
Lontani nello spazio: rispetto alla parte orientale e “civilizzata” del paese, in cui nella prima metà dell’Ottocento era già in atto un’impetuosa crescita industriale, l’Ovest dell’oltre Mississippi era una terra di praterie e di foreste, senza strade e senza metropoli, abitata da milioni di grandi animali e da numerose popolazioni native – selvagge agli occhi degli euroamericani bianchi – da sottomettere o eliminare con le armi in nome dell’espansione della civiltà, dei suoi insediamenti e delle sue infrastrutture.
Vicini nel tempo: fu la nascente industria culturale a consolidare le immagini degli eroi della conquista e i racconti popolari – folklorici – delle loro gesta. Da Daniel Boone, esploratore del Kentucky a fine Settecento, a Davy Crockett, a Kit Carson, a “Wild Bill” Hickok e fino a William “Buffalo Bill” Cody, morto nel suo letto nel 1917…ognuno di loro fu fatto diventare eroe leggendario mentre era ancora in vita. Come in tutte le epopee non mancarono quelli che Barbara Ehrenreich definisce i “riti di sangue” e gli eroi sacrificali: Davy Crockett e i suoi compagni assediati e uccisi dai messicani nella missione di Alamo, in Texas, nel 1836 (ma poi il Texas divenne statunitense); il colonnello George Armstrong Custer circondato e ucciso con i suoi uomini dalle forze soverchianti di cheyenne e sioux sul Little Big Horn, in South Dakota, nel 1876 (ma infine gli indiani furono sconfitti). E persino le “virtù” marziali di nemici accaniti e combattenti valorosi come Sitting Bull, Crazy Horse, Geronimo e tanti altri capi indiani furono ingigantite non tanto in riconoscimento delle loro qualità personali, quanto per dare ancora maggior risalto alle gesta di chi li sconfisse, uccidendoli o costringendoli nelle riserve.
La mitologizzazione, pur avendo avuto una gestazione iniziata ai primi dell’Ottocento, arrivò a compimento negli ultimi decenni del secolo, grazie all’interazione di agenti diversi. Ebbero un ruolo attivo le forze politiche ed economiche, che puntavano a popolare e a “popolarizzare” l’Ovest in nome della riunificazione nazionale dopo la Guerra civile, e le forze economiche, che miravano a valorizzare le terre tra il Mississippi e l’oceano Pacifico. Ma sul piano più propriamente culturale furono decisivi: gli editori di giornali, riviste e libri, che si diedero l’obiettivo di “far conoscere” l’Ovest e di renderlo attraente per il resto del paese (anche con le iperboliche avventure della letteratura popolare, i dime novels); il mondo dello spettacolo, attraverso i drammi teatrali e le messe in scena all’aperto di episodi della conquista (su tutti il popolarissimo Wild West di Buffalo Bill); i fotografi, gli illustratori e i pittori che mostravano le bellezze paesaggistiche dell’Ovest e le pittoresche peculiarità dei suoi abitanti (dai nativi, ai cowboy, ai soldati a cavallo…). Infine, gli storici-ideologi, in particolare Frederick Jackson Turner e Theodore Roosevelt, che sintetizzarono le diverse componenti – fatti, vicende e rappresentazioni – nelle loro narrazioni, improntate all’apologia nazionale-razziale della conquista
In che modo il mito del Far West ha contribuito a forgiare l’identità americana?
Sono due le formulazioni identitarie da cui non si può prescindere, una di carattere ideologico più generale, l’altra più intimamente legata alle dinamiche della conquista del West.
La prima è quella del “Destino manifesto”, enunciata da un giornalista newyorkese, John O’Sullivan, nel 1845, quando al centro del dibattito ideologico e politico erano l’incombente guerra col Messico e la “questione” delle terre dell’Oregon contese con il Canada. Essa affermava che era stata la Provvidenza ad assegnare agli Stati Uniti una “esplicita” missione espansiva e civilizzatrice. Il suo successo fu immediato, incontrastato e duraturo: da lì in poi ogni acquisizione, ogni conquista, ogni guerra (fino a quella irachena iniziata nel 2003), sarebbe sempre stata interpretata, e giustificata, alla luce della formula “liberatoria” della espansione della civiltà nel mondo.
