
Che nesso esiste tra potere e violenza?
La prima parte del volume esplora proprio il nesso intimo e nascosto che lega il fenomeno della violenza con quello del potere, e dunque con la politica. La vicenda di primo Novecento ha drammaticamente cristallizzato l’intensità di questo legame, efficacemente restituito da autori classici che hanno interpretato la violenza come la forma prima, originaria e più essenziale di potere. E dunque come «mezzo specifico» della politica, secondo il lessico weberiano o, ancor più intensamente, come origine segreta di un «concetto del politico» di cui Carl Schmitt ha inscritto il principio nella coppia amico-nemico propria del paradigma della guerra. Nel potere di offendere il corpo altrui, che fa leva sull’inamovibile vulnerabilità umana, sarebbe insomma da riconoscere la forma più elementare di potere, inteso quale capacità di comando cui risponde obbedienza. Il lemma tedesco Gewalt – che designa la violenza – è particolarmente rappresentativo di questo aspetto, dal momento che la sua etimologia indica primariamente l’“avere potere di disposizione su qualcosa” e il suo ampio significato abbraccia non solo la nozione di violenza, ma anche parte di quelle di forza pubblica, autorità, potere: sembra cioè incorporare anche la presa in carico della capacità di violenza da parte del potere sovrano (si pensi al potere legislativo come gesetzgebende Gewalt). Alla comprensione del rapporto fra violenza e potere tesa a sottolineare la continuità fra i due fenomeni si sono venute poi giustapponendo, nel secondo Novecento, concezioni “discorsive” attraverso cui autori come Arendt, Habermas, Luhmann hanno invece sottolineato i punti di radicale alterità del fenomeno del potere rispetto a quello della violenza. Hanno cioè proposto concezioni centrate sulle interazioni nello spazio pubblico e sulla sfera linguistica e comunicativa quale vettore fondamentale dei rapporti di potere che innervano e muovono le società democratiche. Le molteplici e complesse vicissitudini di questi dibattiti sembrano comunque confermare il fenomeno del potere quale angolo epistemico principale attraverso cui pensare il concetto di violenza e definire il suo rapporto con la sfera politica – e dunque la stessa categoria di “violenza politica”.
Che ruolo incarna lo Stato nella dialettica tra violenza e diritto?
La violenza è il problema intorno a cui la moderna teoria politica e sociale è andata organizzandosi in dottrine e istituzioni, in un progetto di ordine volto al superamento della situazione di pericolo e guerra permanente simboleggiata dalla metafora dello “stato di natura” e dall’adagio hobbesiano dell’homo homini lupus. Le prime formulazioni di una dottrina dello Stato hanno inscritto la radice del contratto sociale in questa esigenza di protezione, pensando la legittimazione del potere come una funzione di sicurezza compendiata nella formula del protego ergo obligo. Lo Stato moderno è emerso come istituzione tesa a rimuovere la violenza dalle relazioni sociali attraverso la fondazione di un potere politico che, per perseguire il suo scopo di ordine, deve dotarsi di una propria violenza specifica e organizzarla razionalmente per renderne incontestabile la minaccia. Di qui la circolarità di potere e violenza, l’“aporia hobbesiana” di un’istanza sovrana che mira a elidere la violenza dalle relazioni sociali fondando e avocandosi una forza coattiva irresistibile. Lo Stato è tale nella misura in cui è efficace e indiscutibile la sua minaccia coattiva verso chi viola le norme: ciò è condizione necessaria affinché esso possa funzionare da macchina di protezione dei cittadini ed esigere il rispetto dell’ordinamento per garantire protezione dalla violenza. La celebre definizione weberiana dello Stato quale monopolista della violenza legittima cristallizza, all’inizio del Novecento, il pieno sviluppo di questa tendenza. Ed è esattamente da questo sviluppo che emerge la questione dell’ambiguo rapporto fra violenza e diritto, vale a dire fra potere coattivo e istanze giuridico-istituzionali volte alla sua limitazione. Si tratta dell’irresolubile tensione interna a un processo di concentrazione e monopolizzazione sovrana della violenza legittima che crea e rende possibile il diritto, il quale a sua volta costituisce tuttavia l’unica alternativa ad essa, il principio deputato a immunizzare i soggetti dalla violenza che garantisce l’ordinamento e la sua persistenza. Da questa tensione emergono, da una parte, i processi di monopolizzazione statuale della violenza e dunque di sua conversione in forza coercitiva legittima, e, dall’altra, le imprese di “domesticazione del Leviatano” condotte essenzialmente per mezzo del diritto – del costituzionalismo, dei diritti umani e civili, dello Stato di diritto. Imprese che, nella storia europea, coesistono e si scontrano con movimenti di segno opposto, quali guerre, genocidi, rivoluzioni che fanno emblematicamente riemergere il nesso fra la sfera politico-giuridica e quella della violenza. La tensione fra il monopolio statuale violenza e la sua regolazione-limitazione attraverso il diritto è insomma destinata a rimanere aperta e sedimentarsi soltanto in equilibri precari.
