“Verità di famiglia. Riscrivendo la storia di Alberto Mondadori” di Sebastiano Mondadori

Sebastiano Mondadori, Lei è autore del libro Verità di famiglia. Riscrivendo la storia di Alberto Mondadori, edito da La nave di Teseo. Il sentimento di Alberto, primogenito ed erede designato di Arnoldo Mondadori, nei confronti del padre ne condizionò fortemente la vita: che rapporto li univa?
Verità di famiglia. Riscrivendo la storia di Alberto Mondadori, Sebastiano MondadoriTutta la vita di Alberto è stato un confronto ossessivo, doloroso e spesso frustrante con il padre. Un modello inarrivabile a cui aspirare e da cui emanciparsi nell’ansia disperata di riconoscimento, sotto il segno di un perdurante senso di inadeguatezza che l’ha indotto spesso a esasperare manie di grandezza dalle conseguenze autodistruttive.

Se per un verso cerca di sfuggirgli, inventandosi quelle che il critico Giacomo Debenedetti ha ribattezzato le sue seconde vite (il cinema, il giornalismo, la poesia, il mecenatismo per gli artisti, persino la politica), per un altro Alberto rimane al fianco di Arnoldo alla Mondadori dal ’40 al ’67 affermandosi come una delle figure più decisive e lungimiranti della casa editrice: un aspetto, va sottolineato, poco riconosciuto dopo la sua morte e col tempo passato sotto silenzio. Invece, dalla fondazione della collana di poesia dello Specchio all’invenzione degli Oscar, dalla progettazione alle scelte editoriali, dai rapporti con gli autori, di cui diventa l’unico interlocutore a partire dal 1960, alle relazioni internazionali che lo portano in giro tra New York e Londra, Francoforte e Parigi, pur con dei periodi di assenza, Alberto è stato un grande editore prima di tutto alla Mondadori.

Oltre che un amore protettivo, disposto a perdonargli debolezze e passi falsi, Arnoldo nutre nei suoi confronti un’ammirazione assoluta per le doti intellettuali, il gusto, la preparazione da avido lettore e il savoir faire con gli scrittori e i poeti di cui diventa amico. Ma allo stesso tempo è sempre più preoccupato fino all’esasperazione per la sconsideratezza della sua gestione economica. Anche le idee costano, e Arnoldo ne è perfettamente consapevole. Forse è un po’ riduttivo spiegare il loro dissidio in termini di impresa contro cultura, esigenze di mercato contro progetto culturale, però è vero che se Arnoldo trova sempre una sintesi vincente, con un fiuto innato per i gusti del pubblico, Alberto si rivolge a dei lettori ideali che di fatto non esistono.

Visionari entrambi, ognuno vede un pezzo di futuro diverso. Per Arnoldo è una prateria dove incrementare i bilanci; per Alberto la realizzazione di una società educata e migliorata dai libri. Un capitalista geniale Arnoldo, un idealista sovversivo Alberto.

Qual era la personalità di Alberto?
Pazzo di idee e prodigo d’impossibile, l’ho sempre definito così. Ma attenzione, la sua grandeur è inseparabile dagli aspetti più perniciosi della mania di grandezza: e i soldi, sempre tanti, troppi, giocano un ruolo devastante in questa corsa all’eccesso. Gran signore, impeccabile nell’eleganza sopraffina come nei modi affascinanti e spiritosi, capace di slanci generosi, animato da un’inesauribile voglia di sapere, Alberto ha il carisma del principe illuminato. È innamorato del talento e della bellezza, alla continua ricerca di nuove sfide intellettuali. Gli piace circondarsi di intelligenze diverse, armonizzare personalità contrapposte, convinto com’è, nella sua visione progressista, laica, di sinistra, di spezzare il provincialismo delle consorterie ideologiche in cui è divisa l’angusta società culturale italiana.

