
Quali sono i meccanismi di trasmissione dell’immaginario, i suoi spazi e la sua rilevanza sociale?
Sebbene i tempi, gli spazi, le forme e i meccanismi di trasmissione dell’informazione, quindi anche dell’immaginario simbolico, siano significativamente mutati, sebbene al focolare, al mercato e al tempio si siano sostituiti la televisione, il cinema, il web, e all’aedo e al sacerdote, il conduttore e il social influencer, non può dirsi che sia venuta meno la sua rilevanza sociale. In realtà, grazie ai nuovi media, l’immaginario simbolico prolifera e si diffonde oltre i tradizionali spazi di fruizione. È tuttavia evidente che l’ampia e variegata platea (diversa per lingua, cultura, credo, istruzione, status sociale, classe d’età, ecc) che questo investe, accoglie e riconosce i simboli in modo diverso e contraddittorio determinando, non di rado, una sorta di corto-circuito, di -spesso inconsapevole- de-costruzione semantico-funzionale. Mi sentirei di dire che il relativismo simbolico inter-culturale, la moltiplicazione e la confusione delle narrazioni ergo il venir meno di riferimenti certi con il conseguente de-potenziamento della capacità critica e lo sviluppo di terreno fertile al disordine psico-emotivo, contribuiscono in modo significativo a rafforzare la capacità di penetrazione sociale delle “agenzie di manipolazione del senso” (chiese, governi, multinazionali ecc.). All’esordio del primo capitolo di Verità e menzogna dei simboli scrivo “Non si vive di solo pane” in riferimento all’umana esigenza di trascendere la matericità per riempire di senso la propria esistenza, al fatto cioè che vivere significa anche produrre e consumare simboli. Se per nutrire il corpo c’è bisogno di buon pane e di una dieta bilanciata, lo spirito ha bisogno di buoni simboli semanticamente coerenti e umanamente sostenibili. Un cibo cattivo ci intossica, ci avvelena, può condurci alla morte, non diversamente può dirsi dei simboli. Questi, intrinsecamente ambigui e polisemici, non dati ma creati, come la storia trascorsa e contemporanea ci mostra, consentono agli uomini di influenzare e guidare altri uomini fino a dis-umanizzarli.
Quali sono il ruolo e il perimetro del sacro, del mito, del rito e della magia nella società contemporanea?
Mi consenta di rispondere a questa domanda a partire da una pagina del mio volume: “Nutrizione, riproduzione e conservazione della vita individuale, in quanto garanzia della vita collettiva, sono stati per millenni gli obiettivi primi perseguiti dall’uomo. Per il loro raggiungimento egli ha sempre considerato imprescindibile un continuo rapporto con le forze e le entità immateriali che avvertiva popolare e governare il mondo. La capacità di generare, la malattia, l’accidente, la fortuna nella caccia e nella guerra, le stagioni buone e cattive, i terremoti, le alluvioni e quant’altro arrivano da potenze e luoghi invisibili. Da questa consapevolezza si costituisce in tempore primævo la sfera del sacro”. È oggi venuta meno questa consapevolezza, il senso di incertezza e di dipendenza da forze trascendenti la realtà umana? I drammi della contemporaneità, i conflitti e i disastri ambientali, non ultimo il dilagare mondiale della pandemia, piuttosto che rafforzare hanno fortemente incrinato la credibilità di una Scienza che si è rivelata campo di incertezze e contraddizioni. Nella società occidentale, riti e miti contemporanei – da quelli sportivi a quelli televisivi, da quelli medici a quelli informatici – mai definitivamente affermatisi fino ad oscurare e sostituire l’antico, rischiano oggi di vedere incrinata la loro egemonia. Profeti, maghi e guaritori, palesandosi come tali o sotto mentite spoglie, tanto più facilmente a fronte della liquefazione di certezze ideali e scientifiche, potranno più facilmente operare ad ogni livello. In realtà questa è già la realtà. Io non profetizzo sventure, constato disastri. E allora? Non intendo certamente, come preciso in chiusura del mio lavoro, celebrare la “tradizione”, invitare a una chiara perimetrazione delle identità, perorare la causa di un ritorno al sacro e alle feste religiose, eludendo ogni impegno politico e sociale. È esattamente il contrario. Lo testimonia la mia biografia. Nessun aprioristico rifiuto del cambiamento, dell’alterità, della novità e del sincretismo culturale e religioso anima le mie ricerche, i miei scritti, il mio quotidiano operare. Ma è proprio in ragione di questo che non posso non registrare che in assenza di modelli coerenti, omogenei, misurati sulle reali esigenze e prospettive degli individui, l’unica strada percorribile, forse disperatamente percorribile in assenza di scelte possibili, resta l’adesione ai modelli proposti dalla tradizione e dai suoi riti religiosi, i soli che, configurandosi come principi di coerenza, sembrano ancora contenere nel loro sacrale ordinamento, come scriveva Widegren nella sua Religionsphänomenologie “ein Programm, ein Dogma, eine Weltanschauung” (1969, p. 210). Si pone cioè la questione, come scrive Kolakowski, nel suo saggio contenuto nel volume collettaneo Che cos’è il religioso. Religione e politica “se la società sia capace di sopravvivere e rendere tollerabile la vita ai suoi membri nel caso in cui il sentimento del sacro e il fenomeno del sacro fossero eliminati ovunque. Si pone la questione se certi valori, la cui forza è necessaria per la durata stessa della cultura, possano sopravvivere senza radicarsi nel regno del sacro, nel senso proprio del termine” (2006, p. 20)
Quali strategie caratterizzano la trasmissione della memoria culturale e i processi di produzione e riproduzione dell’identità comunitaria?
