
La diagnosi non può essere mai un momento positivo, accompagnandosi a una cultura popolare assodata che associa la parola cancro automaticamente a sofferenza e morte.
Ma da quel momento il vissuto della malattia da parte del paziente dipende da come gli operatori e l’organizzazione dei centri e delle Reti Oncologiche riescono a rapportarsi con lui.
È difficile, a mio parere, stabilire regole generali di comunicazione valide per tutti.
Moltissimo è già stato detto, scritto e viene ottimamente applicato.
Questa malattia, però, è polimorfa e viene diagnosticata e affrontata in momenti diversi del suo sviluppo. Inoltre la reazione di ciascun paziente alla malattia e alle terapie è in molta parte imprevedibile e non classificabile completamente in schemi statistici. Oltre alla situazione di partenza del paziente e al suo stato di salute generale, la fenomenologia famigliare e sociale sono molto differenziate e ne influenzano in modo determinante lo stato psichico, emotivo, quando non quello fisico.
Carattere, cultura, preparazione, autorevolezza, esperienza e livello organizzativo degli operatori, che si prendono cura del malato dopo la diagnosi, incidono, poi molto sulla situazione del singolo.
La grande difficoltà sta nel conoscere il più possibile il paziente per comunicare al meglio e con la giusta carica umana ed emotiva i piani di intervento, la necessaria assistenza. Tutto questo si realizza, e già avviene in molte occasioni, con una stretta e continua collaborazione tra i componenti delle équipe, ma anche tra operatori sanitari territoriali e ospedalieri.
Superare l’angoscia della diagnosi non credo sia attualmente del tutto possibile, ma si può incominciare a mitigarla partendo da un uso più appropriato del linguaggio.
Il libro volutamente si apre con la testimonianza di un giovane e coraggioso paziente, alla seconda diagnosi di neoplasia, che ne ha vissuto tutta l’angoscia fin dall’adolescenza.
Il nostro narratore ha ben compreso come il linguaggio e la comunicazione abbiano una forza intrinseca reale e concreta, a partire proprio dalla parola “cancro” con tutto il suo significato atavico di minaccia e di morte. Il protagonista del primo capitolo del volume stigmatizza anche i registri militareschi con il loro ossessivo corredo di “guerre, soldati, battaglie, eroi, nemico, sconfitte…”, e le metafore animali di leoni e leonesse. Egli arriva a dire che nel “sentire comune” è come se chi non si dimostra eroico abbia meno probabilità e anzi sia quasi colpevole di una nefasta conclusione.
Di questa cultura nessuno è privo di responsabilità: dalla medicina, ai giornalisti e comunicatori, alla gente comune, che nel linguaggio perpetuano, forse per esorcizzarla, la paura del “male incurabile.”
Quale evoluzione ha caratterizzato il modello relazionale di cura e come si declina il rapporto tra medico e paziente in oncologia moderna?
Sono molti anni ormai che il modello relazionale di tipo “paternalistico” è entrato in crisi nel rapporto medico-paziente. Questo è tanto più vero in oncologia. Da un medico detentore del sapere che in scienza e coscienza lo imponeva al paziente che accettava passivamente le sue decisioni, si sta progressivamente passando ad un modello di relazione in cui medico e paziente condividono la pianificazione della cura e di tutto il suo processo. Lo dicono molto bene gli Autori del capitolo “Dalla sfera di cristallo, al progetto comune” che sottolineano come nel passato si privilegiava nella comunicazione e nel rapporto una scientificità basata sulla scuola e sull’esperienza clinica, mentre ora si tengono sempre più in considerazione le preferenze personali del malato, naturalmente in un quadro che rispetti le evidenze scientifiche, per scelte terapeutiche e follow up.
Anche dal punto di vista deontologico, superata definitivamente la possibilità di non informare completamente il paziente, è prevalso l’obbligo di ascoltare la persona ammalata per la costruzione condivisa e consapevole di un progetto comune di cura (Codice Dentologico Medico 2014).
La mutata condizione dei malati neoplastici negli ultimi 10-12 anni ha condotto a questa necessità di condivisione. Si parla quindi sempre di più di una long term care, in quanto la condizione dei pazienti cambia rapidamente e occorre impostare modelli di cura che superino o per lo meno affianchino, il momento emergenziale proprio delle situazioni più gravi.
I numeri parlano di sempre più lunghi periodi di sopravvivenza. Si pensi che complessivamente le donne presentano una sopravvivenza a 5 anni del 65%, gli uomini del 59%.
