voto nella repubblica romana è abbastanza lontano da quelli delle democrazie attuali; il fatto che esistessero ampie fasce di residenti esclusi dai diritti politici (come le donne, che avevano solo i diritti civili, o gli schiavi, che non avevano neppure questi), inoltre, confligge con ciò che oggi intendiamo per “democrazia”. Nonostante questo, sono documentate molte situazioni dalle quali si evince che le pressioni della base dei cittadini potevano avere un ruolo rilevante, anche molto rilevante, nell’indirizzare le decisioni politiche degli organi di governo della repubblica romana. Se pensiamo alla politica della repubblica romana come a un affare interno a una cricca di nobili, non possiamo dare alcun senso a molti avvenimenti.
Che ruolo svolgeva la violenza nella lotta politica?
Anche se gli storici narrano di sporadici episodi di violenza politica avvenuti in epoche remote, a partire, se vogliamo, dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, il ricorso alla violenza divenne sempre più frequente nella tarda fase repubblicana, sfociando nelle ripetute guerre civili. La rapida espansione dello stato romano aveva reso obsolete strutture politiche e amministrative che erano state concepite per uno stato di dimensioni tutt’al più regionali; per questo motivo, a un certo punto divenne evidente che un uso accuratamente programmato della violenza poteva facilmente piegare procedure di governo ormai arcaiche e inadeguate. Tutto questo perdurò sino al compimento del supremo atto di violenza politica, l’instaurazione di un regime autocratico che mise fine agli scontri. A livello locale, tuttavia, la vita politica delle città romane rimase ancorata, ancora in piena età imperiale, a procedure di tipo repubblicano, con l’elezione annuale dei magistrati municipali da parte dei cittadini; a volte, questo poteva fornire l’occasione per la sporadica risorgenza di atti di violenza politica, che però potevano essere soggetti a repressione da parte del governo centrale.
Quale considerazione avevano delle donne i romani?
Non esiste una risposta univoca. Da una parte c’è l’ideologia della donna-moglie sempre fedele, che sta in casa, alleva i figli e fila la lana. Dall’altra, c’è una realtà molto sfaccettata, con un gran numero di donne attive nelle professioni più varie. Da un lato, c’è l’idea generale che il pater familias rappresenta il nucleo familiare, ne controlla il funzionamento, e ne amministra i beni; dall’altro le donne avevano capacità di possesso, di stipulare contratti, di ricorrere in tribunale a tutela dei propri beni e interessi. E ancora, da una parte, c’è l’idea che il cittadino maschio, unico titolare dei diritti politici, debba essere l’unico attore legittimo sulla scena pubblica, mentre, dall’altra parte, l’esistenza di (non pochi) grandi patrimoni poteva dare alle donne di famiglia ricca un potere sociale effettivo ben superiore a quello (teorico) dei cittadini maschi poveri. Anche in questo caso, quindi, è sempre opportuno distinguere fra situazione di diritto e situazione di fatto.
Quale immagine ci offrono degli imperatori gli storici romani?
Questo dipende essenzialmente dall’agenda politico-ideologica dei singoli storici. Ogni scrittore aveva i propri imperatori preferiti e le proprie bestie nere. C’erano sempre delle ragioni dietro qualunque scelta; alcune possiamo capirle con certezza, mentre altre possiamo solo ipotizzarle. L’uso delle fonti storiche richiede sempre considerazioni di questo genere.
Quanto sono affidabili le fonti antiche quando raccontano dettagli privati?
Molto poco – non più dei giornali scandalistici moderni. I dettagli privati di eventi avvenuti duemila o più anni fa non sono verificabili, e probabilmente non lo sarebbero stati nemmeno per i loro contemporanei. E, in ogni caso, si tratta di dettagli storicamente irrilevanti.
Questa cautela vale anche quando si vanno a maneggiare fonti molto informate e dettagliate. Per esempio, le motivazioni che Cicerone attribuisce ai suoi avversari (o alleati) politici vanno sempre viste con estremo sospetto. Non bisogna mai dimenticare che Cicerone era un uomo politico molto attivo e impegnato, e che, quando scriveva, teneva sempre conto dei propri obiettivi, perché gli scritti erano destinati a un pubblico. Per questo motivo, se la descrizione, spesso capillare, dei fatti è generalmente (ma non sempre) affidabile, i motivi, palesi e pubblici o personali e segreti, che avrebbero spinto questo o quel politico a prendere una specifica decisione sono sempre oggetto di una ricostruzione che non è mai neutra, ma è sempre influenzata dal modo in cui Cicerone voleva far apparire il personaggio. Tutto sommato, questo accade anche oggi; è normale che la stampa attribuisca a personaggi politici di parte avversa rispetto al giornalista (e alla testata) motivazioni che non necessariamente sono vere, ma che vengono ricostruite in modo da apparire verosimili a potenziali lettori – a maggior ragione se si tratta di motivazioni immorali e condannabili (e la diffusione delle notizie via web su piattaforme indipendenti ha solo peggiorato la situazione).
Enrico Benelli, archeologo, specializzato in etruscologia, si è dedicato in modo particolare allo studio dell’epigrafia etrusca della fase recente (IV-I secolo a.C.), evidenziandone l’enorme potenzialità come fonte storica. Questo lo ha portato a condurre ricerche che escono spesso dall’ambito specifico dell’etruscologia, nelle quali si incrociano temi epigrafici, archeologici, storici e sociologici. È ricercatore presso l’ISMed CNR e ha insegnato in università italiane e straniere.