I suoi umori seguono disegni imperscrutabili. Basta poco perché la facondia affabulatoria si ritiri in silenzi impenetrabili, gli slanci imperiosi si alternano a chiusure improvvise, popolate da ombre su cui giganteggia il fantasma del padre. Allora diventa impellente il bisogno di liberarsi dal peso dei doveri, del nome, delle responsabilità. Sono fragilità, insicurezze che lo porteranno a periodiche fughe nell’alcol e a repentini voltafaccia con gli amici più intimi. Come se volesse spazzare via la sua storia con un colpo di spugna per ricominciare daccapo con nuovi sogni, in un altrove da inventare.

Dai racconti dei tanti testimoni che ho ascoltato famelico fin da bambino, ciò che prevale nel ricordo è però quasi sempre l’immagine radiosa di Alberto, quello stato di grazia che lo illuminava nei giorni migliori come il profeta entusiasta di un destino migliore. Allora, chiunque gli si trovasse davanti era subito persuaso di appartenere a quella fortunata schiera che l’avrebbe visto e vissuto, quel destino migliore.

Alberto fu sempre molto legato al cugino Mario Monicelli: che ruolo ebbe nella sua vita?
La grande amicizia tra Alberto e Mario è legata alla breve stagione della giovinezza nella prima metà degli anni Trenta. Sboccia nei corridoi del liceo Berchet a Milano, dove diventano subito inseparabili. Nei lunghi pomeriggi che si protraggono in nottate nello scantinato di via Livorno, fondano la rivista «Camminare…» che tratta di cultura, politica e questioni sociali sotto la cappa ingombrante del fascismo, ma soprattutto cominciano insieme l’avventura del cinema. Con loro ci sono altri giovani promettenti, alcuni dei quali diventeranno compagni di una vita: il poeta Vittorio Sereni, che Alberto porterà alla Mondadori come direttore letterario, e i filosofi Remo Cantoni e Enzo Paci. C’è anche Alberto Lattuada, studente di architettura, che seguirà Alberto e Mario nella realizzazione del breve cortometraggio Un cuore rivelatore, tratto da un racconto di Poe, e soprattutto del film muto a passo ridotto I ragazzi della via Paal, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel ’35.

I due apprendisti registi Mondadori e Monicelli si ritrovano sul set di Ballerine di Gustav Machatý con Hedy Lamarr, prima a Tirrenia e poi a Roma, dove Mario intraprende una grandiosa carriera cinematografica, mentre Alberto, dopo una serie di cocenti delusioni, cede alle lusinghe paterne che lo rivuole con sé a Milano. Una scelta, questa, che Mario non perdonerà mai allo zio Arnoldo, e che purtroppo segna il distacco tra i cugini. Ma è un’amicizia che ha segnato entrambi, come testimoniano alcune lettere appassionate tra di loro, certi di sfondare nel cinema uno accanto all’altro. A distanza di quasi settant’anni, Monicelli mi ha raccontato episodi di quei tempi lontani con grande precisione e un insolito affetto, come se il fanatismo della giovinezza fosse rimasto intatto sotto la crosta di cinismo.

Quando e come si consumò, da parte di Alberto, l’abbandono dell’azienda di famiglia?
Alberto fonda il Saggiatore nel 1958, anche se in realtà tra abbandoni ritorni non lascia la Mondadori fino al ’67, quando si rende conto che gli è stato preferito il fratello Giorgio alla successione di Arnoldo, e di fatto viene messo nelle condizioni di «rinunciare alla primogenitura». Le possibilità per un accordo restano ancora in piedi, Arnoldo per primo non vuole perderlo. Ma alla fine di una serie di trattative Alberto prende la sua decisione. In una torrida serata di agosto convoca una riunione segretissima in una sala dell’Hotel Principe di Savoia a Milano. Ci sono amici, dirigenti mondadoriani, collaboratori di lunga data. Dopo aver prospettato il disegno di un Saggiatore più grande, arriva alla domanda fatale: «Siete con me e con mio padre?». Alcuni lo seguono. Molti, su cui lui contava, rimangono con Arnoldo. In pochi mesi Alberto si dimette da tutte le cariche della Mondadori, di cui rimane azionista per ancora due anni, fino alla liquidazione del Saggiatore.

