
La seconda riguarda l’istituzione, anche qui per la prima volta, di una “unità di pianificazione e condotta” di missioni militari. A questa unità faranno capo le tre missioni attualmente in corso nel Mali, in Somalia e nella Repubblica Centro-Africana. Va fatto notare che l’UE distingue tra missioni non-esecutive (sostanzialmente, missioni di addestramento e di peace-keeping), come quelle appena citate, e operazioni esecutive (peace-enforcing). Va da sé che il passo decisivo verso l’istituzione di una capacità militare operativa significativa si avrà solo quando all’”unità di pianificazione e condotta” verranno affidate le operazioni esecutive e, soprattutto, se le risorse materiali e umane impiegate in queste missioni e operazioni saranno attribuite in permanenza alle istituzioni europee, al fine di consentire loro di accumulare esperienza nella gestione di missioni civili e militari, multinazionali ed interforze.
La terza è stata l’avvio di quella che, nel Trattato di Lisbona, viene chiamata “cooperazione strutturata permanente” (Pesco, nell’acronimo inglese) nel settore della difesa. Questa cooperazione ha un obiettivo di capacità militari e di standardizzazione progressiva degli armamenti. Per sottolineare il successo della Pesco, si può ricordare che anche se, per il suo avvio, il Trattato di Lisbona non prevede un numero minimo di partecipanti, ad essa hanno aderito 25 paesi su 27 (Regno Unito escluso).
Come si inserisce il progetto di una difesa comune europea nel quadro degli equilibri geopolitici mondiali?
Mai prima d’ora, ai confini dell’UE si sono addensati conflitti militari in Ucraina, in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, a cui vanno aggiunte aree di instabilità politica nei Balcani e nell’Est europeo (Georgia) ed i flussi di immigrazione illegale. Il problema, però, è più generale e lo ha ben descritto Emmanuel Macron davanti al Congresso degli Stati Uniti, alla fine del mese di aprile di quest’anno: «Nos convictions les plus fermes sont remises en cause par l’apparition d’un nouvel ordre mondial qui nous est encore inconnu». Un nuovo ordine mondiale che ancora non conosciamo: questa è la sfida cruciale che ci attende. In effetti, il vecchio ordine bipolare, russo-americano, oggi non esiste più e l’emergere di nuove potenze mondiali (Cina, India, ecc.) richiede il rafforzamento delle istituzioni multilaterali, mentre oggi assistiamo ad un’amministrazione degli Stati Uniti che le mette in discussione. Pertanto, una maggior capacità di iniziativa dell’Europa anche nella difesa le consentirà di sostenerle, mantenendo così aperta la strada verso una maggior unificazione mondiale su basi federali.
In secondo luogo, come ha dimostrato l’intervento franco-britannico – vale a dire i due paesi con gli eserciti europei meglio attrezzati – in Libia, nel 2011, senza l’aiuto americano e, in particolare, senza l’infrastruttura spaziale americana (GPS, etc.), non sarebbe stato possibile portare a termine, con successo, quel conflitto (oggi, peraltro, con il sistema Galileo pienamente operativo, se uno Stato europeo volesse condurre un’operazione simile a quella condotta in Libia, dovrebbe telefonare a Washington o a Bruxelles!). Questo significa che le attuali forze armate europee non hanno un’autonomia operativa a fronte di conflitti anche della dimensione di quello libico. E stiamo parlando di un paese che ha poco più della metà della popolazione della Lombardia. Pertanto, nel breve e medio periodo, anche se l’UE si darà una struttura militare autonoma per la sua difesa, essa non potrà fare a meno della NATO. Il problema si porrà quando l’UE avrà raggiunto un’autonomia operativa a tutti gli effetti, quindi una capacità militare indipendente da quella della NATO. In quel caso, sarà forse bene ricordare che la NATO, dal 2003, non è più l’organizzazione di difesa regionale istituita nel 1949, in quanto si è data una missione mondiale (oggi interviene in Iraq, Afghanistan), mentre il comando è sempre strettamente in mano americana. Si capisce, così, anche meglio la ragione per la quale gli europei esitano a mettere più soldi nella NATO, quando questa non serve più tanto a difendere l’Europa, quanto a sostenere gli sforzi militari americani in giro per il mondo, senza che questa strategia sia condivisa dall’UE in quanto tale. In ogni caso, quando arriverà quel momento, si porrà, a mio avviso, il problema di farne un’istituzione mondiale, allargandone la partecipazione ad altri membri e trasformandola in uno strumento delle Nazioni Unite a tutti gli effetti.
Come si articola il Fondo europeo per la difesa?