Ancora più interessante per un rapporto sempre più consapevole, che dovrà necessariamente condizionare le alternative terapeutiche da presentare al paziente, è l’analisi della sopravvivenza di gruppi di pazienti che hanno superato il primo anno dopo la diagnosi.
L’AIOM nel suo ultimo rapporto su “I numeri del Cancro in Italia 2021” ha stimato che tra questi malati il 77,7% degli uomini e l’80,4% delle donne era vivo dopo 5 anni di osservazione (2014-2018). Tale vantaggio è risultato molto evidente anche per le sedi tumorali a peggior prognosi e spiega l’importanza del concetto statistico della “sopravvivenza condizionata”, che esprime la probabilità di sopravvivere ulteriormente alla malattia, essendo sopravvissuti per un periodo prefissato dopo la diagnosi. Un indicatore che merita maggiore attenzione e diffusione per dare reale sostanza a concreti piani di assistenza a lungo termine, sostiene l’Associazione degli Oncologi Medici.
Come si possono migliorare i referti in favore dei malati?
Mi riferirei essenzialmente ai referti radiologici, perché la diagnostica radiologica nel corso degli anni ha fatto molti progressi e in alcune tappe del processo di diagnosi e cura della malattia tumorale rappresentano un nodo decisionale per i clinici.
Ma di chi è il referto di un esame?
La risposta spontanea è che la proprietà dei dati è del paziente a cui si riferiscono. Sovente però il malato e la sua rete famigliare non hanno le competenze per comprendere il significato preciso di quelle parole scritte.
Spesso dalla loro ambiguità e da un uso più o meno letterario del lessico medico il malato trae una sensazione di insicurezza, se non di paura. Quando un paziente teme di avere una malattia neoplastica o dall’esame attende di conoscerne il decorso, occorre uno sforzo perché ogni ambiguità venga fugata.
Il rapporto a tre, paziente, clinico, radiologo, legato alle immagini radiologiche dovrebbe essere il più standardizzato possibile attraverso i cosiddetti “referti strutturati”, a cui stanno lavorando radiologi e società scientifiche. Cioè referti che seguano schemi precisi e riferimenti topografici condivisi, per essere comprensibili ad ogni livello sanitario specialistico e non. D’altro canto, però, il paziente dovrebbe avere il diritto ad un filtro “umano”, che possa interpretare quanto scritto: le possibilità diagnostiche e il limiti di insicurezza di molti esami.
Dice uno degli autori dei due capitoli del nostro libro dedicati all’argomento che i radiologi non sono “dei fotografi di interni”, ma medici a tutti gli effetti. Essi hanno il diritto di avere ogni indicazione dai clinici per formulare diagnosi radiologiche che possano tenere conto del contesto, ma anche il dovere di accompagnare il paziente nel percorso di cura, accettando da parte loro la quota di insicurezza che molto spesso accompagna la medicina anche nei livelli di più elevata specializzazione, e di instaurare un rapporto chiaro e autorevole con i clinici.
Naturalmente per ottenere reali miglioramenti nella comunicazione scritta occorre una presa di coscienza di chi si occupa di organizzazione dei servizi. Infatti va riconosciuto a tutti gli operatori coinvolti della cura del malato neoplastico, e quindi anche allo specialista radiologo, come “tempo di cura” anche quello del colloquio e per questo debbono essere creati spazi dedicati e previste adeguate risorse di personale e finanziarie.
In che modo il COVID è entrato nell’oncologia?
La pandemia ha fagocitato energie e risorse. La Sanità da due anni è costretta ad inseguire le ondate successive del virus SARS-COV2 e delle sue mutazioni. Ambulatori chiusi, reparti riconvertiti per infettivi, personale oncologico dirottato ad altre mansioni, risorse smistate sulla gestione dell’emergenza e sulle campagne vaccinali, hanno reso la rete oncologica nazionale più fragile e meno efficiente sul versante della prevenzione, della diagnosi precoce, dei controlli nel tempo e talvolta anche nei programmi terapeutici. Di fondo le persone durante i lockdown sono state più facilmente esposte a stili di vita potenzialmente pericolosi: fumo, alimentazione incongrua, vita sedentaria.