L’arma nucleare rappresenta una forma di ‘violenza incommensurabile’: come si esprime la violenza nella guerra attuale?
La minaccia atomica rappresenta in maniera emblematica il nesso fra violenza e politica articolatosi nella seconda metà del Novecento. L’ingresso della violenza nucleare nel panorama della storia ha costituito un vero spartiacque nella comprensione del fenomeno della violenza e dei suoi significati politici perché per la prima volta nella storia – dunque prima del riscaldamento globale – ha posto il problema dell’estinzione della nostra specie. Ha ciò inscritto all’ordine del giorno della storia l’autodistruzione dell’umanità quale esito del pieno scatenamento della violenza interumana condotta a un punto di massima intensità attraverso la tecnica. E tuttavia, nella vicenda della Guerra fredda, la minaccia della violenza nucleare ha avuto anche il paradossale effetto di funzionare come una sorta di nuovo Leviatano che, proprio per il suo potenziale di distruzione dell’intera specie, ha di fatto reso impraticabile l’effettivo innesco del conflitto armato. Il tramonto dell’ordine bipolare del mondo e dell’angoscioso equilibrio della pax atomica ha poi indotto una trasformazione profonda del fenomeno della guerra, che per quasi mezzo secolo aveva coinciso con l’intervento di potenze statuali in aree destabilizzate. Negli ultimi tre decenni la guerra ha in qualche modo perso la sua “forma” e i suoi “confini”, entrando in un’are di crescente indeterminazione, ove la distinzione fra civili e combattenti si fa più sfumata, le parti belligeranti non sono più soltanto Stati mentre sembrano venir meno elemento fondanti del fenomeno bellico come eserciti regolari, simmetria, convenzioni, stabili fronti di conflitto, logiche e obiettivi geopolitici chiari. La lunga parabola della war on terror ha efficacemente restituito questa tendenza agli occhi del mondo dispiegando un lungo conflitto segnato anzitutto da un’inedita asimmetria fra le parti.
La violenza politica si esprime anche nel controllo dei confini, per controllare e impedire le migrazioni: quali forme assume questa dimensione di così stretta attualità?
La violenza abita evidentemente molteplici aspetti del fenomeno migratorio, che è divenuto ormai un tratto costitutivo del nostro presente globale. Abita la sua origine, quando si emigra per fuggire guerre, torture, genocidi, dispotismi, o anche quella che qualcuno definirebbe una violenza “sistemica” che riduce in povertà intere popolazioni. È presente nei traffici e nelle terribili dinamiche delle migrazioni illegali così come negli esiti e nell’impatto che esse possono avere sui territori urbani. Ma anche nella forza coattiva che gli Stati esercitano per controllare i propri confini e arginare o respingere fenomeni e flussi migratori considerati irricevibili, in particolare attraverso l’istituzione di “campi” e centri di detenzione temporanea il cui profilo giuridico manca di chiarezza facendo costantemente riemergere la questione dei diritti umani. Per questo il dibattito sul modo in cui gli Stati debbano dispiegare la loro forza coercitiva nel governo delle crisi migratorie è oggi delicato e decisivo.
