
Il problema era che questa enorme quantità di semplici fu poi divulgata da numerosi “ricettari” che avevano reso alquanto incerta e caotica la prescrizione dei medicamenti, mentre la loro preparazione veniva lasciata a totale discrezione dello speziale. Contemporaneamente circolavano anche delle volgarizzazioni alquanto approssimative che avevano la presunzione di rendere la scienza medico-farmaceutica accessibile a barbieri, erbolai e droghieri; gente con poca scienza alle spalle che non aveva certo condotto studi regolari, che a mala pena conosceva il latino, e che fino allora fondava le proprie conoscenze su di un’esperienza fin troppo rudimentale derivata dalla consultazione di rozzi erbari medievali. Questi riproponevano infatti un Dioscoride alquanto inselvatichito e una nomenclatura botanica caotica al punto da indurre gli utilizzatori a clamorosi errori di interpretazione. Allora come oggi l’arte farmaceutica rischiava forse di cadere in mano a chi, senza alcuna cognizione teorica, l’avrebbe trasformata in una sorta di mestiere improvvisato capace solo di sfornare fantasiosi e costosissimi rimedi miracolistici.
Da qui la necessità di stendere dei codici professionali che avevano il compito di disciplinare la materia medica e di codificare l’uso dei medicamenti in modo che medici e speziali potessero esercitare le loro professioni con sicurezza e soprattutto con meno confusione.
Il Vostro lavoro prende spunto dal Ricettario Fiorentino del 1499.
Il Ricettario Fiorentino infatti è la prima farmacopea ufficiale che la storia ricordi. Fu un primo tentativo di uniformare la prescrizione e la preparazione dei medicamenti con un codice redatto dalle autorità costituite che sanciva regole ufficiali sotto il controllo rigido delle autorità, fu senza dubbio la prima farmacopea pubblica, quale oggi la intendiamo; vale a dire un codice comprendente tutte le norme professionali legate al commercio del farmaco e scritto per ordine delle autorità perché servisse da guida a medici e speziali nella tutela della salute pubblica.
Il Ricettario non manca però di recare un importante avvertimento e cioè che i medicamenti dovevano essere confezionati dallo Speziale secondo la fantasia del medico. Quest’ultimo è un punto dolente, forse mai digerito dagli speziali i quali, per distinguersi nel marasma confuso del commercio delle spezie, spesso si cimentavano nelle preparazioni di nuovi medicamenti.
Tuttavia questo codice, se da un lato aveva l’alto e difficile compito di stabilire i medicamenti utili alla salute pubblica, senza però trascurare l’importanza della tradizione galenico-araba, dall’altro lato doveva arginare i crescenti episodi di ciarlataneria e mortificare una certa libertà di “inventare medicamenti” da parte di chiunque; doveva infine sancire delle regole precise e autorevoli che assicurassero un futuro allo speziale, un futuro che gli permettesse di riscattare la sua posizione professionale e di distinguersi una volta per tutte dai droghieri.
Questi compiti sembra proprio che siano stati portati a termine egregiamente.
Innanzi tutto Il Ricettario cominciò a mettere ordine nella procedura di preparazione dei medicamenti, stabilendo tempi e metodi, anche se in realtà risultò, nel voler perseguire i dettami della tradizione, una raccolta di ricette di medicamenti composti che si esprimevano – sotto l’evidente influsso della medicina araba – in tutta la loro immaginosa e figurata nomenclatura.
Ebbene, io e Carla Camana, nel raccontare il nostro viaggio nel mondo dei medicamenti antichi, abbiamo preso spunto proprio da questo codice, ma non solo, abbiamo anche passato al setaccio tutte o quasi le farmacopee che vennero pubblicate negli stati europei dopo il Ricettario Fiorentino.
Quali erano i principali medicamenti dell’epoca?
Non si può certo negare l’influenza che ebbe la medicina araba. Essa si manifestò con tutto il suo linguaggio immaginoso e figurato, con i suoi rimedi strani e meravigliosi dai profumi esotici e dai colori smaglianti. Medici e speziali si accordavano dunque, nella composizione dei medicamenti, ad attingere dal Liber Medicinalis Almansoris di Rhazes, da vecchie traduzioni del Canone di Avicenna e dagli Antidotarii di Mesuè e di Nicolò Preposito; tutte opere che il più delle volte avevano creato denominazioni alterate e deturpate per dare enfasi alla parola e per accrescere le speranze.