Quali vicende segnarono la sua avventura editoriale in proprio?
La vicenda editoriale del Saggiatore si svolge in tre tempi. Il primo, che va dal ’58 al ’67, nell’alveo della Mondadori, tanto che la sede è comunicante con la casa editrice paterna, che a poco a poco si fa carico degli aspetti produttivi, commerciali e finanziari del Saggiatore. Il secondo, nella sfarzosa sede di corso Europa con la follia di centoquarantanove dipendenti e centoventi novità l’anno, nel biennio ’67-’69. Le traversie finanziarie cominciano quasi subito, e dopo una breve occupazione studentesca culminano con il tracollo economico e la liquidazione. Quando Arnoldo non garantisce più il fido alla Banca Commerciale dell’amico Raffaele Mattioli, Alberto è costretto a svendere tutte le sue azioni della Mondadori: il primogenito di Arnoldo è fuori dalla casa editrice.

Il terzo tempo coincide con il lungo crepuscolo dell’editore, in una dimensione ridotta ma sempre di alto profilo, troncato dalla morte a Venezia nel ’76, solo cinque anni dopo la morte di Arnoldo, dove Alberto trascorre lunghi periodi nell’appartamento di Palazzo Contarini delle Figure, affacciato sul Canal Grande, e gira per i teatri d’opera di tutta Italia inseguendo la sua ultima seconda vita: la musica.

Il Saggiatore porta a compimento un’intuizione di Alberto che risale all’esilio in Svizzera nel ’45, quando propone al padre una svolta significativa della politica editoriale a favore della saggistica. Una saggistica ispirata a un nuovo paradigma, maturato nella coscienza della crisi che attraversa la società all’indomani della seconda guerra mondiale e insieme nell’esigenza di una critica e una comprensione della realtà che si apre a nuove discipline, a partire dall’antropologia – basti pensare ai lavori di Claude Lévi-Strauss, Ernesto De Martino e Margaret Mead – e che di lì a pochi anni si allargherà con crescente insistenza alle discipline scientifico-tecnologiche in vista di un umanesimo scientifico: un’altra prova di quanto futuro davanti a sé vedesse Alberto.

Le coordinate del catalogo definiscono il canone di un mondo a venire: il confronto tra saperi in un’inedita interdisciplinarità; l’approccio pluralista da opporre a quello apodittico delle ideologie correnti; la rottura delle gerarchie; lo sguardo che travalica la concezione eurocentrica; l’accostamento di visioni antitetiche, che si riflette nella composita schiera dei grandissimi consulenti di cui si circonda Alberto: Argan, Bianchi Bandinelli, Paci, Cantoni, Lele D’Amico, De Carlo, Garboli, Galasso, Fortini e su tutti Giacomino Debenedetti, il deus ex machina della Biblioteca delle Silerchie, un prodigio grafico, con le invenzioni astratte ogni volta diverse delle copertine, e le cento pagine di poesie, racconti, lettere o pamphlet che guardano al presente e recuperano chicche del passato, come l’emblematica Lettera al padre di Kafka.

Scambiato per un editore elitario, Alberto ha da subito in mente un progetto illuminista con una vocazione pedagogica. Così, accanto alle riviste specialistiche e ai cataloghi che ospitano interventi di intellettuali su diversi argomenti e portano avanti una riflessione sulla funzione dell’editoria, il Saggiatore punta su una serie di enciclopedie tematiche e si rivolge in maniera innovativa anche a un pubblico di bambini e ragazzi, i lettori da allevare. Sulla stessa linea, viene adottata una politica dei prezzi accessibili a una fascia di pubblico meno abbiente. Tutto ciò, dedicando grandissima attenzione alle novità provenienti dagli editori e dalle grandi università di tutto il mondo attraverso un’opera massiccia di traduzione che contribuisce a sprovincializzare la bigotta Italia democristiana.

Riletto cogli occhi di oggi, il catalogo del Saggiatore è la storia di una rivolta culturale.