Come è destinata a evolvere, a Suo avviso, la violenza nello scenario politico-sociale?
È estremamente difficile e forse inopportuno avanzare previsioni di questo genere. Si può semmai provare a indicare alcuni fenomeni maggiori e, a partire da essi, ipotizzare tendenze possibili. In questo ambito, il campo di processi su cui concentrare lo sguardo sono quelli che investono la guerra e le sue trasformazioni, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo del terrore, sia da parte di formazioni terroristiche sia da parte degli Stati (per esempio nell’uso massivo di droni). Nel campo sociale, poi, sembra a mio avviso giunto il momento di sferrare un colpo decisivo alla violenza di genere, una piaga vergognosa ancora presente nelle nostre società. Al di là di questi elementi, è secondo me importante osservare sempre con attenzione anche le rappresentazioni e percezioni sociali della violenza, ovvero il modo in cui certi fenomeni vengono designati come violenti. Un elemento centrale di comprensione della violenza è infatti costituito dal suo essere anche una costruzione sociale e politica: esiste anzitutto laddove viene designata come tale da una posizione autorizzata a conferire senso alla situazione. È un significante cui possono essere connessi infiniti significati, la cui definizione poggia sempre su un irriducibile nucleo di valutazioni normative e procede parallelamente al giudizio sul fenomeno designato come “violento”. Le conseguenze di cui gli atti violenti sono latori sugli individui e sui contesti in cui agiscono fanno sì che la nozione di violenza non sia mai neutra, ma sempre carica di fondamenti valutativi che rendono la produzione dei suoi significati un processo conteso e conflittuale. Al punto che l’esercizio di definire la violenza e classificarne le differenti fattispecie potrebbe costituire un criterio pieno di significazione di differenti concezioni della politica e della società. L’indagine della violenza deve pertanto guardare non solo alle effettive manifestazioni del fenomeno, ma anche alle sue rappresentazioni sociali, ai mutamenti nel modo di comprenderlo e descriverlo. Deve cioè interrogare il modo in cui cambia la «sensibilità» della nostra civiltà nei confronti delle differenti forme in cui la violenza accade, affinando, ad esempio, il proprio sguardo su sé stessa fino a riconoscere pratiche violente laddove prima non arrivava a scorgerle, o, al contrario, maturando maggiore tolleranza verso determinate forme di violenza o coercizione. L’ampiezza dello spettro di fenomeni che possono essere abbracciati dal lemma violenza, questa sua polisemia fa sì che sia dentro una specifica configurazione di rapporti sociali e politici che la violenza acquista il suo statuto di verità, in un processo che incorpora un giudizio normativo e il potere di affermarlo, di definire la situazione – che risulta cioè anche dalla capacità di determinati attori di diffondere e convalidare la propria visione del mondo. Si pensi all’annosa questione se si possa o meno parlare propriamente di “violenza” per designare le pratiche coercitive volte al controllo delle migrazioni o gli usi della forza che pertengono agli apparati statuali e che agiscono spesso sullo scivoloso crinale fra norma ed eccezione – come emerge in questo periodo dalle mobilitazioni negli USA contro le violenze poliziesche.
Federico Tomasello è research associate nel Robert Schuman Centre for Advanced Studies dell’European University Institute di Fiesole e assegnista nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Fra le sue pubblicazioni: La violenza. Saggio sulle frontiere del politico (2015), La questione francese. Marx e la critica della politica (2018), L’inizio del lavoro. Teoria politica e questione sociale nella Francia di primo Ottocento (2018), L’ordine della città. Violenza e spazio urbano (2020).