E così scopriamo medicamenti come i trocisci Andaracharon di Avicenna, che non erano altro che delle rudimentali pastiglie fatte di farina di carrube mescolata ad una cospicua quantità di spezie che avevano virtù aperitive, fortificanti, pettorali e vulnerarie o il sief citrino di Mesue, che altro non era che un collirio, fatto però con biacca, fuliggine e gomma arabica. Scopriamo anche le pillole pestilenziali di Rasis, fatte di una trentina di componenti tra cui la mirra e lo zafferano e che servivano appunto a salvaguardarsi dalle malattie pestilenziali oppure le pillole auree di Nicolò salernitano, che erano un purgante decisamente drastico molto in uso nel medioevo.
La lunga lista di confectio, saccara, iulepa, mivae, oxymielae, diacodi, elecmae, triferae, filonia, Hierae e diaphenae…, elettuari insomma, risultano essere mescolanze di origine Galenico-Araba. Questi medicamenti facevano affidamento sulle virtù di droghe vegetali più o meno esotiche mescolate a volte con droghe animali di discussa efficacia terapeutica.
Non manca pure la cosiddetta Aurea alexandrina di Nicolò contenente quanto vi si può immaginare di spezie e aromi mescolati a coralli, perle, blatee, osso di cuore di cervo, avorio, pietre preziose e oro: più di 60 erano componenti di questo elettuario e dovevano conferire al preparato straordinarie e quanto mai “preziose” virtù terapeutiche.
Le cosiddette catapotiae, ovvero le pillole, prendono il nome di alephangine, stomachiche e agregative a seconda della loro funzione terapeutica, oppure la nomenclatura più fantasiosa di pillola optica, lapida armena, pillolae aureae, arabicae e sine quibus , dalle virtù medicamentose più svariate e altrettanto fantasiose , mentre non mancano quelle di oppio, quelle bechiche, e le pillole specifiche contro la peste.
I trocischi invece – ferma restando la differenza dei gusti diversi peraltro in ogni singolo Stato – tutto sommato non erano altro che le “pastiglie” aromatiche risultanti dagli elettuari ridotti in forma solida. Il Ricettario ne elenca un folto numero e dalle nomenclature più disparate; vi troviamo infatti i Diatragacantha, le Galliae Moscatae, i Diarrodon, i Succini, i Mirabolani, gli Antispodii e gli Alephangini, tutti di varie forme (rotonda, quadrata, ovale e triangolare) e contenenti carni, polpe di frutti e semi.
L’elenco dei medicamenti continua poi con un interminabile numero di condita, julepa, oxymieles, infusi e decotti, polveri, collyria, sieff, olii, unguenti, empiastri e cerotti; tutto quanto insomma serviva ai medici e agli speziali perché esercitassero la loro professione secondo una tradizione consolidata nei secoli.
Il loch di pino era un antico medicamento raccomandato ancora da Mesuè, di consistenza molto viscosa che serviva come sciroppo contro il mal di gola o il diamusco dolce di Mesuè, una specie di marmellata fatta con miele, curcuma e mallo di noce, muschio e perle che doveva servire come cordiale e fortificante. Curioso era l’olio philosophorum fatto sostanzialmente di mattoni, o meglio di vecchie tegole che venivano arroventate e poi imbevute di olio vecchio che veniva successivamente sottoposto a distillazione in storta.
La celebre theriaca infine, una panacea universale attribuita al medico greco Crateva, era una sorta di pasta da assumere a cucchiaini costituita da oltre sessanta ingredienti tra cui l’oppio e la carne di vipera.
Come avveniva la preparazione dei ritrovati farmaceutici?
Venivano preparati dallo speziale nel retrobottega della sua farmacia dove aveva a disposizione una serie di strumenti che a noi oggi risultano alquanto rudimentali costituiti da mortai, pestelli, percolatori, fornelli, pilloliere, filtri, setacci, alambicchi e storte. I medicamenti preparati nel retrobottega venivano poi conservati negli albarelli di ceramica o nelle bottiglie di vetro, pronti per la dispensazione e il confezionamento.
Con l’apporto dell’esperienza medica araba l’arte farmaceutica era progredita notevolmente arricchendosi del prezioso strumento della distillazione di cui gli speziali fecero grandissimo uso introducendo l’impiego terapeutico delle acque distillate e delle essenze che tanta parte ebbero nella storia dei medicamenti e aprendo così la strada alle moderne tecniche farmaceutiche di estrazione di principi attivi dalle piante. Le spezierie si dotarono così di un tale armamentario di strumenti di lavoro da costituire oggi splendide testimonianze di un’arte antica
Per la sua complessità e per lo stragrande numero dei suoi ingredienti, faceva eccezione il medicamento denominato theriaca. Visto che questo medicamento rappresentava una voce assai importante in tutte le spezierie incidendo notevolmente sull’economia delle città e in considerazione di quanto importante fosse il controllo sulla metodologia della sua preparazione, fu inventata una sorta di preparazione pubblica della teriaca alla presenza del popolo e delle autorità. Veniva poi conservata nelle spezierie in appositi vasi e confezionata al momento su prescrizione medica.