Oltre i problemi organizzativi, che hanno coinvolto talvolta casi di media gravità con ritardi e cancellazione di appuntamenti, la paura del contagio, rischio immediato ed evidente, ha avuto ragione spesso della preoccupazione per il tumore, tenendo lontane le persone soprattutto dai programmi di screening, ma anche dai controlli, soprattutto per i soggetti in migliori condizioni. Questa situazione, che prova a trovare correttivi ad ogni allentamento dell’epidemia con recupero delle liste di attesa e accelerazione dei controlli e degli screening, sempre con un grande sacrifico da parte degli operatori sanitari, avrà sicuramente conseguenze concrete sulla situazione globale della malattia neoplastica nel nostro Paese, con un possibile generale danno sulle diagnosi precoci e sul successo delle terapie in atto.
Al momento questo fenomeno negativo non è ancor quantificabile, ma sempre da fonte AIOM, si nota che vi è stato un aumento della mortalità di soggetti affetti da malattia neoplastica nei mesi più bui e un incremento di mortalità in soggetti positivi al COV2, rispetto a quelli negativi e rispetto alla popolazione generale. Quindi una situazione che ha messo in crisi un sistema che si avviava ad essere uno dei migliori d’Europa e che ha provato fortemente operatori e pazienti, costretti ad isolamento e solitudine anche in momenti pesanti, come nel post intervento chirurgico.
Due interi capitoli del libro sono dedicati alle “storie” di sanitari nei due grandi centri, di Torino e di Orbassano, durante la prima grande ondata pandemica che ha trovato il sistema più tragicamente impreparato.
D’altro canto la pandemia ha anche insegnato qualcosa.
Le procedure di controllo sono state snellite e si è incominciato a ragionare su valutazioni cliniche a distanza, là dove possibile, e sull’uso di tecnologie telematiche in modo routinario.
La telemedicina, anche in campo oncologico può avere un’utilità rilevante, soprattutto per quei pazienti che non preferiscono sempre e comunque un protettivo contatto umano. Per certe situazioni, specie durante i periodi di remissione della malattia, l’allontanamento dall’ambiente ospedaliero può avere un effetto positivo sulla qualità di vita dei soggetti. Inoltre è apparsa chiara la necessità di creare un rapporto molto stretto con la medicina primaria e con l’assistenza territoriale che conoscono meglio il paziente e il suo rapporto con la sua rete socio-famigliare.
Quali progressi ha realizzato la radioterapia per il miglioramento della qualità di vita dei pazienti oncologici?
Sicuramente la radioterapia ha fatto enormi passi avanti nell’ultimo decennio con lo scopo di colpire la malattia neoplastica nel modo più efficace, risparmiando il più possibile i tessuti e gli organi limitrofi e divenendo uno strumento spesso indispensabile nella storia clinica di molti malati neoplastici. Non si può negare, però, che tra le paure legate al “cancro” come malattia incurabile, la radioterapia possa essere motivo di angoscia per i pazienti preoccupati dei danni irreversibili che avrà sul loro corpo, mentre cerca di combattere la malattia. Una delle autrici del capitolo sulla radioterapia e i suoi progressi nella cura della malattia neoplastica è ben conscia del retaggio negativo che questa specializzazione medica porta con sé. Oltre a esporre le tecnologie avanzate che ottengono sempre più risultati positivi e danno origine a minori effetti avversi, si concentra sul rapporto tra operatori medici, tecnici e infermieri con il paziente, evidenziando come il miglioramento di questo colloquio tra persone, può portare ad una ulteriore consapevole condivisione di scelte e di modalità terapeutiche.
Un colloquio approfondito, l’attenzione ai problemi non solo legati alla malattia, ma alla vita vera e propria del paziente, considerandone l’età, l’attività lavorativa, il livello culturale, possono aiutare a smorzare e superare ataviche paure e a scegliere il programma terapeutico migliore.
Proprio quando il livello di specializzazione e tecnologico diviene estremo il contatto umano serve a superare l’isolamento del pazienze di fronte alla macchina. Bene viene detto nel capitolo: lo sviluppo della tecnologia può rendere “più distaccato il rapporto fra clinico/tecnico di radioterapia e paziente, come se la precisione millimetrica ed il computer si frapponessero fra dispensatore di cura e paziente creando una sorta di schermo.” Questo deve essere superato dalla capacità di rapportarsi di tutta l’équipe radioterapica. L’empatia non è, come si credeva, una capacità istintiva e innata di ciascun operatore, ma può e deve essere insegnata in corsi di formazione continua. Questo processo di miglioramento deve essere favorito, come già ho detto, da una sensibilità organizzativa che renda il carico di lavoro accettabile e gli organici adatti numericamente a gestire le nuove tecnologie radioterapiche.
Quali prospettive per l’oncologia del prossimo futuro?