La seconda è sintetizzabile in una sola parola, “frontiera”. La frontiera americana non è quella che in Europa separa gli stati, ma una instabile “zona di contatto”, di incontro e scontro tra mondi e culture diverse. La formulazione classica del concetto di frontiera da parte di Frederick Jackson Turner, nel 1893, era imperniata sull’immagine del “ciglio mobile” della marea avanzante della civiltà nelle terre selvagge dell’Ovest. Aveva le sue radici nel destino manifesto e traeva la sua linfa vitale dalla contemporanea, allora dominante, ideologia razziale bianca del darwinismo sociale. E il suo assunto centrale affermava che era stato nelle condizioni difficili della vita nelle zone di frontiera che si erano formati insieme l’”uomo americano” e il modello democratico – fatto di gente comune, solidale nell’affrontare le avversità ambientali e l’ostilità degli indiani – che caratterizzava la società degli Stati Uniti. E furono questi suoi caratteri a rendere popolare la turneriana “tesi della frontiera” per oltre mezzo secolo nella cultura popolare statunitense e presso e storici e politici (ci si ricorderà dell’impegno di John Kennedy a una “nuova frontiera”).
Come in tutte le narrazioni epiche, anche in quella americana del West sono presenti gli eroi, risolutori armi alla mano delle situazioni più difficili: si scorrano quei romanzetti popolari che furono venduti in milioni di copie tra la Guerra civile e la fine del secolo per verificare lo scarto tra la realtà umana di figure come Carson, Hickok, Cody e le loro rappresentazioni letterarie e spettacolari. La novecentesca diffusione del genere western, la sua stessa unicità, dicono quanto l’”America” si sia riconosciuta in esso.
È superfluo dilungarsi su quanto ricorrenti e diffuse siano state nel Novecento le immagini semplificate della “frontiera” come luogo dello scontro tra uomini civili (bianchi, umani) e selvaggi (indiani, disumani), tra costruttori aggrediti (quasi sempre bianchi) e distruttori aggressori (quasi sempre indiani) diffuse dal cinema, dalla radio e dalla televisione. E sarebbe arduo negare che questi tratti, formatisi nel secolo precedente, siano riscontrabili, nel bene e nel male, nella tradizione ideologico-politica e nella fisionomia culturale statunitense. Il compito dello storico odierno consiste nel lavorare sull’intreccio tra Ovest della realtà e Ovest dell’immaginazione, nella consapevolezza che entrambi, ognuno a suo modo, hanno contribuito in modo fondamentale nella formazione dell’identità nazionale
Quali avvenimenti caratterizzarono la conquista del West?
In generale, il tema della conquista in quanto appropriazione di terre altrui da parte di nuovi venuti si pone a partire da quando gli europei – spagnoli e portoghesi per primi – misero piede nel Nuovo mondo. Nella successiva occupazione del Nordamerica gli inglesi furono preceduti, oltre che dagli spagnoli, da francesi e olandesi. Per quanto riguarda invece gli statunitensi il processo di conquista ha inizio con la vittoria nella guerra d’Indipendenza e con la conseguente acquisizione formale delle terre al di qua del Mississippi, abitate dalle popolazioni native, di cui gli inglesi rivendicavano il possesso, pur senza averle veramente colonizzate.
La Northwest Ordinance, con cui gli Stati Uniti fissarono nel 1787 – due anni prima che la Costituzione entrasse in vigore – la struttura istituzionale dei territori appena conquistati, definiva anche i rapporti da intrattenere con i nativi: coesistenza, accordi, nessuna prevaricazione contro di loro, possibilità di acquisto di loro terre, nessuna guerra di aggressione. D’allora in poi, nella progressione della conquista fino al Pacifico, quella linea di comportamento e la sua trasgressione coesistettero senza eccezioni: a partire dal 1789, scrive lo storico Eugene Hollon, dei 370 trattati stipulati dagli Stati Uniti con le diverse nazioni indiane non uno è stato rispettato dal governo federale.
La conquista fu spinta avanti verso il Pacifico dalle armi. Non si possono ricordare le innumerevoli occasioni in cui l’intervento militare fu motivato dalla fame di terra e dall’odio anti-indiano. In molti casi furono i civili a fungere da avanguardia degli eserciti, penetrando proditoriamente in territorio indiano e richiedendo poi (e ottenendo) l’intervento dell’esercito a protezione dei propri insediamenti: gli episodi più eclatanti furono quelli delle “corse all’oro”, ripetutesi, dopo la prima del 1848 in California, in Colorado, Arizona e nelle Colline nere del South Dakota. In altri casi furono i fucili dei cacciatori di bisonti a “sgomberare” il terreno per i costruttori di linee ferroviarie e per gli allevatori di bestiame.