Il Fondo europeo per la difesa prevede due «finestre» complementari ma distinte per struttura giuridica e fonte del bilancio:
– una «finestra per la ricerca» destinata a finanziare la ricerca collaborativa in tecnologie di difesa innovative (elettronica, metamateriali, software cifrati, robotica). La Commissione ha già proposto 25 milioni di euro per la ricerca nel settore della difesa nel quadro del bilancio dell’UE per il 2017 e ritiene che tale dotazione possa raggiungere un totale di 90 milioni di euro entro il 2020. Nell’ambito del Quadro finanziario pluriennale dell’UE post 2020 la Commissione intende proporre un apposito programma di ricerca nel settore della difesa con una dotazione stimata di 500 milioni di euro all’anno;
– una «finestra per le capacità» che funga da strumento finanziario per permettere agli Stati membri partecipanti di acquistare insieme determinati beni per ridurre i costi. Le capacità verrebbero concordate dagli Stati membri, che sarebbero proprietari della tecnologia e delle attrezzature. Gli Stati membri possono ad esempio investire congiuntamente nella tecnologia dei droni o acquistare insieme elicotteri per ridurre i costi. Per dare un ordine di grandezza, questa finestra dovrebbe essere in grado di mobilitare circa 5 miliardi di euro all’anno.
Questi stanziamenti, in base alle proposte presentate relative al Quadro Finanziario Pluriennale 2021-27, presentate dalla Commissione europea, dovrebbero salire a 27,5 miliardi di euro. A questa cifra, si aggiungono 10,5 miliardi di euro per un nuovo strumento, denominato “European Peace Facility”, fuori dal bilancio comunitario, destinato a finanziare missioni militari per il mantenimento della pace. Si tratta di cifre che, se rapportate alla spesa annua degli Stati membri dell’UE, pari ad oltre 200 miliardi di euro, oppure a quelle USA, pari ad oltre 400 miliardi, sono molto contenute, ma il fatto di aver previsto una linea di spesa specifica nel bilancio comunitario consentirà al Parlamento europeo, se intende accelerare verso una difesa europea e se la situazione internazionale lo richiedesse, di prendere l’iniziativa di aumentarle.
Come si giunse al fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED)?
Come è noto, la Comunità Europea di Difesa (CED) venne proposta per far fronte al pericolo di una invasione dell’Europa da parte dell’Unione Sovietica di Stalin. Il progetto venne quindi percepito dai partiti comunisti europei come una misura antisovietica e anticomunista e venne da loro fortemente contestato. Quando il trattato istitutivo della CED venne presentato all’Assemblea nazionale francese, le forze politiche che sostenevano il governo di Mendès France – radicali, socialisti, Unione democratica e socialista, Mouvement républicain populaire – erano profondamente divise sul progetto. Pertanto, il 30 di agosto del 1954, esso venne bocciato, oltre che dal Partito comunista francese e di gran parte del Partito gollista, da molti deputati dei partiti di governo. Il voto negativo fu influenzato da ragioni di politica estera in quanto la Francia era allora impegnata nel conflitto in Indocina, per la cui soluzione il governo necessitava del sostegno del Partito comunista. In aggiunta a ciò, la fine del conflitto coreano e la morte di Stalin attenuarono di molto le pressioni per l’istituzione di forze armate europee. Secondo Spinelli, fu soprattutto la scomparsa di Stalin ad esercitare un ruolo sfavorevole alla ratifica.
Tuttavia, non si può dire che la responsabilità sia tutta e solo francese. Tutti i paesi fondatori dell’UE (Belgio, Germania, Lussemburgo e Olanda), tranne la Francia e l’Italia, avevano già ratificato il Trattato CED. L’Italia di De Gasperi, con le sue esitazioni, ha quindi avuto la sua parte di responsabilità. Se l’Italia avesse ratificato la CED, prima del voto francese, il voto italiano avrebbe potuto avere un’influenza forse decisiva, perché la responsabilità del fallimento della CED sarebbe pesato unicamente sulla Francia.
In ogni caso, il primo allegato del libro è un documento scritto da Altiero Spinelli sulle ragioni per cui occorreva ratificare la CED. La sua lettura consente di apprezzare i considerevoli passi avanti che si sono compiuti verso l’unificazione politica europea, nonostante la CED non sia stata ratificata.
A Suo avviso, si giungerà mai ad un’unica forza armata europea?
I paesi europei sono Stati nazionali storicamente consolidati e le forze armate sono state per lungo tempo uno strumento di integrazione nazionale e sono tuttora un simbolo molto forte di sovranità statale. È molto difficile, quindi, che potranno essere sostituite di colpo da un’unica forza armata europea, anche perché le resistenze alla loro abolizione saranno, prevedibilmente, molto forti e, secondo me, sarebbe anche sbagliato. Una delle tesi sostenute nel libro è che l’UE dovrebbe trarre ispirazione dall’esperienza federale americana nella quale, per oltre un secolo, sono coesistite forze armate a due livelli, statale e federale e le forze armate statali prevalevano di gran lunga su quelle federali. Credo, pertanto, che l’UE dovrebbe operare una scelta analoga, prevedendo l’istituzione di forze armate federali europee al fianco delle forze armate nazionali. Ma, similmente a quanto previsto nelle costituzioni degli Stati membri della federazione americana, dove si dice che il capo delle forze armate statali è il governatore dello Stato, fino a che il Presidente degli Stati Uniti non deciderà di avvalersene, anche nelle costituzioni degli Stati membri dell’UE si dovrà prevedere che i capi delle forze armate nazionali saranno i rispettivi organi costituzionali, fino a quando il Consiglio europeo non deciderà di avvalersene.