Come si svolgeva il mestiere del “farmacista” dell’epoca?
Occorre anche tenere presente quanto era già stato realizzato dai monaci nel campo della terapia grazie ad un monumentale progetto da loro stessi attuato: la creazione degli “scriptoria” con gli amanuensi addetti alla trascrizione e quindi alla conservazione non solo dei testi di cultura classica ma anche degli antichi erbari. Questo paziente lavoro degli amanuensi fu un tenue filo che stabilì un rapporto di continuità con quella produzione medica ellenistico-romana di carattere pratico che altrimenti sarebbe andata persa nel disastroso naufragio dell’Impero il quale, si sa, era costellato di innumerevoli biblioteche.
Questo percorso ha fatto sì che lo speziale di un tempo, nel tentativo di elevare il suo mestiere a rango di professione, conseguisse pian piano la cultura necessaria procurandosi un folto numero di opere di materia medica (farmacopee e manuali medico-pratici), perfezionasse la preparazione dei rimedi approvvigionandosi di uno strumentario moderno e sofisticato, garantisse la conservazione dei medicamenti in contenitori adatti e sicuri. Tutto questo fece sì che nel corso di una millenaria e ininterrotta attività moltissime farmacie avessero accumulato un patrimonio librario, strumentale e un armamentario di ceramiche e arredi che oggi costituiscono una significativa testimonianza della professione farmaceutica e un’autentica ricchezza di carattere artistico.
Il farmacista europeo di oggi è il custode di questo patrimonio culturale e artistico di estremo interesse.
Qual era lo stato della scienza farmaceutica di allora?
La patologia umorale ippocratica prendeva forma dalla dottrina dei quattro elementi fondamentali e il destino dell’uomo dipendeva dall’equilibrio dei suoi quattro umori. La salute era dunque un perfetto equilibrio umorale (eukrasya), mentre la malattia era la conseguenza di una cattiva mescolanza di umori (dyskrasia), fermo restando che ogni individuo poteva avere una determinata predisposizione verso l’uno o l’altro umore (idiosykrasia). Quest’ultima geniale intuizione di Ippocrate condusse i medici che lo seguirono ad elaborare una sorta di classificazione del genere umano a seconda della propria costituzione fisica. Erano i quattro temperamenti.
Questa dottrina dei quattro umori costituì la base della fisiologia e della patologia ippocratica e naturalmente fu anche il punto di partenza della terapia. Da questa convinzione scaturì infatti la necessità di distinguere anche i medicamenti in base alle loro caratteristiche intrinseche che, secondo gli antichi, erano anche queste riconducibili a quattro qualità fondamentali in stretta correlazione con gli elementi e gli umori: l’umido, il caldo, l’asciutto e il freddo.
I quattro elementi e quattro umori che erano per gli astrologi in stretto rapporto tra macro e microcosmo per cui i medesimi principi che spiegavano i fenomeni del cosmo avrebbero dovuto spiegare anche i fenomeni umani.
La malattia perciò, non considerata come insorgenza casuale, risultava in qualche modo scritta nella compagine dell’universo e allorché pianeti e costellazioni, con tutti i loro caratteri benefici o malefici venivano a trovarsi in particolari posizioni angolari (aspetti), essa si manifestava nel corpo umano in conciliazione con le sue cause celesti.
Cabala e astrologia rinascimentale inoltre, nell’influenzare fortemente il pensiero medico, davano un’interpretazione della medicina fondata prevalentemente sulla “signatura”, quella teoria per cui l’indicazione terapeutica di un’erba era suggerita da una vaga somiglianza dell’erba stessa con l’organo malato da curare. Naturalmente ogni virtù terapeutica di una pianta era in essa radicata e scaturiva da un preciso messaggio impartito dagli astri: stellae sunt formae et matrices omnium herbarum.
Il linguaggio medico divenne così misterioso e metaforico stringendo un rapporto sempre più solido con le dottrine astrologiche e assumendo una nomenclatura planetaria.
Nei secoli successivi, una volta superata questa visione del mondo e della scienza, i medicamenti della natura cominciarono così a svelare i loro segreti e il lavoro degli speziali, oramai divenuti chimici, cominciò a svilupparsi in una scienza terapeutica ringiovanita e rivalorizzata da principi attivi meglio dosabili e più costanti nell’effetto.