Da medico che ha lavorato per decenni sul territorio in stretta collaborazione con i colleghi specialisti, posso augurarmi che le prospettive della nuova oncologia si realizzino su più piani, come ormai sta avvenendo in moltissime strutture.
Occorre una ricerca sempre più approfondita, sostenuta a livello planetario e il più possibile indipendente dal mercato, con una completa circolazione di dati e scoperte, che la pandemia ci ha insegnato essere possibile e molto fruttuosa, riuscendo a bruciare le tappe e a produrre risultati che in passato erano possibili dopo molti anni di sperimentazione.
Sul piano terapeutico oggi, oltre al progressivo miglioramento delle tecniche chirurgiche e radio chirurgiche, meno invasive e più attente al paziente, abbiamo molte possibilità terapeutiche personalizzate, dall’immunoterapia, alla target therapy, che si accompagnano alla profilazione genetica delle neoplasie. Nel loro complesso queste tecniche stanno dando concreti risultati sulla sopravvivenza dei pazienti, mirando come primo obiettivo alla cronicizzazione della malattia, per renderla sopportabile, alla pari di altre importanti patologie sociali, come l’ipertensione e il diabete.
Si deve percorrere ancora molta strada per conoscere meglio questi farmaci nella realtà quotidiana, al di fuori degli stretti confini imposti dai trial di ricerca, per capire ad esempio tempi di somministrazione, minime dosi efficaci e possibilità di associazione di varie molecole, per ottimizzare e potenziare l’armamentario terapeutico.
Sul piano assistenziale l’oncologia va verso una sempre maggiore gestione del paziente in equipe, tenendo conto dei suoi bisogni e delle sue scelte.
La collaborazione tra professionisti permette di seguire i pazienti oncologici da un punto di vista più generale, tenendo anche presenti le complicanze legate alle terapie e alle loro interazioni con altri farmaci. La sempre crescente attenzione, poi, alle patologie concomitanti e intercorrenti, la prevenzione ad esempio di fatti trombotici e infettivi, più probabili in questi malati, diminuiranno gli episodi acuti e debilitanti che possono fare precipitare situazioni in equilibrio.
Anche la valutazione della gravità di malattia e la conseguente presunta prognosi, “una scienza incerta”, come è stata definita nel 2020 dall’oncologa Van Metre Baum, non può più basarsi solo sulle tradizionali classificazioni della malattia neoplastica in stadi, dimensioni della lesione primaria, diffusione linfatica e a distanza, ma deve tenere conto e affiancare altri criteri che riguardano l’età, le condizioni generali e di rapporto con l’ambiente sociale dei pazienti.
Il Performace status è una potente arma prognostica, di scelta terapeutica e di valutazione dell’efficacia dei trattamenti, con le scale che la descrivono, come quelle classiche di Karnofsky ed e dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG), insieme alle loro più moderne revisioni, fino all’uso dell’intelligenza artificiale per valutare contemporaneamente moltissimi parametri del singolo individuo.
Sul piano politico, lo sviluppo dell’oncologia nel futuro non potrà fare a meno di una programmazione che renda omogenee qualitativamente e quantitativamente le prestazioni e ne favorisca l’accessibilità a tutti i cittadini con norme e risorse appropriate.
Per ultimo, ma sicuramente fondamentale, ci si dovrà occupare di promuovere una crescita culturale nella popolazione generale, che depotenzi le atmosfere di angoscia e pessimismo che sono legate alla tradizione letteraria della patologia neoplastica.
Occorrerà puntare sul linguaggio e sulla educazione perché si diluisca un retaggio inconscio che vede ancora questa malattia come incurabile e che appesantisce inevitabilmente diagnosi, cure e vissuto del paziente.
Non è una strada nuova da imboccare, i numeri della sopravvivenza, della cronicizzazione della malattia e della sua guarigione sono attuali e in continuo aumento.
Chiuderei proprio con questi ultimi, tratti ancora dal Rapporto AIOM del 2021.
In generale è stato stimato che, oltre il prolungarsi della vita dopo la diagnosi di neoplasia di sempre più pazienti, più della metà delle donne possono considerarsi guarite o destinate a guarire (frazione di guarigione del 52%). Tra gli uomini, tale percentuale è del 39%.
Più di una donna su due quindi e più di un uomo su tre può considerarsi guarito.
E questo è già futuro.
Mario Nejrotti, medico di medicina generale a Torino, è giornalista scientifico e direttore responsabile dei media dell’Ordine dei Medici della provincia di Torino