Ma sbaglierebbe chi pensasse che gli Stati Uniti, nel loro espandersi verso ovest non si muovessero anche sul più grande palcoscenico dei rapporti tra gli stati. Quando Napoleone decise di vendere agli Stati Uniti l’immenso territorio della Louisiana, permise a questi ultimi di raddoppiare di colpo la propria estensione territoriale. La Florida fu strappata con le armi all’Impero spagnolo. Il Messico indipendente fu sconfitto con la guerra che permise agli Stati Uniti di impadronirsi di tutto il Sudovest. L’annosa “questione dell’Oregon” fu chiusa con una lunga trattativa con il Canada e la Corona britannica. E subito dopo la Guerra civile l’Alaska – un West rimasto fuori dal mito, come le Hawaii, acquisite a fine secolo – fu comperata dalla Russia zarista.
Chi furono i protagonisti della conquista del West?
Nella retorica della frontiera, la conquista è il frutto dell’iniziativa e del coraggio delle persone comuni, che coraggiosamente sfidarono le interminabili traversate del continente e poi, una volta insediatisi sulle nuove terre, di queste diventarono anche difensori in prima persona. Qui sta la seconda peculiarità cui ho fatto riferimento all’inizio: i “conquistatori” come uomini comuni; non condottieri e signori di genti come nell’epica classica, ma uomini (e, poche, donne) i cui tratti distintivi e la cui superiorità erano dati dall’appartenenza alla “razza” anglosassone. Come Natty Bumppo, l’eroe romanzesco di James Fenimore Cooper, anche quello di Turner è un uomo che si avventura tra gli indiani, da loro impara le arti della sopravvivenza nella wilderness, ma li supera e sottomette grazie a quelle “doti” razziali innate che a loro mancano. Uomo comune, dunque, ma eccezionale per diritto di sangue. È questo l’uomo che Turner e i suoi continuatori mettono a fondamento della democrazia americana.
Nella realtà storica le categorie sociali dei “conquistatori” furono almeno tre: gli eserciti in quanto braccio armato dei governi (federali, ma anche statali e territoriali); i grandi capitalisti delle società ferroviarie, minerarie e dei grandi allevamenti; la gente comune, che fluiva verso l’Ovest a mano a mano che le sue terre erano rese accessibili da strade e linee ferroviarie.
Gli eserciti, come sappiamo, sono stati al centro di mille rappresentazioni celebrative. Per quanto riguarda le truppe delle guerre indiane – contro gli indiani delle pianure (sioux e cheyenne, su tutti) e del Sudovest (apache, navajo, comanche…) – vale solo la pena di ricordare che non erano formazioni a ranghi compatti di cavalleggeri, ordinati, eroici e con le loro belle divise pulite, ma un mosaico di uomini disordinati e indocili, facili alle diserzioni, con scarso attaccamento alla bandiera e spesso senza divisa. Va detto inoltre che le “guerre” furono quasi unicamente scontri che coinvolgevano al massimo poche centinaia di combattenti per parte. La battaglia del Little Big Horn, cui presero parte alcune migliaia di guerrieri sioux e cheyenne fu un’assoluta eccezione.
Nonostante le leggi federali che dal 1862 facilitavano l’acquisto di terra per incentivare gli insediamenti nei nuovi territori, la vita economica dell’Ovest post-Guerra civile fu largamente determinata dagli investimenti da parte dei grandi capitalisti dell’Est e d’Europa. Non soltanto la costruzione delle linee transcontinentali – la prima fu completata nel 1869 – ma anche le diramazioni locali erano opera delle grandi società dell’Est, cui lo stato federale aveva “regalato” enormi estensioni di terra lungo le linee come incentivo. A sua volta la ferrovia apriva le porte alle società minerarie, i cui investimenti furono largamente ricompensati dalla eccezionale presenza di oro e argento e di altri metalli, come il rame, indispensabili nello sviluppo industriale. Allo stesso modo, furono sfruttate le infinite foreste delle Montagne Rocciose e della Sierra Nevada californiana, che fornirono il legname necessario per le sempre più numerose città che lo sviluppo economico faceva crescere lungo le linee e nei siti minerari.
I trapper, cacciatori di castori della prima metà dell’Ottocento non furono più di mille. I cowboy spesso elevati al rango di protagonisti del mito, come sappiamo, furono poche decine di migliaia, in parte circondati al loro tempo dalla cattiva fama di essere individui selvatici e rissosi. La loro stagione di custodi del bestiame nei grandi pascoli liberi durò una quindicina d’anni dopo la fine della Guerra civile; poi le recinzioni con il filo spinato li ridusse a poco più che manovali degli allevamenti. Forse furono proprio il loro numero limitato e la loro breve stagione che ne permisero l’elevazione a figure del mito. Come avrebbe potuto esserlo la vita delle centinaia di migliaia di persone che prima si avventurarono in lunghe traversate di pianure e montagne e poi condussero, spesso per anni, una vita durissima in abitazioni posticce, lavorando come agricoltori, piccoli allevatori, operai delle ferrovie o minatori o boscaioli? Anche loro uomini e donne “con la scorza”, ma lasciati ai margini dell’Ovest dell’immaginazione e ricordatisoltanto dagli storici.
