
Per rispondere a questa domanda può essere utile muovere dalla distinzione di Raymond Verdier tra due modi di attuare una vendetta. Il primo modo – chiamato da Verdier “registro vendicativo” – consiste nel compimento di un atto individuale e privato, la cui responsabilità ricade interamente sul soggetto che lo compie. Il secondo modo – chiamato da Verdier “registro vendicatorio” – consiste invece nell’esecuzione di un atto che ha una valenza collettiva e pubblica, la cui responsabilità ricade sull’intero gruppo al quale appartiene il soggetto che lo compie.
Alla luce di questa distinzione il rapporto tra diritto e vendetta è duplice.
Nel registro vendicativo la vendetta è un atto – per lo più “istintivo” o “semi-istintivo” – distruttivo per la società, e come tale esso è disapprovato e punito dal diritto (nel diritto italiano, per esempio, l’art. 392 del codice penale punisce il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni). Nel registro vendicatorio, al contrario, la vendetta è accettata all’interno della società, a condizione che sia disciplinata rigorosamente da regole pubbliche (anche se non scritte), che autorizzano l’esercizio della vendetta e ne fanno un istituto propriamente giuridico.
La vendetta di sangue, documentata nei cosiddetti “diritti primitivi”, è forse la forma più caratteristica, oltre che più antica, di registro vendicatorio: essa infatti non è una reazione istintiva e spontanea, ma un dovere incombente sulla parte offesa e sul suo gruppo parentale, ed è diretta contro tutti gli appartenenti al gruppo parentale dell’offensore.
In alcune ricerche pubblicate a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, il filosofo del diritto Hans Kelsen ha mostrato persuasivamente che se una caratteristica essenziale del diritto in quanto ordinamento coercitivo è l’istituzione di un monopolio della forza da parte della comunità (il che significa che l’utilizzo della forza è vietato all’individuo e riservato alla comunità), anche in una comunità giuridica primitiva è possibile parlare di monopolio della forza: nelle comunità giuridiche primitive, infatti, l’individuo che esegue la vendetta è autorizzato a porre in essere l’atto coercitivo della vendetta in determinate circostanze individuate in modo preciso dall’ordinamento giuridico. È il gruppo, secondo proprie regole, ad autorizzare l’uso della forza contro l’individuo o il gruppo responsabile della violazione dell’ordinamento. Quantunque nel diritto primitivo prevalga il principio della autodifesa, un atto coercitivo – come per esempio una vendetta di sangue – ha il carattere di una sanzione (e non di un delitto) ed è interpretato come una reazione della comunità giuridica contro il trasgressore e contro il gruppo responsabile del delitto. L’autodifesa è quindi concepita come l’esercizio di un monopolio “decentrato” della forza da parte della comunità. Soltanto con la formazione degli Stati si assiste alla graduale “centralizzazione” del monopolio dell’uso della forza, che viene pertanto sottratto agli individui e trasferito nelle mani di un organismo centrale.
Quando e come si sviluppa la nozione di giustizia vendicatoria?
Numerose sono le anticipazioni della teoria della vendetta come fenomeno giuridico, e sono documentate già a partire dalla seconda metà del XIX secolo (es. Numa Fustel de Coulanges). Nel XX secolo, oltre al contributo di Kelsen, uno degli sforzi più originali in questa direzione è stata l’indagine del filosofo del diritto Antonio Pigliaru sul “codice” della vendetta barbaricina (1959). Successivamente, la ricerca più ampia e significativa sulla vendetta è stata promossa dall’antropologo Raymond Verdier, e si è tradotta nella pubblicazione di quattro densi volumi intitolati La vengeance. Études d’ethnologie, d’histoire et de philosphie (1980).
Le ricerche più recenti, inaugurate dall’antropologo catalano Ignasi Terradas Saborit, pur collocandosi nel solco delle scoperte di Pigliaru e di Verdier, costituiscono un significativo ampliamento della nozione stessa di registro vendicatorio. Parlare infatti di una “giustizia vendicatoria” significa, per Terradas, riconoscere l’esistenza di un vero e proprio ordinamento giuridico che presiede ad una modalità alternativa di ottenere giustizia, alternativa rispetto alla modalità tipica degli ordinamenti giuridici moderni e contemporanei incentrati sulla distinzione tra punizione del delitto (giustizia penale) e risarcimento del danno (giustizia civile).
