
Ma negli anni seguenti il mito rooseveltiano perde gran parte del suo fascino. E quando nasce l’Ani, nel 1910, prevale l’idea di affrancarsi dai modelli stranieri: le “suggestioni del mondo”, per dirla con Gioacchino Volpe, erano state tali, ma era giunto il momento per l’Italia di cercare nuovi spazi sullo scacchiere mondiale in autonomia, senza guardare troppo all’estero. Negli anni 1910-1914, infatti, il rapporto con gli Stati Uniti si raffredda, e non c’è più traccia dell’entusiasmo di inizio secolo. Il più delle volte, per esempio, l’America viene giudicata negativamente per come vengono trattati e sfruttati gli emigrati italiani che solcano l’Oceano in cerca di fortuna.
In che modo il giudizio verso gli Stati Uniti mutò nel periodo della Grande guerra?
In una prima fase, la decisione di Wilson di restare fuori dal conflitto fu aspramente criticata da «L’Idea Nazionale» e dagli altri giornali d’area. Il governo americano, com’è noto, optò per la neutralità fino all’aprile 1917. E fino quel momento, gli Stati Uniti vengono tacciati di affarismo, giudicati colpevoli di interessarsi solo ai loro traffici, senza nessuna spinta ideale che portasse a un loro coinvolgimento più sostenuto in termini militari. In un articolo scritto sul finire del 1916, Francesco Coppola accusa gli Stati Uniti di voler «instaurare in Europa e nel mondo l’era apocalittica della giustizia e della fratellanza universale». Gli americani restavano un popolo di mercanti: tutt’altra cosa rispetto ai “guerrieri latini” tanto cari ai nazionalisti. Questo scenario cambia radicalmente con l’intervento americano in guerra. Fu certamente un punto di svolta nella percezione nazionalista: gli Stati Uniti si erano mossi per reagire alle «atrocità tedesche» e si sottomettevano «con ardore alla legge della guerra», scriveva Enrico Corradini. E un altro articolo elogiava le «affermate qualità di condottiero di popoli» del presidente Wilson. A consolidare questa visione contribuì anche una intensissima campagna propagandistica svolta da varie associazioni statunitensi, tra cui il Committe on Public Information. Altri fatti non trascurabili furono la celebrazione del 4 luglio, festeggiato a Roma quasi come fosse una ricorrenza-chiave della storia nazionale italiana, e la presenza di un reggimento sul nostro territorio. Il che, se dal punto di vista militare ebbe un impatto minimo, ne ebbe uno efficacissimo sul piano simbolico.
Che rapporti vi furono tra nazionalismo e wilsonismo?
I rapporti tra i nazionalisti e la dottrina che fa riferimento a Woodrow Wilson furono caratterizzati da una diffidenza reciproca e furono oggetto di una continua messa a punto. Nei primi mesi successivi alla fine della guerra mondiale, il wilsonismo veniva accostato dai nazionalisti all’imponente mobilitazione del popolo americano e alla scelta di combattere contro la “barbarica” Germania. Schierandosi a favore della civiltà europea e “latina”, Wilson non poteva che essere osannato dai nazionalisti, pur con alcuni sospetti sulla Società delle Nazioni e sul latente antieuropeismo del presidente americano.
Tutto cambia con il Trattato di Versailles: in quel frangente, giorno dopo giorno, divenne chiaro che il wilsonismo, basato com’era sull’autodeterminazione dei popoli, difficilmente avrebbe potuto armonizzarsi con le mire del nazionalismo italiano sull’Adriatico, dove Fiume era il vero pomo della discordia. La consapevolezza che Wilson non sarebbe stato di alcun aiuto per risolvere la contesa – un fatto dovuto alla scarsa conoscenza reciproca tra Italia e Stati Uniti – portò a un progressivo irrigidimento delle due posizioni e alimentò la rabbia dei nazionalisti verso il presidente statunitense. Un astio di cui si fece interprete tutta la stampa nazionalista, che arrivò a definire Wilson «freddo calcolatore» e «l’inesorabile nemico delle aspirazioni italiane». In Italia montò verso di lui un odio così viscerale che “figlio di Wilson” divenne un’ingiuria diffusa.
A quali fonti si è rivolto per il suo studio?
Oltre alla bibliografia sul tema e all’ampia memorialistica interna al nazionalismo italiano, ho cercato di allargare lo sguardo ai principali studi di carattere internazionale per mettere a fuoco l’evoluzione del contesto americano nel periodo considerato.
Fonti preziose sono stati i giornali nazionalisti, ancora poco studiati in maniera sistematica: soprattutto «L’Idea Nazionale», fondato nel 1911, e il mensile «Politica», nato a fine 1918 e dedicato principalmente alla politica estera. Ma spunti di indubbio interesse sono giunti anche da una serie di fogli locali e riviste più di settore: strumenti indispensabili per ricostruire le varie correnti del nazionalismo italiano e la loro percezione dell’articolato mondo anglosassone.
Nell’archivio della Fondazione Gualtiero Castellini, custodito presso la Biblioteca delle Civiche Raccolte Storiche di Milano, ho potuto inoltre consultare diversi documenti inediti relativi al periodo, con particolare interesse riguardo ai finanziamenti de «L’Idea Nazionale» e al periodo della Grande Guerra.