
Da qui, lo Stradivari mai suonato prese appunto il suo nome. Oggi è custodito al Museo Ashmolean di Oxford, dove rimarrà per sempre, senza che nessuno lo possa suonare, poiché l’inutilizzo lo ha reso troppo fragile.
Tarisio aveva ormai quasi sessant’anni quando, una sera del 1854, rientrato nella sua misera ma ben custodita dimora, non fu più visto uscire per giorni. I vicini avvisarono le guardie che sfondarono la porta: l’uomo giaceva morto su un divano con due violini stretti al petto. In quella misera stanza, oltre a una grossa cifra in denaro e oro, erano riuniti più 100 violini dei maggiori maestri, i più importanti strumenti ad arco mai prodotti, tra cui il celebre Messia, che ispirerà la liuteria francese dell’ottocento e darà inizio al mito di Antonio Stradivari.
Quali misteri avvolgono la figura del grande liutaio?
La figura di Antonio Stradivari è avvolta dal mistero fin dalla nascita – non si conoscono né il luogo né la data in cui venne al mondo – e sino alla morte, le cui cause restano ignote. In mezzo, una vita a tinte fosche, a partire dagli esordi segnati da un omicidio. Infatti, il 27 aprile 1664, il falegname Giovanni Giacomo Capra venne ucciso con un’archibugiata da Giovanni Pietro Ferraboschi, fratello della moglie Francesca, per motivi rimasti ignoti. Francesca Ferraboschi era “incinta e nell’impossibilità a provvedere a se stessa”, per di più era la sorella dell’omicida che, nel frattempo, si era dato alla macchia.
È a questo punto che entrò in scena Antonio Stradivari, protetto dal grande intagliatore Francesco Pescaroli, presso il quale era ospitato come famiglio. Stradivari si offrì di sposare Francesca Ferraboschi e di provvedere a lei, il Pescaroli gli fece da garante e gli offrì una casa con bottega da falegname.
Un matrimonio riparatore in piena regola, possibile solo grazie all’intercessione dell’influente Pescaroli e della potente famiglia Capra, che non portò una cospicua dote ad Antonio Stradivari, ma che gli consentì di liberarsi della condizione di famiglio, ottenere una casa con bottega e un lavoro.
Un altro mistero che avvolge la figura del grande liutaio è senza dubbio quello che riguarda il suo volto. Infatti, nonostante fosse uno dei cremonesi più ricchi e famosi dell’epoca, non si fece mai ritrarre com’erano invece usi fare i nobili, gli artisti, gli alti prelati e i ricchi borghesi. Come mai? Nessuno conosce la risposta.
Quel che è certo è che esistono tante opere raffiguranti Stradivari, ma tutte di fantasia e nessuna che possa godere di qualche attendibilità, la più famosa della quale è senza dubbio “Stradivarius dans son atelier” di Edouard Jean Conrad Hamman, pittore romantico vissuto tra il 1819 e il 1888 autore di numerosi soggetti storici. Il grande liutaio è rappresentato non come l’artigiano curvo sul suo banco da lavoro, ma come il genio che sta creando la sua opera: scruta la sua creatura cercando di infondervi lo spirito vitale che sprigiona quell’aria pensosa, il solo che può animare la materia inanimata, che può far sorgere da quell’oscuro assemblaggio di legno, il suono dell’armonia. L’opera, proprio per quell’aura romantica che la anima, ebbe grande fortuna: fu riprodotta in litografia, su cartolina e su una serie di francobolli emessa durante il bicentenario del 1937. Dopo una prima esposizione a Parigi nel 1859, il quadro di Hamman è sparito senza lasciare traccia e oggi se ne ignora la collocazione, come se tutto ciò che riguardi Antonio Stradivari sia in qualche modo destinato a venir inghiottito dal mistero e dall’ignoto.
Cosa rende così speciali gli strumenti costruiti da Antonio Stradivari?
Antonio Stradivari fece ciò che ogni allievo di talento dovrebbe fare: superò il maestro, Nicolò Amati, modificando le sue forme e intervenendo sulla misura (violini lunghi fino a 36 cm), sulle bombature (più piene), sulle f (più larghe e più ravvicinate) e, soprattutto sull’inclinazione del manico. Da genio qual era, incontrò la modernità e diede ai suoi strumenti quell’inconfondibile potenza di voce che ben si adattava alla musica dell’epoca, eseguita non più in piccoli ambienti bensì nei teatri. Una quantità di suono, oltre che qualità, che nessun altro strumento era in grado di garantire, una tecnica creativa che gettò le basi per la liuteria moderna.
Tuttavia, secondo gli esperti, questo non basterebbe a giustificare l’unicità del suono dei suoi strumenti, al punto che si è venuta a creare la leggenda del segreto di Stradivari. Esistono diverse ipotesi, frutto di studi condotti da grandi istituti come l’ M.I.T di Boston, la Texas A&M University e il Laboratorio Arvedi di Diagnostica non invasiva dell’Università di Pavia. Alcuni studiosi sostengono che l’eccellente qualità acustica degli strumenti dipenda da un composto di silicato di potassio e di calcio da lui usato per la preparazione dei legni, che andava a scegliere personalmente in Val di Fiemme, altri affermano che in quel periodo si verificò una piccola glaciazione che consentiva agli alberi di crescere in modo sano e con gli anelli particolarmente regolari, caratteristiche queste che consentirono a Stradivari di usare legni privi di imperfezioni. Per l’M.I.T il segreto del suono degli Stradivari risiede nella forma delle f , altri esperti affermano che sia merito di una vernice speciale di cui l’avvocato di Gallarate Giacomo Stradivari – erede del grande liutaio – ha ritrovato la ricetta su una vecchia Bibbia appartenuta al suo avo, ma che non vuole condividere.
Le analisi di un recente studio effettuato da un team di scienziati e liutai francesi e tedeschi hanno, invece, rivelato che Stradivari utilizzava due strati di vernice: un semplice olio siccativo in grado di penetrare fino a un decimo di millimetro nel legno dello strumento – che veniva probabilmente utilizzato come sigillante – e un secondo strato costituito da olio, resina di pino e pigmenti, smontando la teoria di ingredienti segreti a favore di una straordinaria abilità realizzativa del grande liutaio, in grado di costruire strumenti non solo dalla voce di rara brillantezza e intensità, ma anche molto belli, caratterizzati da una vernice variabile tra l’arancione e il bruno rossastro, con riflessi d’ambra.
Molte supposizioni, ma nessuna certezza, tranne quella che nessuno è ancora riuscito ad eguagliarne l’eccezionalità. E forse mai ci riuscirà.
Marco Ghizzoni è nato a Cremona, dove vive, nel 1983. Ha pubblicato con Guanda i romanzi Il cappello del maresciallo (2014), I peccati della Bocciofila (2015) – entrambi usciti anche in edicola con «la Repubblica» e «L’Espresso», e in formato tascabile con TEA – e L’eredità del Fantini (2016), che compongono la trilogia di Boscobasso. Con TEA ha pubblicato anche il romanzo Gli accordi di Stradivari (2019). Nel 2020 ha pubblicato la raccolta di racconti Il muro sottile con Oligo editore. Quando non scrive, lavora nel settore commerciale di una multinazionale.