L’ordinamento vendicatorio è, secondo Terradas, l’ordinamento giuridico caratteristico delle società che non conoscono la distinzione tra giustizia penale e giustizia civile. Un ordinamento vendicatorio è un sistema coerente e completo di regole e di valori (tutt’altro che un pre-diritto!), la cui norma fondamentale impone il dovere di riparare l’offesa recata. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il nucleo dell’ordinamento vendicatorio è costituito, in particolare, dalle regole che disciplinano la pratica della composizione, ossia di quell’accordo, talora accompagnato dal pagamento di denaro, che può determinare la riconciliazione tra la parte offesa (e il suo gruppo parentale) e l’offensore (e il suo gruppo parentale) a seguito del riconoscimento dell’offesa. Soltanto nell’ipotesi in cui l’offesa sia particolarmente grave, e non suscettibile di espiazione, l’ordinamento vendicatorio può imporre l’allontanamento dell’offensore dalla comunità mediante l’esilio e/o può autorizzare la vendetta anche cruenta (ma sempre rigorosamente disciplinata) nei confronti dell’offensore. La vendetta costituisce inoltre il rimedio principale nel caso in cui l’accordo di riconciliazione venga disatteso.
L’esistenza di ordinamenti vendicatori è ampiamente documentata nel diritto “primitivo”, antico, medioevale e in alcune società contemporanee di tipo tradizionale (es. la Barbagia).
Aspetti salienti del fenomeno della giustizia vendicatoria sono dunque: (i) la preferenza accordata alla composizione, che rende residuale il ricorso alla vendetta e (ii) la natura giudiziale della vendetta che deve comunque essere sempre autorizzata nell’ordinamento vendicatorio da una autorità super partes.
Quali sono gli istituti e gli ordinamenti attraverso i quali si è storicamente espressa la giustizia vendicatoria?
L’istituto più tipico attraverso il quale si esprime la giustizia vendicatoria è la pratica della composizione.
Non è facile per noi comprendere il senso di questa pratica, e la tentazione è spesso quella di classificarla, con sguardo moderno, come una “pena pecuniaria”. In realtà la composizione non è affatto una pena; essa è un accordo tra le parti, caratterizzato da una forte componente simbolica, e al quale spesso (ma non necessariamente) si accompagna il pagamento di una somma di denaro (come indennità per il danno recato) (cfr. Riccardo Mazzola, Componere. Offesa e riconciliazione nell’ordinamento vendicatorio, in corso di edizione).
Una guida straordinaria alla comprensione di questa pratica ci è fornita dalla descrizione del diritto altomedioevale per opera dello storico francese Fustel de Coulanges (La Monarchie franque, 1888, trad. parziale in P. Di Lucia e L. Mancini, La giustizia vendicatoria, 2015, pp. 57-77). Egli osserva che la composizione era una pratica tipica delle consuetudini giuridiche germaniche, ma non era ignorata neppure dal diritto romano “quantunque la legislazione la autorizzasse in misura più limitata e quantunque non la autorizzasse in caso di omicidio”.
Per dare un’idea della complessità del sistema della giustizia vendicatoria, accanto alla composizione, si registrano almeno altri sette istituti caratteristici dell’ordinamento vendicatorio: l’offesa, l’imprecazione, l’oracolo, la vendetta autorizzata, il taglione, l’ordalia, il giuramento. All’analisi di questi istituti è dedicata la prima monumentale opera di Terradas, intitolata Justicia vindicatoria (2008).
Il volume raccoglie sette contributi provenienti da tre diverse aree di studio: la storia del diritto, l’antropologia giuridica e la filosofia. Di quale utilità è un approccio interdisciplinare nello studio della giustizia vendicatoria?