I simboli, possiamo dire, fanno comunità. Gli individui si riconoscono come appartenenti a un preciso gruppo, o a diversi gruppi di diversa scala, in quanto condividono storie, memorie, paesaggi, simboli comuni (il Palazzo, la Chiesa, il Santo, la festa, la Montagna ecc.). L’identità come fatto socio-culturale è precisamente questo: condividere credenze, ritrovarsi insieme nell’esecuzione degli stessi riti (religiosi o civili che siano). Colpire un simbolo significa dunque colpire una comunità, mortificarla, metterne in crisi le certezze e la coesione, minacciarne la durata nel tempo. Lo sapevano gli Assiri che occupando le città nemiche si preoccupavano di distruggerne i templi e mutilarne o “rapirne” le statue di culto come lo sapeva Bin Laden ordinando di colpire le Torri Gemelle.
Quali dinamiche psicologiche e sociali regolano la produzione simbolica?
Dicevo rispondendo a una precedente domanda che i simboli non sono dati ma creati, creati dall’uomo per gli uomini, per soddisfarne i bisogni, per offrire riferimenti, per governare la loro vita sociale. Creati dagli uomini e appresi nel corso della vita. La dimensione archetipale del simbolo è in realtà il suo intimo e inconsapevole radicamento nell’immaginario a partire dalla prima infanzia se non dallo stesso livello fetale. Ciò comporta che i così detti simboli “universali” sono connessi a universali esperienze. Così è, per esempio – fermo restando che alla ricorrenza interculturale dei referenti e dei significanti non rispondono, sempre e comunque, analoghi significati -, per i simboli connessi alla vita vegetale e animale, dall’albero all’uovo, dal fuoco all’aquila. Ciò considerato vale, in generale, per i simboli – per la loro formazione, ricezione, circolazione, condivisione – quanto vale per ogni altro prodotto culturale. Per questo mi consenta di rinviare, oltre a quanto dicevo rispondendo alla prima domanda, alle tutt’oggi valide pagine di Alberto Mario Cirese dedicate alla “Dinamica culturale e i suoi processi” nel suo Cultura egemonica e culture subalterne. E ricordo il lavoro di uno degli indiscussi maestri dell’antropologia italiana con precisa consapevolezza, considerato che una delle accuse più frequentemente rivoltemi è quella di essere uno storico delle religioni con derive fenomenologiche piuttosto che un antropologo razionalista e materialista. Sarà. A me piace sempre ricordare quanto scrive sui “diversi modi della visione”, nel trattato Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri, Zakariyyâ’ Ibn Muhammad Al-Qazwînî, un erudito persiano duecentesco. Il significato di guardare – scrive nelle pagine introduttive – “non è tanto quello di scrutare con gli occhi, poiché anche le bestie si associano all’uomo in questo. […] il significato di guardare è piuttosto quello di riflettere con l’intelletto sulle cose che si percepiscono, di osservare le cose che si colgono con i sensi e di ricercare il loro significato profondo e i loro comportamenti, al fine di discernere le loro realtà […]. Riflettere sulle cose che si percepiscono con l’intelletto non è facile, se non per chi già possiede una profonda conoscenza delle scienze umane e delle scienze esatte, dopo aver affinato l’indole naturale e perfezionato l’animo. Solo allora aumenta in lui la capacità di osservare con discernimento e può vedere così in ogni cosa meraviglie di cui, in genere, non è possibile afferrare che una parte”. Accolgo le parole di Zakariyyâ’ Al-Qazwînî come un invito di guardare agli uomini e alle loro culture con la necessaria attenzione riflessiva, non in maniera superficiale, meccanica, “bestiale”. D’altra parte è un presupposto metodologico ben noto, ma non sempre applicato con la dovuta attenzione, ai ricercatori di scienze sociali quello di misurare le loro verità e le loro rappresentazioni con le verità e le rappresentazioni degli uomini e delle donne che si incontrano nell’ambito del lavoro di ricerca. Va sempre riaffermato che l’attribuzione di significati e valori simbolici, di quantità e qualità, a concetti e elementi materiali o immateriali è un fatto squisitamente arbitrario; da un lato culturalmente indirizzato, dall’altro soggettivamente elaborato in relazione alla propria esperienza di vita. Quelli che all’avviso di un osservatore esterno possono apparire concezioni/oggetti/atti inutili, insulsi, inerti, per chi li vive possono essere materiche epifanie di storie e passioni, segni intrisi di sentimenti, simboli insomma, densi, ambigui, interpretandi. Questa, tutto sommato banale, osservazione dovrebbe essere –e generalmente non lo è- tenuta in debito conto da chi, occupando ruoli deliberativi e di governo, ritiene che assumere decisioni pratiche e razionali significhi sempre e comunque arrecare vantaggio alla comunità. Ma, appunto, “non si vive di solo pane”.
Ignazio E. Buttitta insegna Etnologia europea e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università di Palermo. Studia i fenomeni di religiosità popolare in area euro-mediterranea con particolare riguardo all’organizzazione dei calendari festivi e al simbolismo rituale. Tra le sue pubblicazioni: Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali (2002); I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa (2006); Continuità delle forme e mutamento dei sensi. Ricerche e analisi sul simbolismo festivo (2013); La danza di Ares. Forme e funzioni delle danze armate (2014); I cibi della festa in Sicilia (2020).