Il mito del Far West, celebrato dai film di Hollywood, ha significato in realtà anche il genocidio dei nativi, la conquista e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali: quali risvolti negativi accompagnarono l’epopea western?
La forza dei miti è la capacità di spingere sullo sfondo o nascondere la distruttività intrinseca in tutte le conquiste: è una forza ambigua, che dà conto delle ecatombi – quanti sono i troiani uccisi da Achille? – solo in quanto esaltano le gesta dell’eroe. Della conquista del West il mito celebra la grandezza delle imprese e l’estensione delle acquisizioni, non il genocidio dei nativi, né la distruzione ambientale.
L’immagine leggendaria del trapper, l’impavido Robin Hood delle Montagne Rocciose, oscura il suo avere portato i castori all’estinzione prima del 1840. Anni dopo, William Cody diviene “Buffalo Bill” per la sua eccezionale abilità di tiratore e cacciatore di bisonti ed è spinto dietro le quinte lo sterminio delle grandi mandrie. In meno di dieci anni, poco dopo la fine della Guerra civile, i milioni di bisonti che vagavano nelle praterie fino alle Montagne Rocciose furono letteralmente cancellate. Un colonnello dell’esercito, che pure aveva detto a un cacciatore: “Ammazzate più bufali che potete! Ogni bufalo ucciso è un indiano che se ne va”, scrisse in seguito dello spettacolo orrendo delle pianure ricoperte di carcasse in putrefazione. Alla fine del secolo i bisonti in vita erano cinquecento.
Lo sterminio sistematico fu funzionale a ridurre alla fame gli indiani delle pianure. I bisonti, da cui essi traevano carne per l’alimentazione, pelli per le tende e per il vestiario invernale e altro ancora, erano essenziali nella loro vita. La loro eliminazione liberò le pianure per gli allevamenti e costrinse gli indiani alla dipendenza dal governo nel chiuso delle riserve. Nel corso del secolo molte tribù minori si estinsero o confluirono in altre. Secondo il censimento del 1890, il primo che ne conteggiò il numero, gli indiani erano 250.000. Dieci anni dopo erano scesi ancora a 240.000. Nessuno metteva in dubbio che il destino finale dell’estinzione fosse ormai vicino. Invece d’allora in poi la tendenza si invertì e le “nazioni” ricominciarono a crescere, anche se molto lentamente. Come se le politiche protezioniste che si affermarono all’inizio del Novecento, in particolare durante la presidenza di Theodore Roosevelt, avessero finito per avere poi effetti secondari positivi anche per gli indiani.
Le grandi spedizioni per l’esplorazione geografica e geologica finanziate dallo stato federale tra il 1867 e il 1879 avevano rivelato la straordinaria ricchezza mineraria del West e aperto la strada agli investimenti. Dall’Arizona allo stato di Washington grandi società per azioni si precipitarono a sfruttare i giacimenti: “città” minerarie sorsero dal nulla, arrivando a migliaia di residenti e magari tramontando poi repentinamente all’esaurimento dei filoni. Fu uno sfruttamento intensivo e spregiudicato, a lungo indifferente nei confronti tanto delle ferite ambientali, quanto delle condizioni di lavoro e di vita delle masse di lavoratori – in gran parte immigrati – chiamati a lavorare nelle miniere oppure nelle foreste e nelle segherie.
La minaccia della distruzione ambientale fu così seria che costrinse i governi a intervenire. Dopo gli anni Settanta crebbe anche il numero delle associazioni protezionistiche, che volevano impedire che si ripetesse a Ovest la distruzione ambientale che l’industrializzazione aveva ormai consumato nelle regioni orientali. I protezionisti trovarono inattesi alleati nella crescente industria del turismo: la stessa editoria che costruiva il mito del cowboy e della Old America, chiedeva che venissero salvaguardate quelle bellezze e peculiarità ambientali che rendevano unico il West. A cavallo dei due secoli il Congresso degli Stati Uniti cercò di salvare quello che era ancora salvabile, approvando una serie straordinaria di leggi protezionistiche. Fu imposto il controllo demaniale su vaste estensioni di territorio in tutti gli stati occidentali, furono istituiti nuovi parchi nazionali – il primo in assoluto era stato quello di Yellowstone, nel 1872 – e centinaia di foreste nazionali, decine di riserve faunistiche e, grazie agli archeologi, una ventina di “monumenti nazionali” a protezione delle antichità.