Lo studio della vendetta come fenomeno giuridico è stato coltivato da antropologi, giuristi e storici del diritto a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Ma la vendetta ha suscitato da sempre la l’interesse speculativo dei filosofi. Aristotele, per esempio, nell’Etica nicomachea si domanda – in polemica con i Pitagorici – se l’atto di restituire il male con il male (il contraccambio, tò antipepontós) corrisponda al concetto di giustizia. La risposta di Aristotele, che verrà ripresa diffusamente da Tommaso d’Aquino, è affermativa, a condizione che il male restituito sia proporzionale al male subito. Una interessante analogia si può notare con il già citato “codice della vendetta barbaricina”, nel quale si legge all’art 18: “la vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva”.
Le ricerche sulla giustizia vendicatoria si sono giovate e si giovano tuttora di molte e differenti competenze: linguistiche, antropologiche, filosofiche, giuridiche, storiche. Per menzionare queste ultime soltanto, ricorderò che proprio ad uno storico, Nino (Giovanni) Tamassia, si deve il merito di aver notato che quando Tacito descrive l’amministrazione della giustizia presso gli antichi Germani, il verbo usato da Tacito ‘vindicare’ designa un complesso procedimento di tipo giudiziale incentrato proprio sulla pratica della composizione (il brano è parzialmente riprodotto nel volume Vindicta, alle pp. 47-50).
È possibile immaginare nuovi paradigmi di giustizia in grado di superare radicalmente il modello di giustizia vendicatoria?
Secondo Fustel de Coulanges, la pratica della composizione “si ritrova presso tutti i popoli antichi nei quali l’autorità pubblica non è abbastanza forte da punire essa stessa i crimini”. Alla luce di questa osservazione si potrebbe pensare che il sistema della giustizia vendicatoria sia stato “superato” dal sistema della giustizia penale che caratterizza gli Stati moderni e contemporanei. Ciò tuttavia sarebbe in contraddizione con le premesse epistemologiche che, secondo Terradas, sono alla base dell’elaborazione del concetto di giustizia vendicatoria. Secondo queste premesse, infatti, un ordinamento vendicatorio non è semplicemente un diritto embrionale, ancora imperfetto e incompleto (un diritto statu nascenti): esso è piuttosto un ordinamento completo, coerente e unitario, dotato di propri istituti tipici, che presiede ad una modalità di ottenere giustizia alternativa a quella del sistema della giustizia penale. Non si tratta quindi, secondo Terradas, di “superare” il paradigma vendicatorio, ma di studiarne le dinamiche effettive. Se si individua il nucleo dell’ordinamento vendicatorio nella ricerca di una composizione tra le parti avverse, l’analisi di questo ordinamento può offrire spunti preziosi di riflessione su alcuni limiti del diritto penale contemporaneo. È forse per questa ragione che si registra un crescente interesse per la giustizia vendicatoria da parte di studiosi del diritto impegnati nella formulazione di paradigmi alternativi al diritto penale (come il paradigma della cosiddetta restorative justice).
Paolo Di Lucia è professore ordinario nell’Università di Milano, dove insegna Filosofia del diritto e Giustizia vendicatoria, ed è professore invitato nella Facoltà di Teologia di Lugano, dove insegna Filosofia del diritto e diritto delle religioni. Le sue ricerche riguardano principalmente la filosofia del linguaggio normativo, l’ontologia sociale, la filosofia della giustizia. Ha curato la riedizione di alcune opere giovanili di Norberto Bobbio e, insieme a Lorenzo Passerini Glazel, ha tradotto scritti di Hans Kelsen e di John R. Searle. Tra le sue pubblicazioni: Il linguaggio del diritto (ed. con U. Scarpelli, 1994); L’universale della promessa (1997); Normatività. Diritto, linguaggio, azione (2003); Ricerche di Filosofia del diritto (con A. G. Conte, A. Incampo, G. Lorini, W. Żełaniec, 2007, ed. a cura di L. Passerini Glazel), Revisiting Searle on Deriving Ought from Is (ed. con E. Fittipaldi, 2020).