Cosa rappresentò, per Alberto, la moglie Virginia?
Nel ’40 Alberto le dedica una poesia, Cecità, il cui ultimo verso suona già come un’accusa: «E tu non vedi». L’anno dopo, durante il viaggio di nozze, scrive un’altra breve poesia, Giorno prima. Sono pochi, desolatissimi versi che gettano un’ombra di incompiutezza su un amore nato inafferrabile, o soltanto carico di troppe aspettative: «Stagione abietta / d’inospite vita, / muterai Virginia / ne gli anni a venire / in disperata verità di essere?».

Per cercare di capire Virginia bisogna andare oltre la sua bellezza da attrice hollywoodiana, anche se in realtà l’avrei vista bene insieme a Lucia Bosé e Eleonora Rossi Drago come protagonista di un dramma borghese del primo Antonioni. E non bisogna farsi troppo incantare dalla grazia con cui intrattiene i suoi ospiti: spiritosa, che parla in tedesco con Thomas Mann, in inglese con Hemingway, in francese con Sartre e intano se la ride con Ungaretti. È graziata da una sensibilità umana, un intuito specialissimo nel cogliere gli altri, come sa bene Arnoldo, il paparino, che la adora ed è sempre pronto ad accogliere le sue perorazioni per il marito. E allo stesso modo non bisogna farsi distrarre dal suo lato più frivolo, dai capricci e dalle richieste senza sosta, da come le piace farsi viziare. Da come rinnega la felicità in un malumore passeggero.

Come in Alberto ma in modo meno traumatico, in lei si avvicendano in momenti solari e assenze abissali, dove si perde in un’insoddisfazione a cui non riesce dare un senso, forse nemmeno voce: perché la vita non le basta comunque. E chi le sta accanto, a cominciare da Alberto, non sa mai se Virginia stia sorridendo con chi ha davanti o si rivolga a un altrove dove abitano le sue malinconie.

L’apparato fotografico del libro è davvero imponente: in che modo le foto hanno accompagnato il Suo viaggio nei ricordi di famiglia?
«Memoria che ancora hai desideri»: è un bel verso di Sereni, al quale fa eco l’inesausta meraviglia di Pavese guardando al passato. Le fotografie, con la loro apparente compiutezza, sono in realtà delle piccole epifanie che risvegliano altre storie possibili o gettano una nuova luce, danno un senso diverso al passato. È questa la via che ho seguito, che definisco l’intelligenza silenziosa del romanziere, risvegliata appunto dalle immagini che costellano il racconto e fanno da sfondo all’immaginazione dei ricordi.

La mia è una scelta che mescola momenti privati e scatti ufficiali. A volte le immagini fanno da contrappunto alle parole, e nella loro autonomia lasciano intuire altre vicende. Altre volte illustrano la scena raccontata. E poi c’è l’implacabile metamorfosi del volto di Alberto: l’entusiasmo che si incupisce in melanconia, la troppa stanchezza da spiegare sui tratti severi e ironici e già tragici mentre la vecchiaia lo assale prima del tempo. Mancano invece le foto della villa di Camaiore. Ci sono solo scorci, quasi fossero rubati, del giardino, perché volevo affidare alle sole parole la forza dell’evocazione di un mondo dorato, avvolto in un alone romantico tra lo sfarzo di Fitzgerald, l’ambizione smisurata del Charles Foster Kane di Orson Welles e il senso della fine di Thomas Mann, che è sparito con i suoi protagonisti. Come un battito di farfalla di cui si è persa l’eco.

Alla fine non fu maestro di nessuno

Sebastiano Mondadori è nato a Milano nel 1970 e vive da anni in Toscana. Tra i suoi libri, i romanzi Gli anni incompiuti, Sarai così bellissima, Come Lara e Talita, Un anno fa domani, Miracoli sbagliati, Gli amici che non ho, L’anno dello Straniero, Il contrario di padre; le poesie I decaloghi spezzati; La commedia umana. Conversazioni con Mario Monicelli e Prove di autoritratto con Salvatore Veca.

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